Evan Dando @ Hiroshima

16/11/2009 _ Il nostro (altro) concerto

 

Parte con questo pezzo su Evan Dando una sorta di rassegna secondaria di live report, appositamente ideata per tenere traccia di alcuni concerti recenti che non hanno trovato altra cittadinanza in rete, oppure per raccontare con taglio più romanzesco alcune tra le migliori esperienze dal vivo cui ho avuto la fortuna di prendere parte.

Mai capito come funzioni la testa di Evan Dando. Mai afferrato il senso di una carriera gettata alle ortiche per via di un’incostanza a dir poco scellerata, e di tutta una serie di irritanti fragilità caratteriali che hanno minato successi commerciali e probabili affermazioni artistiche, mettendo a rischio perfino la vita di questo enigmatico cantante americano. Non importa. Dando è Dando e lo prendiamo come viene, anche perché il modo in cui si è reinventato negli ultimi dieci anni lascia presagire un più che dignitoso prepensionamento, sufficientemente maturo e – cosa più importante – al riparo dai burrascosi eccessi della sua età dell’oro. La fama arrivata comunque inattesa, dopo anni di gavetta hardcore melodica sulla scia di Replacements e Hüsker Dü, aveva il volto ambiguo del frontman capitato per caso: la stessa pulitissima faccia da schiaffi del figlio di papà degli esordi, giusto con qualche accorgimento estetico che lasciasse intendere un’inclinazione trasgressiva, una di quelle buone negli anni ruggenti della prima MTV generation. Capello lungo, aria finto angelica e look finto trasandato: un taglio che fosse buono per i teenager ma anche per i genitori, mica come certe bestiacce che passavano ugualmente in heavy rotation sugli stessi canali in quei giorni. Per fortuna le canzoni dei Lemonheads c’erano eccome e l’apparenza servì più che altro come richiamo. Evan il bello divenne famoso, corteggiato dai media e drogato perso. Cioé, perso non proprio, ma per un pelo. Seppe ritrovarsi dopo qualche tempo con un disco intenso e snobbato come ‘Car, Button, Cloth’, ma la popolarità già in declino e gli scarsi riscontri peggiorarono ulteriormente le cose sancendo la fine di quella prima esperienza a marchio Lemonheads. Di personaggi anche talentuosi eletti al rango di superstar e bruciati a velocità supersonica se ne erano già visti tanti, anche negli anni ’90, per cui il destino del vulnerabile cantante di Boston sembrava segnato irrimediabilmente, con buona pace di chi aveva amato le delicatissime canzoni di ‘Lovey’, ‘Come On Feel’ e naturalmente ‘It’s a Shame About Ray’. Una morte in preventivo quindi, ad andar bene un doppio tuffo carpiato nell’oblio ed amen. Invece no. Il ritorno di Evan, nel 2003, è stato di quelli silenziosi ma confortanti, una miracolosa testimonianza di come a volte gli strappi alla regola esistono, soprattutto quando si parla (a vanvera magari) di perdizione. Il riscatto affidato ad un piccolo album che ha dentro alcune delle canzoni che preferisco tra tutte quelle di Evan, ‘The Same Thing You Thought Hard About Is The Same Part I Can Live Without’ in testa. Soprattutto la rivoluzione nel tono adottato in termini di songwriting e produzione, la scelta di un basso profilo e di un orientamento confidenziale che nell’ultimo Lemonheads era stato effettivamente accennato ma che ora trovava il sigillo di un’autenticità piena e toccante, mai posticcia o di comodo. Un ottimo primo passo, dunque, come ritorno alla vita artistica, seguito dopo qualche tempo dall’opportuna riesumazione della storica ragione sociale e dalla rinnovata attitudine indipendente degli esordi. Per un vecchio fan come il sottoscritto si concretizzava la possibilità di ritrovarlo finalmente su un palco invece che nei soliti trafiletti sulle riviste specializzate. Il tour del rilancio me l’ero perso ma ho rimediato a fine 2008, con un nuovo passaggio italiano dei Lemonheads. Bellissimo concerto quello dello Spazio211 (al cui report si accede dalla foto qui sotto), una smentita definitiva al falso mito del cantante orco irascibile e, per contro, una conferma della sua sostanziale sbroccatezza, della sua vena strampalata e struggente, di quelle canzoni sempre uguali a loro stesse e sempre favolose, anche se sgualcite o costrette nella cornice di un’esecuzione sbrigativa e arruffata.

  

Ovviamente ci fu chi parlò male di quel concerto fermandosi alle etichette, piegandosi alla comodità di stereotipi vecchi di quindici anni e guardando con proverbiale miopia solo alla superficie dello show, senza capacità di soffermarsi tra le righe, nelle ellissi, nel "sottotesto", diciamo così. Quel critico così accorto e sicuro del fatto suo sarebbe inorridito assistendo ad uno dei concerti che Evan ha portato in tour alla fine dell’anno scorso, presentandosi con il proprio nome e senza una vera band di contorno, se non si considerà il vecchio (e fidatissimo) amico Chris Brokaw che ha aperto per lui molte date e, in qualche caso (non qui a Torino però), suonato qualche pezzo assieme a lui. Avrebbe sputato le peggiori sentenze il nostro caro recensore dabbene, presenziando ad un live che di promozionale aveva davvero poco o nulla (l’uscita discografica più recente – l’album di cover ‘Varshons’ – non è stata pubblicizzata da Dando che si è limitato ad includere qualche pezzo appena nel flusso torrenziale che è stata la sua esibizione) e che ha del tutto rifiutato il concetto di spettacolarità, limitando la performance ad una serie ininterrotta di brani elettracustici per voce e chitarra, in piedi sotto un faretto quasi spento davanti ad un pubblico che definire esiguo è dire tanto. Non so come la pensiate voi in merito all’impatto che un’esibizione dal vivo dovrebbe avere, quello che posso dire io è che la serata con Dando all’HiroshimaMonAmour è stata semplicemente magica. Trenta spettatori malcontati (ma motivati), un Evan all’apparenza non proprio lucidissimo ma sicuramente ispirato, pochi dettagli a rapire l’attenzione (come la foto delle figlie sulla chitarra) e poi unicamente la sua prova, sviscerata senza vere pause inannellando una dopo l’altra tante delle perle scritte in anni di carriera, tra quelle che meglio si prestavano per una simile resa sonora. Una sorta di collana che ci ha presentato Dando al di là della facile maschera dei Lemonheads, lontano dai riflettori, le sue canzoni al grado zero, senza inutili abbellimenti e dunque al massimo della loro purezza, rustica e delicata insieme. Il senso di uno show così unico sta tutto qui. Non è usuale affrontare un repertorio di tale qualità in una forma tanto inconsueta ma emotivamente potente come quella scelta dal sopravvissuto di Boston come intima e formidabile autoconfessione. Un collage lungo una buona ora e mezza, che ha tenuto insieme con coerenza straordinaria pezzi dell’unico passaggio solista di Evan (ottima ‘My Idea’), rari frammenti da ‘The Lemonheads’, un tripudio di successi dai due album più famosi e qualche rivisitazione di quelle già proposte in ‘Varshons’, album che, a parte qualche pessimo scivolone (vedi l’orrendo trash-pop di ‘Dirty Robots’) ha avuto l’indubbio merito di renderci una fedelissima cartolina del Dando di oggi, adulto, posato e (sottilmente) tenebroso come un Mark Lanegan dalla voce più umana. Non deve stupire che la cover di ‘Beautiful’, brano di Linda Perry portato al successo da Christina Aguilera (!), si sia rivelata una delle vette dell’intera serata: nell’interpretazione di Evan questa canzone ha trovato una sincerità davvero disarmante e pareva essergli stata cucita addosso dal primo istante. Un po’ come le foto scattategli in una penombra radicale, da lui espressamente richiesta al tecnico delle luci a inizio concerto: istantanee di cui per una volta sono soddisfatto (il link alla galleria è nella prima immagine in alto), in quanto credo abbiano colto la sua attuale bellezza ruvida, crepuscolare, lontanissima da quella delle copertine di ‘People’. Alla fine un sacco di applausi con lui che ci ha lasciati sorridente e non è più tornato sul palco, evidentemente sconfortato (come tutti noi peraltro) da una presenza così scarsa di spettatori. Dopo i saluti al bravissimo Brokaw al banchetto del merchindising, allestito per ospitare unicamente dischi dell’ex Come ed ex Codeine (e questo la dice lunga sulla totale indifferenza al business del ritrovato leader dei Lemonheads), fuori dall’Hiroshima ho approfittato per appuntarmi su di un foglio, tra una chiacchiera e l’altra, tutti i pezzi che ricordavo di aver sentito. Una trentina circa (un paio me li sono persi, mi sa) che presento di seguito come scaletta del live in ordine assolutamente aleatorio. A conti fatti, una canzone ogni spettatore. Ad un concerto dei Lemonheads, se vogliamo. Provate a dirmi che non é una cosa incredibile…

‘No Backbone’ / ‘Whoops’ / ‘Layin’ Up With Linda’ / ‘Hospital’ / ‘Repeat’ / ‘New Mexico’ / ‘Frying Pan’ / ‘December’ / ‘It’s All True’ / ‘My Drug Buddy’ / ‘Down About It’ / ‘Hannah & Gabi’ / ‘It’s About Time’ / ‘Why Do You Do This To Yourself?’ / ‘The Great Big No’ / ‘Pittsburgh’ / ‘Into Your arms’ / ‘Confetti’ / ‘Rockin’ Stroll’ / ‘All My Life’ / ‘That’s No Way To Say Goodbye’ / ‘The Outdoor Type’ / ‘Frank Mills’ / ‘It’s a Shame About Ray’ / ‘If I Could Talk I’d Tell You’ / ‘My Idea’ / ‘Beautiful’ / ‘The Turnpike Down’ / ‘In The Grass All Wine Colored’

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