Non c’é II senza III

 

Il primo aprile di cinque anni fa il bimestrale d’arte Arthur Magazine pubblicò una raccolta di canzoni intitolata ‘Golden Apples of the Sun’, curata da un Devendra Banhart in pieno fermento creativo. Il guru della New Weird America fu abile a riunire un cast di tutto rispetto per celebrare definitivamente se stesso ed il movimento folk psichedelico nell’anno magico di ‘Rejoicing in the Hand’ e ‘Niño Rojo’. I critici non persero l’occasione per rimarcare l’importanza dell’evento anche se oggi, a poco più di un lustro di distanza, sembrano trascorsi un paio di secoli. Vien quasi da chiedersi se non si sia trattato in realtà di un colossale pesce d’aprile. Il Devendra attuale pare la brutta controfigura dell’imprevedibile revivalista che imbambolò un po’ tutti in virtù di uno stile e di un’attitudine sempre e comunque brillanti. Spiace dare ragione a chi si ostina a sostenere che per gli artisti indipendenti la firma con la major di turno equivale a svilirsi, ma in questo caso risulta alquanto difficile negare che dal sodalizio con la Warner siano uscite drasticamente ridimensionate le potenzialità e la scrittura del cantautore californiano. Valutando nello specifico l’evoluzione (o involuzione) espressiva dei vari protagonisti di quella stagione (pure così vicina), si noterà facilmente come la normalizzazione del capoclan non abbia rappresentato un caso isolato. Senza voler sostenere che il cambiamento si sia concretizzato necessariamente in termini peggiorativi, è comunque indubbio che in tanti abbiano deciso di abbandonare i vessilli psych folk per tentare nuove soluzioni. Dopo l’esordio di ‘The Milk-Eyed Mender’, Joanna Newsom ha scelto di limitare le asprezze privilegiando orchestrazioni ricchissime e cercando una nuova via di alienazione nella bellezza. Le due più fulgide attrazioni del circo banhartiano – Jana Hunter e Andy Cabic – hanno ritenuto opportuno imborghesire la loro proposta con la raffinatezza del velluto, mentre Iron & Wine ha puntato su sonorità più corpose e i White Magic si sono ritagliati una comoda nicchia sotto la sempre più mastodontica ala protettiva di Will Oldham. A costituire l’eccezione in un quadro di genere dai forti connotati centrifughi, ecco i sempre sorprendenti Six Organs of Admittance e Espers, i soli gruppi ad aver consolidato le rispettive posizioni all’interno di un territorio assai meno agognato dai musicisti che non nel recente passato.
Ben Chasny e Greg Weeks sono autori schivi e un po’ folli, guidati da un’insolita esuberanza creativa che non sempre hanno saputo incanalare in forme musicali coerenti e dotate di una precisa identità. Parte del fascino delle rispettive band risiede anche nell’ambiguità formale che spesso si addensa in un potente coacervo di irregolarità espressive. Chasny, in particolare, è spesso vittima del proprio prolifico entusiasmo e di un songwriting formidabile quanto dispersivo. La sua prova più recente, ‘Luminous Night’, non si sottrae alla tendenza ma ha il pregio di proporsi come una sorta di convincente compendio stilistico dei Six Organs of Admittance, ben radicato quindi nell’ambito musicale di cui si sta parlando. Raffrontata con la sua, la musica degli Espers è sicuramente meno estrema ma può comunque fregiarsi di un’energia trattenuta e pulsante che per il gruppo di Philadelphia è una sorta di inconfondibile marchio di fabbrica. Per quanto possa lasciare perplessi ad un primo e superficiale ascolto, il nuovissimo ‘III’ non delude le aspettative quando la fruizione si fa più attenta e reiterata. Un po’ come capitava con gli altri LP della ditta, che non sono due come si potrebbe immaginare fidandosi della titolazione numerata progressiva, bensì tre (l’ottima raccolta di cover ‘The Weed Tree’ è infatti un album a tutti gli effetti). Immaginare la musica di questo bislacco collettivo come una realtà stagnante, alla luce di quanto appena scritto o in virtù dell’amore incondizionato dei cinque per il folk inglese di quarant’anni fa, sarebbe comunque un grosso errore di valutazione. Seguendo una sorta di ideale percorso in parallelo con le opere realizzate negli anni dal solo Weeks, gli Espers hanno in fondo manifestato una chiarissima volontà evolutiva: dopo il trionfo dell’impeccabile nitore folk di ‘I’ (sviluppato in precedenza da Greg nel suo ‘Awake Like Sleep’ con rispetto ossequioso nei confronti della tradizione) e la squillante festa dell’immaginazione celebrata in ‘II’ (di poco anticipata dall’equivalente capolavoro del Weeks solista, ‘Blood Is Trouble’), il gruppo modella ora un album dalla curiosa natura ibrida, ineccepibile nel suo snodarsi tra le limpidezze del genere e qualche eccentrica tentazione prog, tra l’incanto mai abbandonato di Pentangle e Fairport Convention e le bislacche derive psichedeliche di Gong e Gentle Giant, proprio come nel notevole laboratorio weeksiano dell’anno passato, ‘The Hive’.
 
L’episodio introduttivo, ‘I Can’t See Clear’, è quanto mai emblematico. Gli ingredienti classici dell’inventiva di Greg sono tutti presenti e messi in luce con la dovuta enfasi: voce eterea, guarnizioni barocche, sinistre suggestioni e l’ormai immancabile elettrica fuzzata come perfetto contraltare all’ariosità della parte acustica e vocale. Un ottimo esempio di folk genuino e a più dimensioni, intrigante, mai banale e non privo di inquietudini come nella tradizione dei primi Gorky’s Zygotic Mynci (diciamo nel paradigma di ‘Bwyd Time’). Ancora una volta uno degli aspetti più rilevanti e insieme pregevoli della musica degli Espers è il respiro conferito dalla band con naturalezza assoluta, alquanto evidente in un gioiello come ‘The Road of Golden Dust’: a restare impresse sono le atmosfere sospese e gli umori ancestrali garantiti dalla solita chitarra acidissima, ideale sostituta della celesta o del Glockenspiel degli standard folk medievaleggianti. Trame ossessive dal sapore psichedelico assai marcato e lampi elettrici spiazzanti (per i quali si potrebbe azzardare l’etichetta “spacefolk”) completano il quadro, le cui tinte fosche risultano poi accentuate dalla marzialità degli archi elettrificati. Inutile spiegare come l’effetto di una simile miscela si riveli vibrante all’ascolto: la magia di questo gruppo non si concede mai agevolmente alla traduzione in parole. Certo non tutto fila via liscio. Un limite appariscente è rappresentato dal ricorso quasi iperbolico a certi cliché espressivi, con la riproposizione puntuale di formule codificate che finiscono con lo svilire la sorpresa in un automatismo forse troppo programmato a tavolino. I crescendo febbrili e misticheggianti affidati all’elettrica di Weeks sono l’esempio più lampante di un meccanismo che perde fascino nella sua reiterazione, al di là del curioso impiego in chiave nervosa o teatrale per cui è approntato nel caso specifico (i già citati brani d’apertura, ma anche ‘Colony’, con la sua gravità ammirevole, o ‘The Pearl’), a meno che non sia ideato come giustapposizione formale ad un diverso standard: è quanto capita nell’eccellente ‘Sightings’ dove l’impronta classica regalata dall’acustica delicata di Brooke Sietinsons si scontra con elementi piacevolmente dissonanti quali i violini euforici della cornice o la consueta spruzzata elettrica di Greg, sua personalissima griffe. Nonostante le comode scappatoie stilistiche di cui si è detto, resta comunque innegabile che in ‘III’ come nelle precedenti opere degli Espers l’effetto complessivo sia d’impatto ed espressività assolutamente ragguardevoli. Anche in passaggi più quieti e densi di meraviglia (il merito è della voce di Meg Baird) come ‘Caroline’ permane un generale senso di rapimento, una pienezza sonora abbacinante che può lasciare gradevolmente storditi, disorientati. Anche se lo schema rimane invariato si può configurare uno strepitoso mix in cui a diventare preminente può essere un semplice dettaglio di retrovia (come la coralità del fantastico duetto di ‘Meridian’), facendo sì che un’architettura strumentale in apparenza sovraccarica si sappia far apprezzare proprio per qualità opposte, o che l’ennesimo corredo di ampollosità e barocchismi si riveli del tutto funzionale al songwriting e nient’affatto straripante. La natura artistica lunare di Weeks ha modo di esprimersi in piena libertà, confermandosi in qualche caso sui livelli di ‘II’ e ‘Blood Is Trouble’: un brano incantevolmente marziano come ‘Another Moon Song’ lo dimostra sin dal titolo, con la pace apparente costretta a trattenere a fatica un guazzabuglio di angosce e fantasmi. In questo contesto non mancano piccoli capolavori anomali come ‘That Which Darkly Thrives’, pezzo esemplare per la sua andatura dondolante da barcone in balia delle onde, con una ritmica tensione/rilascio semplicemente perfetta: se il ricamo elettrico apporta spunti ulteriori di taglio nervoso mentre le parti vocali (tutte impeccabili) accentuano il tono epico, è il senso del viaggio per mare a lasciare ammirati, reso con un dinamismo ed una qualità mimetica molto convincenti. La magia del quintetto di Philadelphia risplende in fondo proprio in questo continuo e favoloso gioco d’ombre, con la realtà perennemente adombrata da un velo di illusorie suggestioni. ‘Trollslända’ chiude le danze con la sublimazione di questo gentile inganno. Un altro ineccepibile incastro di voci, archi e chitarre, solo in apparenza più estatico, sognante e leggero dei nove episodi precedenti, perché la sua dolcezza è infingarda, tutt’altro che rassicurante, pure nella bellissima coda che spegne il disco: sul finale si ha come l’impressione di svegliarsi da un lungo incantesimo, affascinante e non troppo benevolo. Il miraggio di un’escursione fuori dal tempo.
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