Biancaneve (di Donald Barthelme) _Letture

       

Lo scopo della letteratura è la creazione di uno strano oggetto coperto di pelo che vi spezza il cuore. Così scriveva Donald Barthelme, formidabile autore di racconti, romanziere con licenza di sabotaggio, ideatore di satire, nonfiction, graphic novel, libri per bambini, critiche letterarie e cinematografiche. A giudicare dal suo primo romanzo, una rilettura a dir poco anarchica del superclassico dei Grimm (via Disney), strano e peloso quell’oggetto non poteva che essere, per quanto si mostrasse forse più idoneo a elettrizzare le menti che a spezzare i cuori. La sua Biancaneve è figlia del libertinismo e della frizzante iconoclastia del sessantotto, oltre che di un vorace e bizzoso postmodernismo, anche se il disincanto e la follia pop che emana erano se possibile ancor più in anticipo sui tempi. Il risultato sarà apparso senz’altro dirompente al lettore del 1967, mentre oggi i suoi eccessi suonano un tantino forzati e l’impressione è che il testo non sia invecchiato proprio benissimo. Ma è tutta una questione di suggestioni, o meglio, di disposizione d’animo e sintonia. Se si è di buzzo buono, la lettura di “Biancaneve” riuscirà gustosa quanto basta. Viceversa potrebbe risultare irritante come diverse altre opere di rottura (e a cavallo tra generi) dell’epoca. Con me è andata abbastanza bene, le mie difese critiche dovevano essere distratte da altro o comunque rabbonite. Ma io non faccio testo, specie quando si parla di cose strane e pelose che ingarbugliano le mie emozioni di contemplativo che ha voglia di aggregarsi alla festa. 

A cosa pensa Biancaneve? Nessuno lo sa.
E’ una governante stretta in una morsa dall’insoddisfazione. Annoiata, lunatica, irrazionale e costantemente assorta nei suoi pensieri, scrive lunghe poesie oscene e sembra non abbia alcun problema a starsene un po’ per conto suo, rimirandosi nuda nello specchio o lasciando correre fuori dalla finestra i lunghi, splendidi capelli corvini. Abituati alla sua compagnia in una quotidiana coesistenza decisamente “promiscua” (ma torbida rende meglio l’idea), i suoi sette coinquilini – paranoici e formalissimi individui, più che i paciosi nanetti della fiaba dei Grimm – cominciano ad “avere in uggia” la cosa e la loro inziale preoccupazione comincia a tendere a un aperto nervosismo, almeno da parte di Bill. Che è sì il leader del gruppo, ma un leader in declino, schiacciato da troppi tormenti (morali e non solo), logorato dallo scetticismo e quindi più somigliante a un monaco, polemico e disincantato.

Assieme ai fratelli Kevin, Edward, Hubert, Henry, Clem e Dan, campa confezionando omogeneizzati di carne cinesi dai nomi improbabili, lavando palazzi (perché i palazzi puliti “riempiono gli occhi della luce del sole, e il cuore dell’idea che l’uomo sia perfettibile”) ma anche di piaceri sottili come l’osservare le ragazze in strada, o di piccoli espedienti come rubacchiare in casa dell’”amico di famiglia” Paul, pretestuoso artista monominimista che parrebbe avere un notevole ascendente su Biancaneve. Quest’ultima si fa ogni giorno più criptica e insofferente, sempre meno appagata dalle sue mansioni collaterali di svago carnale per i compagni e frustrata per l’incapacità di andare più a fondo nelle relazioni con l’altro sesso. Il misero fallimento di una sua provocazione, alla maniera di Raperonzolo più che della Biancaneve classica, la persuaderà circa l’impossibilità di incontrare nel desolante teatro contemporaneo qualcuno che abbia anche solo vagamente fattezze e condotta da principe, con il conseguente deteriorarsi di ogni rapporto umano nella sua sfera d’influenza.

Barthelme confonde costantemente i riferimenti, ubriaca il punto di vista del lettore servendosi di depistaggi e divergenze del senso, salvo adottare poi inattese corrispondenze incrociate tra pensieri di personaggi diversi, quasi a simulare danze sensuali o rituali di corteggiamento del tutto immaginari. Prime e terze persone si rincorrono in un affannoso gioco di specchi, e plurali o singolari non fa certo differenza se capita di imbattersi in pagine di strabiliante poesia come il capolavoro di auto deprezzamento regalato dal disilluso Bill/Brontolo a una Biancaneve poco attenta alle sue angosciate riflessioni, per non parlare del monologo interiore imbevuto di misoginia dello scellerato Hogo De Bergerac. In una prospettiva antinarrativa come quella perseguita dall’autore in questo pastiche, tra morbide invettive e falsi spunti documentaristici sulla cultura e la società statunitensi, inserti-caricatura d’argomento psicologico e fumose digressioni in flash-forward, è inevitabile che sia affidato al nonsense il compito di tenere assieme una narrazione ironica e cerebrale quanto sfilacciata, e non può stupire che Barthelme strizzi spesso e volentieri l’occhio ai suoi lettori attraverso tutta una serie di dispositivi metatestuali d’avanguardia (all’epoca, in linea con il clima di accesa sperimentazione del periodo), tra cui un questionario sulla fruizione stessa piazzato grossomodo a metà del tragitto come stimolo e presa in giro.

Il risultato è un’opera completamente folle, la rilettura di un classico che definire libera è puro eufemismo. Originale, a tratti divertente, ma poco incisiva nella sua burlesca negazione di qualsivoglia appiglio strutturale. Inutile girarci attorno: è innegabile che buona parte di questa cervellotica pirotecnia retorica sia destinata ad andare perduta con la traduzione, pure valida. E’ un limite insormontabile per un visionario postmodernista della parola quale Barthelme è stato, nell’accezione più pop e irriverente che possiate immaginare. In fin dei conti la sua scrittura – e quest’opera in particolare – può rappresentare un’avventura stimolante, se la disposizione d’animo e la fame creativa sono quelle giuste. Viceversa, potrebbe essere un’esperienza alquanto terribile. It’s up to you!

(7.0/10)

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