Letters From the Earth

       

Agosto non è mai un gran mese per le novità discografiche. Quando tocca muoversi per scegliere con il dovuto anticipo un disco da raccontare su Monthlymusic.it, il mese delle vacanze per antonomasia si traduce in un vero dramma. E’ periodo di sosta, prima della vendemmia di notevoli uscite che approderanno nei negozi a ottobre e, soprattutto, settembre. In redazione ci si arrabatta per aggiudicarsi quelli che promettono di essere i titoli più abbordabili, così è quasi inevitabile ritrovarsi spiazzati a tal punto da dover sperare in una deroga. Paracadute che esiste, per fortuna, ed è l’analisi retrospettiva, seppur limitata ad album non preistorici (dieci/quindici anni di anzianità al massimo) e, per non ridursi a un banchetto di ovvietà, poco o per nulla noti (niente “Kid A” e niente “Funeral”, quindi). “Soluzione comoda”, si penserà, dato che nel passato anche recente sono usciti tanti di quei bei dischetti non proprio fortunati al cui confronto l’attualità sembra un deserto inospitale. Per una webzine pure sui generis che punti tutto o quasi sul costante aggiornamento, sulle scadenze mensili e dunque sull’idolo dorato ma volatile della novità, non abusare di questa preziosa ultima spiaggia è però una regola imprescindibile. Ecco perché ci è concessa una sola retrospettiva l’anno. Quella scritta nell’agosto del 2012 – la seconda delle tre che ho curato sin qui (le altre sono “Jesus Hits Like The Atom Bomb” dei Tripping Daisy e “The Sash My Father Wore and Other Stories” dei Ballboy) – rappresenta forse il pezzo che più tenevo a scrivere da quando mi occupo da dilettante di critica musicale. Si tratta di un disco cui sono legato, ma ancor più di un autore che mi ha segnato. Uno minore, intendiamoci. Uno che non verrà menzionato nelle recensioni su altri artisti e altri dischi, pur avendo detto la sua in maniera personale e in un certo senso aver fatto scuola, teoricamente. Nei dischi folk screziati di jazz, di rock delle radici o di soul che escono oggi è talvolta possibile riconoscerne le tracce, il più delle volte, ovviamente, solo in forma implicita e non conscia. Difficile che Eric Wood abbia lasciato un segno in quelli che non erano tra i suoi pochissimi estimatori, una quindicina di anni fa. Eppure mi piace pensare che una sua sensibilità si sia trasfusa anche in altri. E’ un’illusione che raramente incontro, ascoltando dischi nuovi, e che fa piacere. Come fa piacere tornare ai suoi, di lavori: questo “Letters From The Earth” che rimarrà anche nell’oblio come il capolavoro di un cantautore con troppe poche opportunità da spendere. Quindi il sophomore “Illustrated Night”, bellissimo anch’esso, che ho a lungo considerato erroneamente il suo album definitivo. Queste due piccole opere sono un piccolo lusso che mi concedo da anni e che non ha mai smesso di regalarmi soddisfazioni intense. Ci tenevo a ricambiarle raccontando senza troppe licenze poetiche la storia della sua vita, anche la sua parabola da cometa estemporanea, negli Stati Uniti ma soprattutto qui in Italia, dove Eric ha avuto un seguito apprezzabile e ha registrato due dei suoi tre album. Soddisfatto del risultato che, per una volta, pubblico non solo come link ma anche integralmente qui sotto, avevo contattato non senza fatica quello che in quella manciata di anni di (pur ridotta) visibilità era stato il manager italiano di Wood. Gli ho chiesto con una certa apprensione se la scomparsa nel nulla dell’artista, dal 2003/2004, fosse dovuta a spiacevoli eventi che l’avevano riguardato. No, grazie al cielo. Non è morto, semplicemente si è ritirato a vita privata evidentemente deluso dallo scarso successo. Di tanto in tanto si esibisce ancora nella zona in cui vive, tra i monti Catskills e Woodstock (sì, quella Woodstock), ma di fatto è fuori dai giochi. Per chi volesse saperne di più c’è qui il pezzo che ho scritto per lui e che, spero, gli sia arrivato assieme agli altri più comuni (ma sinceri) attestati di stima del sottoscritto.

Eric Wood è stato qui.
Un paio di corse appena sulla giostra, elogi per cultori come affrancature iridescenti, piccoli palchi di provincia. Nel tratto più movimentato della sua autostrada senza fine, lo si è visto attraversare i cieli italiani come una meteora remissiva. Nel cosmo infinito della storia musicale, stesso profilo da mite gentiluomo ed identica traiettoria in dissolvenza. L’intero bagaglio di viandante racchiuso in una custodia per chitarra, come quando sedicenne si vide sgravato dall’urgenza di una perenne contumacia ed iniziò a portare le sue canzoni a spasso per le coffee houses ed i college dell’Ohio, quindi nella San Francisco dei primi hippies. Nell’oro dei propri vent’anni trovò un approdo fortunoso a Nashville, la Music City per eccellenza, appena in tempo per scoprire che di una semplice area ristoro si sarebbe trattato. L’esperienza lo stava condannando ad un pellegrinaggio senza requie, ad una curiosità mai sazia. L’esperienza come sola maledizione in una vita spesa muovendo ogni giorno i primi passi. Il country sfornato bello fragrante alla corte di Kris Kristoffersson non poteva proprio essere il suo pane: troppo dozzinale come sapore, troppo accomodante per un’anima irrequieta come la sua. Il contratto fu annullato. Quel paio di dischi registrati per la Capricorn andarono a farsi benedire come i fantasmi di un Natale mai celebrato, e per fortuna. Se il jazz non ortodosso di Dave Brubeck o Nina Simone rappresentò una folgorante intuizione, la vera stella cometa brillava dalle parti del Greenwich Village e fu là che Eric trovò la sua dimensione. Menestrello di sera nei bar dell’East Village, di notte tassista come un Travis Bickle non alienato: con i santini di Dylan, Phil Ochs, David Blue e Tim Hardin allineati sul cruscotto ideale, e senza copie di ‘The Silver Tongue Devil and I’ in serbo per la Betsy di turno. La sua lunga stagione newyorkese si è snodata come una ghirlanda nascosta dall’ailanto in un cortile cittadino. Arrivato in sordina seguendo le tracce ed il mito di Tim Buckley, ripartito solo dopo la morte di quel figlio trascurato che lui vide esibirsi ancora acerbo in un club di Manhattan, restandone sinceramente colpito. Quella sera condivisero una fugace ma sgradevole chiacchierata: due cantanti orfani dello stesso padre senza essere fratelli, né fratellastri, e lui ad interpretare la parte un po’ scomoda di quello devoto ed ignaro dell’altrui sofferenza. Nemmeno un lustro più tardi sarebbe cambiato tutto. Il 1997, anno spartiacque, affidò Baby Jeff allo stesso beffardo culto postumo di Tim, mentre nella consueta ombra laboriosa Eric si regalò un sofferto esordio discografico a quasi quarantacinque anni, oltre alla discreta ribalta dei tour con Richard Thompson, Donovan, Suzanne Vega e gli Smithereens. La grande mela, un’infezione ormai domata. Merito dei sempre più frequenti ritiri sui monti Catskill dove, alla stregua di un novello Thoreau, Wood aveva costruito con inatteso talento un’accogliente dimora di legno, combinando la tecnica dei pionieri americani con una più tipicamente nordeuropea.

Approcci distanti sposati in una sintesi armoniosa, lo stesso ingrediente speciale di ‘Letters From The Earth’: nell’intreccio dei generi, l’opera di un ameno songwriter-carpentiere, costruttore paziente di strofe ed abile artigiano del refrain. A far da collante, la sua elettrica preziosissima nel cesellare emozioni dall’intaglio preciso e dall’ampio respiro. E poi lei, quella voce così incredibilmente versatile da tramutarsi nel più espressivo degli strumenti sul disco, un tenore liquido capace di grandi regolarità melodiche come di impensabili evoluzioni tra l’ombroso e l’etereo da dipanarsi solo con calma, dietro ogni curva. Una voce che osa spesso, inseguendo le consumate evocazioni di tanti barbagli cantautoriali (‘Forgotten Blues’). Una voce che si scurisce per reinventarsi elemento atmosferico in un ultimo profondo incantesimo (‘Out of the Blues’), notte densa di spettri lontani destinati a svelare un’affinità curiosa sia con l’ammaliante baratro di ‘Blue Afternoon’ di Tim, che con i dolorosi “non-finiti” delle Sketches di Jeff, pur senza la loro isteria. Una voce che fende il silenzio e non pretende altro che un accompagnamento sottilmente cadenzato, quasi ballabile, tra jazz in punta di spazzole, languori latini e cortei di luci soffuse e vibes. Dagli anni del Caribe o di Belafonte sul giradischi materno è stato modellato un amore per ritmi e tempi cui gli autori sofisticati hanno spesso negato per principio ogni sogno di cittadinanza. Eric ne ha tratto invece il giusto nutrimento contro i rischi di una generalizzata miopia espressiva ed umana. Altra cura è stata la strada. Quella di ‘Voodoo Wind’, che come in ‘Hejira’ di Joni Mitchell si fa metafora del viaggio, e del destino. Quella cantata nel personale manifesto di ‘Endless Highway’ come ipotesi di solidarietà, un “andare verso il mondo e verso la gente” che solo trent’anni di Americana nitida e non addomesticata avrebbero potuto rendere tanto vibrante. La sicurezza dietro un mini compendio così ben imbastito tradisce il polso del veterano, l’esordiente impostore, a proprio agio nei tracciati armonici eclatanti come nel più esile dei sussurri. Tutte insieme queste Lettere sono un delicato carteggio di suggestioni minime, una collezione di tuffi al cuore, una maratona in altalena. Alcune offrono incalzanti e sbarazzine il loro scorrere vitale ma disciplinato che mai prevarica, come sensuali balli sudamericani apparecchiati dalla trama acustica rinforzata. Altre si mostrano subito più spoglie, esposte ai rigori di un inverno irriducibile e dal morso poderoso. La chiusa è un rapido appunto di folk scarno, voce e chitarra di pura sostanza come se ne sarebbero ascoltati fin troppi negli anni a venire. Solo un congedo comunque, dopo una piena di suoni ipnotici ed impressionisti, pagine intime e vaporose o romanticamente disperate, illustrazioni per sognatori che celebrano l’ascendenza Cherokee nel sangue caldo del cantore, ed insieme omaggiano il Buckley Sr. forse meno apprezzato in assoluto (‘Look at the Fools’). Ed ancora, esercizi da equilibrista dei vuoti e dei pieni, blues amabilmente ebbri e con coloriture gospel (‘Time Comes’), classiche dissertazioni in alleggerimento con impronte vocali zampettanti (‘Too Deep’) o brogliacci vergati nel solco di una rigorosa aderenza ai modelli quasi mistici del Folk Urbano che fu. A calcare ovunque il tratto come una forte essenza, il tepore di un incanto ormai senza quartiere. Anche tra le pieghe scettiche del Mark Twain meno benevolo, quello che senza volerlo ha prestato il titolo. Anche dentro quell’inno superbo dedicato per ironia al proprio disincanto: ballata per artista e pensieri, affranta ma sublime preghiera della solitudine, benedetta dal chiarore di una luna finalmente piena. Lo stesso magnetismo che Eric portava sempre con sé sul palco. La stessa naturalezza che l’avrebbe spinto – già con il secondo album – a implorare perché ci si dimenticasse in fretta di lui. Per i tanti che hanno attraversato questi anni del tutto ignari del suo passaggio, esaudirlo non può certo aver rappresentato un problema. Gli altri, forse, si ricorderanno di lui come di un albero di frutta che fiorisce ancora, anche se non c’è più.

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