Oggi Dylan è un Fratello Felice

 

Se appartenete alla nutrita schiera di fini pensatori che vivono con inappellabile orrore tutto ciò che qualche avventato recensore ha sbrigativamente liquidato come "derivativo", fate bene a non proseguire nella lettura di questo articolo. Se, al contrario, siete convinti che ogni presunta novità nell’attuale scena musicale sia inevitabilmente frutto di un continuo lavoro di recupero e riciclo creativo, il consiglio è di appuntarvi il nome "Felice Brothers" da qualche parte e di approfondire al più presto. Per quanto la ragione sociale in questione non sia esattamente nuova di zecca, per lo meno negli stati Uniti, sono ancora in pochi quelli che in Italia si sono accorti di una band che pare difficile non definire fenomenale, pure con l’incombenza minacciosa di quel bistrattato aggettivo. I resoconti biografici reperibili in rete sono tutti estremamente stringati: il gruppo, come suggerisce la denominazione, è composto da tre fratelli (Ian, Simone e James), con l’aggiunta di un paio di fidati compagni di lungo corso. Un film visto tante volte, anche in tempi recenti. Sonorità e riferimenti, poi, sono tra i più abusati ed apparentemente logori in circolazione: Bob Dylan. Un solo nome rilevabile in concreto, ma di quelli che nel 2009 potrebbero far sembrare legittimo un repentino cambio di canale. Invece no, questa volta lasciare equivarrebbe ad una sciocchezza. Pitchfork l’ha fatta. Nell’archiviare l’eponimo ‘The Felice Brothers’, secondo vero e proprio LP di questa compagine (fatta la tara ad un prima acerba opera acustica e ad un paio di raccolte vendute inizialmente solo durante i concerti), il trombone di turno sciorinava tutto un repertorio di bei concetti triti e ritriti sul dylanismo ancora imperante, su come tanti giovani musicisti si perdano nell’imitazione pedissequa "catturando immancabilmente il suono ma quasi mai la magia incisiva", sull’insensatezza di chi abbraccia un surrogato quando c’è l’originale bello e pronto, a disposizione. Con coerenza ammirevole quelli di Pitchfork devono aver considerato il nuovo album dei fratelli Felice, ‘Yonder Is The Clock’, indegno di un pur laconico resoconto, non avendovi ravvisato segni evidenti di pentimento stilistico. Poco male, ci è stata risparmiata la solita stanca tiritera da passatisti senza frontiere.

I ragazzi originari dei monti Catskill, esplosi poco più di cinque anni fa come fenomeno letteralmente underground (i primi show cittadini li tennero infatti nelle stazioni della metropolitana di Greenwich Village e Union Square), hanno in effetti qualcosa in più rispetto alla miriade di gruppi e gruppuscoli più o meno validi nati sull’onda sempre lunghissima dei successi immortali del signor Zimmermann: un talento vero e cristallino che va ben al di là della volgare mimesi, concretizzandosi proprio in una miscela benedetta di poesia, epicità e magia, che rende molto meno pesante il fardello di un debito quantomai scoperto. Tra i nomi nuovi, anche quello (notevole) di Donovan Quinn & The 13th Month esce ridimensionato dal confronto. Basta mettere su il disco e lasciar andare ‘The Big Surprise’ per rendersi conto di quanto l’omaggio trascenda l’idea di maschera assumendo i contorni di un’affinità quasi spirituale, per quanto illusoria essa possa apparire. Nelle vibrazioni sottili di questo nuovo esordio non si nasconde banalmente una forma di aderenza estetica, nè tanto più di meschina aderenza. L’amore per Dylan è palesato dentro ogni risvolto di questa placida folksong: nei tempi, nel cantato, nella malìa ruvida ed un tantino strafottente, cui i fratelli aggiungono le sensazioni terrose, fumisteriche ed alcoliche, che portano in dote con innata autorevolezza. Ha fatto molto bene Conor Oberst a metterli sotto contratto con la Team Love, piccolissima etichetta da lui fondata e per la quale già militavano, tra gli altri, Gruff Ryhs e Nik Freitas: scelta preziosa in un ambito musicale neanche poi così distante dagli orizzonti sonori  riconoscibili nell’ultima fatica discografica di Mr. Bright Eyes, per quanto qui sviluppati con idee e consapevolezza decisamente migliori. Per quanto il Dylan celebrato dai Felice Brothers sia prevalentemente quello della svolta elettrica del ’65, quello di ‘Bringing It All Back Home’ e ‘Highway 61 Revisited’, in ‘Yonder Is The Clock’ alcune delle pagine migliori sono quelle scritte prediligendo un’impostazione più sofferta, meditativa. ‘Ambulance Man’ ne è un esempio chiarissimo, con un bel contrasto tra il tono vagamente funereo evocato dalla fisarmonica ed il respiro oggi non proprio comune conferito dalla chitarra essenziale e dalla incredibile voce strascicata di Ian. Una ballata gentilmente lacerante, come non se ne sentono più, ma non un episodio isolato. ‘All When We Were Young’ sviscera l’anima più intima e notturna del quintetto di Brooklyn con arrangiamenti puliti, eleganti, l’ottimo contrappunto del pianoforte e ricami fascinosi di slide e Cry Baby. ‘Katie Dear’ insiste in questa direzione accentuando il taglio romantico ma mantenendo un pregevole senso della misura, senza dilungarsi eccessivamente e senza cedere terreno alle tentazioni piacione e alla melassa. Verso la conclusione, poi, ‘Cooperstown’ sorprende svelando i Felice Brothers seri e profondi, nel solco di una tradizione che omaggia per una volta anche il Neil Young pre-Harvest senza timori reverenziali e con una fiducia nei propri mezzi che non può non lasciare ammirati. E’ un folk classico ed attualissimo, suonato a regola d’arte, imperdibile non solo per gli appassionati.

 

Curioso come certi rimandi all’epopea dylaniana affiorino del tutto casualmente ma sappiano tradursi in suggestioni potenti. Tutti i telegrafici resoconti in merito alla breve esperienza dei Felice Brothers non mancano di citare un concerto leggendario tenuto dai fratelli al celebre Newport Folk Festival in Rhode Island, nel 2008. Un’edizione in condizioni climatiche proibitive, con uno show senza elettricità svoltosi sotto al palco in mezzo al pubblico ed in versione totalmente unplugged. Il Newport Folk Festival, stessa ambientazione dello strappo servito più di quarant’anni prima dal menestrello di ‘Like a Rolling Stone’ a puristi del folk e benpensanti, uno schiaffo memorabile. Sulle orme di quell’artista in quel particolare momento storico i Felice Brothers stanno costruendo la loro carriera, alternando come detto la loro vena più accesa e roboante a momenti di più rilassato spleen autoriale, e completando il quadro con sonorità frenetiche e di entusiasmante vitalità. In tal senso ‘Yonder Is The Clock’ offre all’ascoltatore una varietà di soluzioni ed una compiutezza forse anche maggiore che nei due capitoli precedenti. ‘Chicken Wire’, per dire, ha una scoppiettante propensione al blues, è laida ed emozionante insieme, saccheggia con devozione febbrile il Dylan di ‘Maggie’s Farm’ ma come nel bel mezzo di una seduta particolarmente allegra e sbracata. Qui i riferimenti ai vari Joe Henry, ai Freewheelers, ai Whiskeytown, ai Marah ma anche ai Black Crowes si sprecano. Come già nelle famiglie Bielanko e Robinson, i fratelli che vanno a briglia sciolta saranno anche meno eleganti ma mostrano scampoli di inarrivabile purezza. Che quello di ‘Memphis Flu’ sia un titolo assolutamente azzeccato pare innegabile: l’influenza sudista si respira a pieni polmoni, il clima è accalorato, alticcio, svaccato, perfetto come alleggerimento (dal gruppo che ha scritto ‘Whiskey In My Whiskey’ è il minimo che ci si possa aspettare). Anche in ‘Penn Station’ si opta per un’andatura trottante che è ideale per la voce roca e da adorabile canaglia di Ian. C’è più equilibrio comunque, la canzone è degna di nota. Un crescendo verace con aromi da country-blues d’osteria non inficia il giudizio positivo e non cancella l’impressione di una destrezza naturale e disinvolta, il marchio di fabbrica della band. L’apoteosi arriva comunque intorno a metà disco (dopo un paio di rallentamenti) con ‘Run Chicken Run’, strepitosa deviazione sanguigna, singolone tutto nervi che trascina con il più irresistibile dei ritornelli bostick e si candida a diventare la più degna erede dell’ormai classica ‘Frankie’s Gun’, il must di ogni concerto dei Felice Brothers. Genuinità ed efficacia sono espressi nella loro pienezza, senza bisogno di ricorrere a chissà quale artificio o doping produttivo.

Non è tutto. Con ‘Boy From Lawrence County’ torna a riecheggiare l’elegia dylaniana, ma sono gli incanti western di ‘John Wesley Harding’ e della colonna sonora di ‘Pat Garrett & Billy The Kid’ a prendere il sopravvento questa volta, in una forma depurata dalle scorie più caustiche e fracassone del collettivo per lasciar emergere un profondo afflato yankee, cui giova non poco il contributo del banjo e del mandolino. Con un’ellissi espressiva che non esclude una certa coerenza stilistica di fondo, in ‘Yonder Is The clock’ c’è spazio anche per ombre di altra natura ma non meno interessanti. Il cantato e lo sciroccatissimo piano dal sapore di Bourbon di ‘Buried In Ice’ evocano senza troppe ambiguità lo spettro del maledettismo d’alta scuola del Waits dei seventies. Sicuramente l’atteggiamento, la posa, l’adeguamento ai relativi cliché hanno il loro peso ma, come scritto riguardo all’omaggio a Dylan, è indubbio che i Felice Brothers ci mettano anche molto del proprio: una vocazione, una sincera attitudine verso forme musicali polverose. La riprova di questo secondo importante riferimento arriva con ‘Sailor Song’, ennesimo rimescolamento di carte in un album che è tutto un travestimento di stili ed influenze: il pianoforte cambia registro e si fa più classico, sofisticato, delineando i contorni di una ballad sostanzialmente depressa, prossima al romanticismo waitsiano degli ’80. Ancora una conferma dell’abilità eclettica di un gruppo che ad oggi sembra già molto più che una semplice promessa. Appuntatevi il nome, questi ragazzi faranno molta strada.

 

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