Earlimart

System Preferences

       

Comincio ad avere da parte un bel manipolo di recensioni uscite negli ultimi otto mesi sulle pagine di Ondarock, per cui mi sembra ragionevole iniziare a ripresentarle qui sul collettore prima di ridurmi a farlo nel decennale dall’uscita dei relativi album, o giù di lì. Molto lieto allora che il primo recupero spetti a un disco che lo scorso anni ho piazzato nelle posizioni calde della mia personale classifica e che è rimasto, nonostante le lodi sperticate del mio pezzo uscito a fine anno, praticamente una meteora non meglio identificata, almeno qui in Italia. Disco magnifico questo settimo degli Earlimart, una di quelle formazioni eternamente considerati minori eppure capaci di stupire di tanto in tanto con splendidi numeri a effetto. Ci erano riusciti ad esempio dieci anni fa giusti con “Everyone Down Here”, lavoro obliquo nel solco dell’indie-rock yankee prima maniera, grandaddiano e intelligente, che strappò a quelli di Pitchfork un lusinghiero 8.5. Questo prima di riciclarsi (chissà poi quanto consciamente) nei panni di quelle tipiche formazioni a due – un lui e una lei in relazione blindatissima – esaltazione stessa del concetto di carineria radiofonica, con gran messe di brani (immancabilmente romantici) saccheggiati dalle serie televisive a sfondo ospedaliero in un circolo vizioso assai poco edificante. Questo “System Preferences” marca un ritorno dopo tanto, troppo tempo. Non proprio un ritorno all’antico, questo no (anche se c’è dentro un pezzo trottante e rumoroso – so nineties verrebbe da dire – che dopo un anno continuo a trovare esaltante: “Internet Summer”), ma ad una condizione di felice equilibrio e scrittura ispirata direi proprio di sì. Una raccolta di canzoni notturne, imbevute di malinconia ma senza l’ombra di un compiacimento. Anche una sorta di laica preghiera nei confronti di un amico dei bei tempi andati, quell’Elliot Smith con cui condivisero tanti palchi e tanti viaggi, non solo in California. Uno degli episodi più toccanti è per lui, un altro paio sembrano cantati e suonati da lui: non certo un’operazione da sciacalli, visto il legame che esisteva tra loro e il tanto tempo passato dalla morte dell’ex frontman degli Heatmiser. Al contrario, un omaggio pulito, e anche una sincera convergenza d’intenti, emozionali ed espressivi. Spiace che tutto questo – ma anche il lavoro condiviso dai due Earlimart con Jason Lytle e Aaron Burtch dei Grandaddy sotto le spoglie dell’ammiraglio Radley, ormai tre anni fa – sia passato sotto traccia. E’ un disco che parla in maniera non banale delle ombre che la tecnologia proietta sulle relazioni umane. Scritto con il cuore e con grande sapienza da una coppia di artisti di spessore, che meriterebbe ben altra fortuna e ben altre platee. Ma tant’è. Intanto un ascolto che colpisca nel segno e spinga a farne tesoro vale già molto, moltissimo. Gli Earlimart ne erano capaci dieci anni fa e ne sono capaci ancora.

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I Heart California

 

Album interlocutorio ma non malvagio questo primo capitolo dell'avventura Admiral Radley, incompiuto e poco coeso come spesso capita quando membri di band diverse provano a dare vita ad un progetto nuovo senza prima calarsi in un'adeguata inedita prospettiva mentale, rischiando almeno un poco, rinunciando a qualcosa, mettendosi in discussione. Mi è tornato in mente qualche tempo fa 'I Heart California', precisamente con i primi assaggi di un lavoro gravato dagli stessi difetti ma reso apprezzabile dal medesimo fascino squilibrato, l'esordio di Euros Childs e Norman Blake con la nuova creatura Jonny. Dischi pieni di spifferi, dischi di sensibilità non sincronizzate e di guizzi troppo personali, dove il risultato non coincide mai con la somma delle singole parti. Ma anche lavori che per l'affezionato estimatore sono una manna, in un certo senso, perché la componente fidelizzante finisce sempre col trovare un suo appagamento e non manca mai quella manciata di chicche con cui consolarsi. Nel caso particolare di questo album c'é poi un altro dettaglio che sembra far pendere il giudizio verso il positivo: il discreto stato di forma di un Jason Lytle tornato alla vena goliardica di certe cose minori dei Grandaddy e soprattutto al piacere della collaborazione, qui con gli amici Earlimart ed il fidato ex compagno di squadra Aaron Burtch. Nulla di veramente trascendentale ma un buon mestiere oltre alla ricoperta di certi vecchi trucchetti sonori per i quali Jason è sempre stato celebre. Quasi superfluo aggiungere che, con gli Earlimart abbastanza a corto di idee brillanti, gli scampoli di classe li regala proprio l'ex frontman dei Grandaddy, a partire dall'arruffato schematismo del convincente singolo eponimo, per proseguire con il noise squinternato ed il pop ruvido di certi suoi adorabili cazzeggi ('I'm All F****d on Beer' e 'Sunburn Kids' su tutte). Non poteva proprio resistere a lungo nel suo confino spirituale tra i boschi del Montana. Soprattutto non poteva resistere lontano dalle cartoline grottesche e gli eterni perdenti della sua California allucinata. Se adesso decidesse di rimettere assieme anche i pezzi della vecchia band sarebbe il massimo, poco ma sicuro.

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