Laguna Beach profuma di sogni confezionati e brillantina.
Non sarà il pianeta Texlahoma, ma quello congelato sui calendari è lo stesso eterno giugno 1974. Ogni sera il ballo della scuola regala lampi di gloria ad una reginetta, mentre lo splendore incarta le spiagge condotto per mano dalla marea ed un’ultima notte spensierata si consuma sulle strade. Anche il liceo è ormai solo una cartolina nell’album dei ricordi: istantanee ed acconciature improbabili, trofei come esclusivo appannaggio dei ganzi più in vista ed una manciata di schede ancora vuote destinate alle innumerevoli repliche dei giorni a venire.
Tavole bianche e gialle, piccole creste di spuma, un acciottolato di conchiglie sull’accogliente trapunta dorata di sabbia. Laguna Beach è il set di American Graffiti che si ingarbuglia con quello di Big Wednesday, e allora a farsi immobile sarà il 1962 con i suoi bolidi, le sue canzoni memorabili e quella tempestiva nostalgia elargita da mani generose per dare ancor più sostanza alla trama. In un caso o nell’altro, la quintessenza di questo diorama rimane però l’estate con il suo bel gravame di morte, come recitava quel cantante nella sua estenuata posa maudit.
Laguna Beach era il luogo comune perfetto da cui defilarsi. Ty non l’avrebbe ammesso, ma scappava solo per infilarsi in un’altra angusta formula convenzionale, quella dell’ulcera da chitarre. Cominciò lasciando correre i capelli sulle spalle e stipando la valigia con i più brutti camicioni a quadri dai tempi di Seattle Capitale. Con San Francisco a distanza poco più che irrisoria, un pretesto inattaccabile avrebbe viaggiato al sicuro con lui nella custodia della Fender Jaguar. Per l’apprendistato si scelse ruoli minori nelle più marginali formazioni del pidocchioso circuito garage della Bay Area, facendo pratica intensiva tra sgroppate punk, effrazioni rockabilly, smargiassate in bassa fedeltà e digressioni canzonettare senza alcuna pretesa degna di nota. Il buono delle parentesi Epsilons e Party Fowl sarebbe stata l’unione dei tre puntini di sospensione al loro interno: un Segall ancora impacciato e fuori fuoco ed i suoi sodali perditempo Charles Moothart e Mikal Cronin, cacciati a forza nel suo furgone di fuggiasco con un set di pentole spacciato per batteria ed un basso tenuto su con sputo e scotch da pacchi.
(…)
Tutto questo era cinque anni fa, forse nemmeno.
Oggi racconteremmo dell’allegra accolita di ventenni californiani menzionando ancora le cassettine sgrause degli esordi – demo, cover e disimpegno plateale – non fosse che ad una delle loro serate capitò il negus di quella scena, John Dwyer, evidentemente in buona e con i contratti della sua etichetta nella tasca del giubbetto. Il diavolo del disco eponimo non sarebbe mai stato brutto come ci si è divertiti a raccontarlo. Con ‘Lemons’ e ‘Reverse Shark Attack’ ha persino imparato a confezionare i coperchi, tirando fuori dal cilindro quel paradigma fuzz-pop beatamente cialtrone ed irresistibile, revivalista ma già apparecchiato in studio con la dovuta perizia. I grovigli rumorosi applicati come pesanti maschere di cartapesta alle canzoni non hanno impedito al songwriting di farsi via via più limpido, anche se questo è valso il giocare a carte scoperte e la dettagliata confessione di un debito di riconoscenza imbarazzante nei confronti del Lennon più intrepido. L’approdo in Drag City ha quindi assunto i contorni di una gratifica repentina ma sostanzialmente giusta.
Per disobbligarsi, Ty si è cucito addosso la maglia a punti del Tour degli straordinari. Prima è entrato in collisione creativa con l’hipster losangelino celato dal moniker White Fence, quindi ha sconfessato assieme alla band i propri più solidi cliché spostando con prepotenza la barra sui settanta, per poi concludere un trittico di fuoco con la proverbiale aurea medietas di oraziana memoria. Dalle atmosfere retrò floreali e dal jingle-jangle dell’epopea Paisley di ‘Hair’ al Leviatano prog-glam-space-hard-rock di ‘Slaughterhouse’ al mitigante rinculo espressivo di ‘Twins’, il tutto in cinque mesi e spiccioli.
Con quest’ultima fatica, la parola “sdoganamento” dovrebbe aver trovato cittadinanza sulla sua pagina Wikipedia. Nel loro standard i nuovi episodi si propongono ora come la versione accelerata degli hook pazzeschi di ‘Goodbye Bread’, ora come modalità “bambini accompagnati” di quella stessa fantasmagoria pop drogata che nel disco con il gruppo vampirizzava senza remore Black Sabbath, Hawkind, T.Rex e Stooges, affogandoli poi crudele in una bagna di feedback roventi. L’isteria dura e pura ed i bramiti elettrici hanno dato immediata conferma della loro presenza, e grazie all’Altissimo per ogni singolo peccato escogitato e per ogni vizioso adepto imbucatosi alla festa. Ed ecco, in tema di dissolutezza gli abusi sulle pedaliere indifese restano un dato difficile da contestare. Il tetano da lamiera delle chitarre non riesce tuttavia a ribadire l’apoteosi per riverberi e grattugie del predecessore, pur prefigurando ancora un discreto sfracello nella resa dal vivo. Ty insiste a cantare da invasato, a travestirsi da monello impertinente, ma dietro il guazzabuglio caciarone da due minuti e via la sua scrittura si è fatta più consapevole e meno pretestuosa, così come il talento nel gestire il ridotto capitale di hit a disposizione.
Lato A killer, lato B filler, nessuna vergogna citata nei credits.
Il tono generale è da psichedelia di grana grossa, ostentatamente incurante di sé quanto astutissima nella sua deliberata assenza di riguardi formali. Fox in the Fuzzbox, perché il ragazzo di oggi ha lo sguardo ingannevole del predatore volpino. Poi certo, seguirlo nelle sue euforiche scorribande studiate a tavolino rimane un sollazzo ancorché epidermico, specie quando capita di imbattersi in corposi assoli degni di un J.Mascis particolarmente arruffato, nel beat da scoppiati e in quelle inconfondibili elettriche slabbrate che puzzano ormai di marchio registrato.
Quella di Ty è musica sempre e comunque adulterata e ritemprata seguendo le proprie inclinazioni più malate o la propria gioiosa indole kitsch. Non si spiega altrimenti il sadico détournement applicato all’immancabile drappo beatlesiano, oppure la tipica strafottenza grunge ingollata e rigurgitata in un pastone di polpa aspra ed ironia come certe grottesche popsong del vecchio Scott Weiland, destinate da chissà quale dio a sfumare nel solito, matematico sing-along. La sua adorabile e canagliesca weirdness si esprime al meglio nella chiassosa miscela di modernariato sixties, garage-blues da eterno dropout e pitoccheria assortita di marca Woodsist o In The Red: nell’insieme, una patente da navigato modaiolo abilmente contraffatta, l’arte del futile, del pestone e dello sciroccato, assimilata quando ancora andava a bottega dal frontman dei Thee Oh Sees e dormiva in quel furgone malmesso appena arrivato dal sud.
I suoi sogni di adolescente si sono avverati in un altrove meno artefatto, ma anche così ogni prospettiva futura pare preclusa. Non c’è alcun domani, canta lui quando è tempo di congedarsi. Restano invece le schegge taglienti del surf rock per cuori a grinze. Restano i cocci infranti di una endless summer californiana che ha perso ogni propensione alla magia e tende piuttosto al blando torpore da acidi, all’apatia sfarfallante di una vecchia pellicola sacra ormai irrimediabilmente guasta.