Edgar Hilsenrath

Il Nazista e il Barbiere _Letture

       

Riecco Edgar Hilsenrath! Come?
Non avete la più pallida idea di chi sia? Male, evidentemente non siete stati attenti quando magnificavo uno dei più bei romanzi letti in vita mia. Questa “favola nera sul conformismo” si è rivelata un controverso best seller, a lungo temuto per le sue scomode verità in patria. Più poesia espressionista che crudo realismo comunque, per un romanzo a tema che paga qualcosa in termini di didascalicità solo nelle battute conclusive, ma per il resto affascina con sublime ironia e più di un lampo visionario, contribuendo a fare di Hilsenrath un autore magari parsimonioso ma abbastanza imperdibile

 

Germania orientale, anni venti: Max Schulz è l’ultimo tra i reietti nella zona ebraica della cittadina di Wieshalle (nome di fantasia). Figlio di una prostituta e di non si sa bene quale padre (cinque gli “indiziati”), brutto come la fame, vessato e abusato già in tenerissima età dall’orribile patrigno Slavitzki – un barbiere di terz’ordine – cresce lontano dalla grazia abitando i peggiori scantinati possibili, in un clima di rancore strisciante, vuoto affettivo e miseria culturale. Nel decennio turbolento che condurrà all’affermazione di Hitler, periodo in cui il risentimento popolare per la sconfitta nella Grande Guerra e un’inflazione galoppante saranno pretesti scientemente cavalcati per alimentare l’odio verso gli ebrei, lui, ariano dai caricaturali tratti semitici, trova l’unico conforto a un’esistenza sventurata proprio nell’amicizia di un’agiata famiglia di borghesi ebrei, i Finkelstein: il giovane Itzig, nato il suo stesso giorno ma, a differenza di lui, bello, biondo e con gli occhi azzurri, che lo incoraggia negli studi, gli insegna l’yiddish, le preghiere e i riti del popolo eletto; e il padre di questi, Chaim, che lo introduce al mestiere di barbiere e gli offre un posto di lavoro nel suo elegante salone, “L’Uomo di Mondo”. Seppur osteggiata dai suoi congiunti, la possibilità di un virtuoso riscatto sociale e umano sembra realmente a portata di mano. Ad annientarla sarà però l’ascesa al potere del Nazionalsocialismo, abbracciata a sorpresa da Max con la viltà tipica di tanti suoi connazionali: non certo per chissà quale convinzione antisemita, quanto per l’opportunismo di chi, a lungo roso dall’invidia, ha scorto nelle nuove deliranti istanze politiche la classica “via più breve” per il compimento della propria scellerata fame di rivalsa. In una rapida sequenza di pagine che sembrano un unico assurdo incubo, ecco trasformarsi il nostro protagonista da occasionale testimone delle prime adunate hitleriane, gomito a gomito con il suo stesso carnefice di un tempo, dapprima in un fervente col vizietto della violenza gratuita, quindi in un efferato e rigorosissimo strumento di morte col distintivo di ferro delle Schutzstaffel appuntato sul petto.

 

Con la stessa gelida impassibilità a guidarlo, lo ritroviamo – nei resoconti che lui stesso ci offre – mentre veste i panni dell’affidabile addetto alle esecuzioni di massa, in villaggi dell’est Europa prima, e in un campo di sterminio polacco poi (Laubwalde, altro nome di fantasia) dove, tra le decine di migliaia di vittime mietute per mano sua, cadranno anche l’amico di gioventù – liquidato alle spalle alla maniera dei vigliacchi, senza neppure il coraggio di guardarlo negli occhi – e quella coppia di coniugi generosi che lo avevano sempre trattato come un secondo figlio. Quando l’inerzia della guerra svolta, Max Schulz inizia una fuga rocambolesca dai territori ora occupati dall’armata rossa, portando con sé una scatola di denti d’oro strappati ai morti nel campo. Scampato a un agguato partigiano nella gelida campagna polacca, riuscirà a trovare un nascondiglio per l’inverno nella dimora di una vecchia sadica, prima di riparare a Warthenau e poi a Berlino. Qui il raccapricciante colpo di genio per scampare ai tribunali e alla giusta condanna al patibolo: farsi circoncidere, farsi tatuare sul braccio il classico codice numerico dei deportati e assumere l’identità di quel compagno di giochi, studi e lavoro, da lui stesso trucidato. Sembra la più paradossale e cinica delle soluzioni, e lo stesso criminale di guerra non ha idea di quanto a lungo possa stare in piedi, una simile farsa. Eppure nel caos postbellico, il buco nero della documentazione sulla Shoah rivela l’efficacia di questo espediente, e il perverso nazista dagli “occhi di rospo” costruisce anche una discreta fortuna grazie al mercato nero (e all’oro trafugato, naturalmente). Per assicurarsi il rispetto dei potenti si lascia umiliare e buggerare da una contessa antisemita, ma i torti e il disprezzo patiti in prima persona cominciano ad avere effetti imprevisti su quel che resta della sua coscienza: l’immedesimazione si compie, Max diventa Itzig e sposa la causa sionista con convinzione: ormai più realista del re, si imbarca per la Palestina, si schiera con i terroristi contro le truppe inglesi, combatte nell’Haganah e diventa un eroe del neonato stato di Israele, prima di regalarsi un felice vespro dorato, un salone da barbiere chiamato non a caso “L’Uomo di Mondo”, una moglie vittima di eccidi di cui forse è responsabile e quella serenità così a lungo agognata. Per il pentimento e l’espiazione però, beffa delle beffe, non ci sarà margine, se persino la sua tardiva confessione a un giudice in pensione verrà scambiata per demenza senile.

 

“Il Nazista e Il Barbiere” è un romanzo allucinante. Non particolarmente cruento, non feroce nei riguardi del lettore, per come racconti le mostruosità della persecuzione nazista verso gli ebrei. Edgar Hilsenrath, vittima in prima persona di una deportazione in un ghetto romeno, tiene il campionario delle atrocità fuori dalla nostra portata, oppure scherma quel poco che sceglie di non risparmiarci attraverso un filtro narrativo che tende allo straniamento, alla deformazione surrealista, e che conferisce alle vicende un inquietante alone onirico limitandosi all’allusione, all’accenno furtivo, e rinunciando all’orrore nudo e crudo. La natura paradossale ma nemmeno poi così incredibile – almeno guardando al contesto di riferimento – della sua storia non rimuove tuttavia (e se possibile amplifica) quel senso di raccapriccio, di amoralità disturbante che l’indimenticabile doppio protagonista del libro incarna in maniera tanto potente. Dietro il velo scuro di un’ironia di grana finissima, dispensata senza mai indulgere nel patetismo o in forzature di comodo, si può cogliere un atto di accusa impietoso nei confronti di un’intera nazione, succube della follia nazista più per tornaconto che per pura ideologia. Spiace che un’opera scritta nel 1968 e subito baciata dal successo in mezzo mondo abbia dovuto patire il rifiuto di ben venticinque editori prima di essere pubblicata anche in patria, con l’incredibile ritardo di un decennio o giù di lì, ma è evidente che questo testo arrivava a toccare un nervo scoperto in Germania e destò non poco imbarazzo. Questo spiega anche perché un autore eccezionale come Hilsenrath, da sempre impegnato a raccontare con eleganza “fiabesca” quello ebraico e altri olocausti (“La Fiaba dell’Ultimo Pensiero”, dedicato al genocidio degli armeni da parte dei turchi, resta con ogni probabilità il suo capolavoro), non abbia mai goduto dalle sue parti della considerazione che avrebbe meritato. L’assunto, in fin dei conti è quello di sempre, incontrato più e più volte nelle testimonianze dei criminali nazisti: c’erano gli ordini e si obbediva. Così almeno si giustifica a più riprese, tra le pieghe del suo torrenziale monologo interiore (interrotto solo nel secondo dei quattro libri, per tratteggiare in terza persona la trasfigurazione del carnefice nella vittima), il vile Max, parlando di sé come di “un pesce piccolo che seguiva solo la corrente”.

Più che una riflessione sulla Storia, la sua parabola di mirabolante e inverosimile trasformismo a caccia di un’identità rispettabile (e trionfante) pare una disquisizione sulla sconcertante banalità del male (per dirla con Hannah Arendt), sulla seraficità di chi lo sposa in silenzio per puro calcolo e vi si adagia poco alla volta. Quella di Hilsenrath è più che altro una spaventosa favola nera sul conformismo, protagonista uno Zelig a tal punto persuaso della propria innocenza da non saper suscitare nel lettore neanche una particolare antipatia. Al suo posto, gli spiazzamenti del registro grottesco, il turbamento che si prova al cospetto di un assassino stragista che sembra guidato più dalla noia e da un generico desiderio di rivalsa che non dall’odio vero e proprio; un mostro che parla di sé definendosi candidamente idealista, “uno di quelli che vanno dove tira il vento”, che si schierano per deformazione dalla parte dei vincitori e nel loro lucido, impassibile opportunismo, fanno ancora più paura. Muovendosi con lievità tra poesia e espressionismo, la prosa del narratore fa il resto e compie ancora una volta un mezzo miracolo di equilibrismo. Mezzo, solo perché a una prima parte favolosa ne corrisponde una seconda per forza di cose più didascalica, funzionale in chiave programmatica, anche al costo di sacrificare quell’alone di magia grazie al quale le disavventure del nazista in fuga avevano imbonito per bene il lettore. Tante le pagine memorabili, ma quelle sulla prigionia dell’ex uber-mensch nelle grinfie della vecchia strega ninfomane Veronja restano inarrivabili.

8.2/10

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La Fiaba dell’Ultimo Pensiero _Letture

       

No, non è Albert Einstein il tipo che vedete qui sopra, anche se la somiglianza appare evidente. Si chiama Edgar Hilsenrath, è uno scrittore tedesco e con Einstein condivide soltanto le origini ebraiche. Dimenticavo di precisare che è un signor scrittore, e il romanzo che sono lieto di presentare qui lo dimostra in maniera incontrovertibile. Parla dell’olocausto. Facile, penserete, l’ennesimo sopravvissuto di Birkenau che affronta la sua dolorosa esperienza con lo sterminio. Non è così o, meglio, non proprio, alla Shoah ha dedicato l’altrettanto notevole “Il Nazista e Il Barbiere”.

No, il genocidio narrato in questo libro straordinario è quello, raccontato sempre troppo poco, spesso colpevolmente, del popolo armeno. Un crimine che l’ottusità criminale dello stato turco continua purtroppo a rendere, spesso e volentieri, una ferita ancora aperta.

[Da confrontare per forza di cose con il fortunato “La Masseria delle Allodole”. Credo di poter ragionevolmente sostenere che “La Fiaba dell’Ultimo Pensiero” sia comunque migliore, e nemmeno di poco]

Thovma Khatisian è giunto al capolinea. Una vita piena la sua, settantatré primavere trascorse intensamente e nel segno del pericolo, precoce nello sradicamento e costretto a faticare ogni giorno per trovare il proprio posto nel mondo, con tutta la dignità del caso. Il tempo è scaduto ma lo si è speso bene, conducendo un’esistenza ben più giusta di quanto non sia stato nei suoi confronti il kismet, il destino. Resta tuttavia un fondo lacunoso anche nel suo scorrere non avaro di soddisfazioni, ormai giunto agli sgoccioli: è il passato remoto, l’anello a lungo sfiorato ma mai davvero afferrato. Sulle proprie origini Thovma mostra di avere le idee parecchio confuse. Forse perché la cronaca della sua nascita ha dovuto costruirsela, riadattandola e rabberciandola dalle numerose testimonianze di sopravvissuti dell’Hayastan, la Turchia armena o Anatolia, il paese dove “i girasoli crescono fino al cielo o alle porte del paradiso”, dove “i monti toccano le nuvole”, dove “i cocomeri sono più rotondi, grossi e succosi del più grosso culo di donna” e dove “Cristo è stato crocifisso per la seconda volta”. Delle radici, un nome, una tradizione, fabbricati e divenuti autentici con l’andar dei giorni, ma che solo l’“estrema chiarezza” conquistata dall’ultimo pensiero, in punto di morte, potrà sgombrare dall’incertezza e dal nebuloso garbuglio della Storia, quella con la esse maiuscola. A sincerarsi che questo avvenga e che l’anima del moribondo possa librarsi finalmente in volo sulla meravigliosa terra natia, per unirsi a quelle di altri milioni di sussurranti vittime di un genocidio tra i più brutali di sempre, nonché sulle lacune a riguardo nei libri di storia turchi, pensa il misterioso narratore di fiabe nella sua mente, il Meddah, compagno di quell’ultimo alito di coscienza in un momento del trapasso dilatato per più di cinquecento, incredibili pagine.

Ma non è di Thovma o di Haik – a seconda di come quel neonato del 1915 sarà chiamato dai genitori veri o da quelli adottivi – l’avventura che Edgar Hilsenrath ha cuore di narrare. Thovma è solo un tramite tra lo spirito del tempo e noi lettori, l’orecchio cui sono descritti trenta e più anni di una storia rimasta colpevolmente ai margini affinché siano le nostre orecchie a raccoglierli e farne tesoro, strappandoli per sempre all’oblio e facendo sì che una preziosa lezione non venga dimenticata. E’ Wartan Khatisian il protagonista, e con lui l’intero piccolo villaggio montano di Yedi Su, oltre agli operosi artigiani armeni della più ricca Bakir. Vittime tra le tante di una persecuzione poco nota. Punti su una mappa secondaria dei testi scolastici. Vite soprattutto, un tempo felici anche nell’asprezza della povertà pungente, dignitose sempre, eppure condannate a essere recise orrendamente senza nemmeno poter rinunciare alla propria innocenza per opporsi con tutte le forze all’ingiustizia atroce riservata loro. Lo incontriamo giusto un attimo prima che il marasma prenda a impazzare, imprigionato senza alcuna ragione se non per fare di lui il più provvidenziale dei capri espiatori, il grande tessitore di una fantomatica cospirazione armena che avrebbe acceso la miccia del primo conflitto mondiale, a Belgrado, solo per lo sfizio di mettere in cattiva luce la candida Turchia, il sultano e il kaiser tedesco. Mentre i primi connazionali già penzolano sotto la Porta della Beatitudine, leggiamo uno stralcio dei suoi trascorsi negli incartamenti delle massime autorità cittadine, il Vali, il Mutasarrif e il Mudir, e ascoltiamo la sua voce negli interrogatori farsa tra una tortura e l’altra, a caccia della confessione impossibile.

Poi è il Meddah a farci volare con sé nel passato di Wartan, a ricamare la sua parabola esistenziale e quella dei suoi più stretti parenti nel paesino dove il tempo pare essere immobile da generazioni. Sentiamo il calore del focolare, il fiato delle bestie, impariamo a conoscere una famiglia e un popolo pacifici, arroccati su valori tradizionali che odorano più di superstizione pagana che non di fede in Cristo, eccetto che per l’assenza di atteggiamenti ostili nei confronti del prossimo, chiunque egli sia. Impariamo ad amare questa gente all’antica ma immancabilmente buona, vessata da tassazioni assurde, dalle violenze degli zaptié turchi e dei barbari curdi, e la nostra simpatia non ha cedimenti nonostante regole che oggi fanno accapponare la pelle, primi tra tutti i matrimoni combinati in culla o ancor prima di nascere. Ma anche le pagine fiabesche che raccontano con maggior serenità folklorica questa sorta di rifugio incantato sono incupite di tanto in tanto da un’ombra minacciosa, il velario profetico del grande tebk, il massacro distante ancora due o tre decenni eppure già acre nell’aria come un puzzo mefitico, una condanna o una spada che pende, la tragica fine di ogni cosa. E come andrà a finire per quegli anziani così ligi, o quelle donne dalla tempra d’acciaio, è scritto nei manuali di storia contemporanea, almeno in quei quarantacinque paesi (tra cui il nostro ma non la Germania un tempo alleata, né – ma non c’erano dubbi – la Turchia che oggi sogna l’Europa) per i quali questo sterminio di un secolo fa non è solo il frutto di una fantasiosa propaganda bensì un terribile esempio destinato a essere a lungo ignorato, allora come all’alba di nuovi olocausti, dagli uomini e dall’occhio di vetro di un Dio sempre assente.

Questi passaggi spaventosi sono una minima parte del voluminoso romanzo dell’autore tedesco, i soli affidati a una narrazione più neutra e quasi documentaristica, pur non rinunciando del tutto al geniale espediente del narratore invisibile e dell’ultima fiamma vitale di Thovma, in un ininterrotto dialogo di rara delicatezza. Per il resto Hilsenrath racconta un orrore meno pungente ma sempre in scena, magari sullo sfondo o silenzioso, reso apparentemente meno cruento solo dalla routine delle vittime verso le prevaricazioni patite. Nell’infanzia di Wartan c’è sì la paura ma è un sentimento tra i tanti. Ci sono anche l’amore, l’amicizia, il coraggio e l’umanità, quella soprattutto. E non hanno bandiere o professioni religiose esclusive, visto che sono buoni anche i turchi in quel villaggio di poveri diavoli, così come è buona e compassionevole la curda Bulbul, uno dei personaggi memorabili di questo libro. Il fondo nero dell’animo umano è presentato ai lettori affidandosi a un registro particolarmente fortunato negli anni in cui “La Fiaba dell’Ultimo Pensiero” venne scritto, quel Realismo Magico che ha fatto la fortuna dei Garcia Marquez e dei Rushdie, tra gli altri. Bene, questo testo non vale meno dei loro capolavori. Perché è tanto aggraziato nell’accostarsi all’inenarrabile quanto accurato e integerrimo nello smascherare il rosario di ipocrisie che il potere ha tramandato insieme alla menzogna sul conto di un milione e trecentomila poveri cristi. Assassinati senza pietà tra le forre dell’Anatolia o lasciati morire di fame nelle lunghe marce nel deserto, e poi assassinati ancora, sepolti sotto un silenzio lungo cent’anni. L’indignazione di chi non dimentica – suggerisce allora Hilsenrath in un finale quanto mai commovente – è il modo più degno per rendere loro giustizia. Soprattutto perché nulla del genere, questa o quell’altra più nota shoah, abbia modo di ripetersi negli anni a venire.
Un libro bellissimo.

9.3/10

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