L'uomo che cade               _letture

 

Devo ammettere che non ho avuto troppa fortuna approcciando DeLillo con il suo penultimo romanzo. Chi ha magnificato l'autore americano sicuramente biasimerebbe la mia scelta, ma io ho voluto saggiare con un'opera recente quanto il famosissimo scrittore possa essere indispensabile anche alle prese con la cronaca più cruda ed attuale. Impresa impervia la sua e tentativo che non convince. Dopo le prime trenta o quaranta pagine ero conquistato. Che non si tratti di uno scribacchino senza ragion d'essere, a differenza di tanti altri osannati romanzieri, mi è parso evidente. Ma questo 'Uomo che cade' ha dimostrato molto presto di non sapere – forse addirittura di non potere – mantenere le promesse. Ha iniziato a ripetersi, ad accartocciarsi su se stesso e, cosa peggiore, a lasciarmi via via sempre più freddo e distante. C'era la curiosità di vedere come sarebbero andate a finire certe vicende, ma la loro prevedibilità ha fatto sì che ad un certo punto non vedessi l'ora di arrivare all'ultima pagina. Non proprio edificante come sensazione, quando un romanzo è anche scritto molto bene. A questo punto servirà far passare solo un po' di tempo, poi vedremo come stiamo messi con 'Underworld', 'Rumore Bianco' o 'Libra'.

 Chi è l’uomo che cade? Solo un artista performativo dalla “franchezza terribile”, appeso a testa in giù per mezzo di un imbragatura ed ispirato allo sfortunato soggetto della più celebre fotografia dell’undici settembre, intento a rinnovare la messinscena dell’umana disperazione trattenendo “lo sguardo del mondo”, trascinando con sé un “terrore collettivo”, come immagina Lianne, protagonista del libro, dopo averlo incrociato in un paio di occasioni? O è più plausibile che l’appellativo vada riferito al marito di Lianne, Keith, scampato per un soffio alla tragedia delle Twin Towers e dopo quel giorno precipitato in un buco nero dei sentimenti, completamente svuotato e alla deriva. ‘Falling Man’ è di fatto un romanzo sulla perdita. Non tanto o non soltanto sulla morte, quanto piuttosto sulla fine delle certezze, sulla privazione di ogni orientamento, e non c’è dubbio che nella sua parabola discendente Keith abbia una valenza simbolica fin troppo facile. Anche Lianne è vittima della stessa angoscia e dello spaesamento dovuti ad una frattura epocale, che è psicologica oltre che storica e politica: “Che cosa ci riserva il futuro?”. “Non ci riserva niente, il futuro c’è appena stato”, chiosa sua madre. Uno smarrimento non dissimile rispetto a quello dei pazienti malati di Alzheimer da lei frequentati nella sua attività di volontariato, condannati dall’incedere progressivo ed inesorabile dell’oblio e del male, in cui Lianne rivive lo stesso dramma vissuto dal padre alcuni anni prima.
Inchiodato dalla cruda realtà della cronaca, DeLillo scrive forse l’opera più distante dalle fascinazioni del postmoderno non riuscendo ad evitare a vicende e personaggi di cadere in qualche luogo comune di troppo legato alla più grande tragedia americana, ancora troppo recente – forse – per essere affrontata a mente fredda e senza alcun condizionamento. Non era facile, gli va dato atto, ma forse non era nemmeno necessario. L’avvio è notevole. DeLillo dosa meravigliosamente pause e tempi morti, arricchendo la narrazione con dettagli di realismo marginale, facendo assaporare i dialoghi affilatissimi tra i protagonisti (compresi Nina e Martin, rappresentanti di un’altra generazione) e tratteggiando al meglio le vite “in transizione” dei due coniugi nella loro ricerca di segni, della possibilità di sprofondare nelle proprie nuove piccole vite senza più conflitti, senza più gli attriti quotidiani dietro ogni parola o ogni respiro. Sono resi benissimo sia la riservata conflittualità interiore di Lianne, nel suo disperato bisogno di essere con tutti all’altezza della situazione, sia l’inespressivo sconcerto del marito nelle pagine magistrali del ritorno all’appartamento in cui abitava e giocava a poker con i colleghi. E’ il racconto di un’illusione chiamata a rimpiazzare sogni più classici spazzati via dal presente e destinata a durare anch’essa molto poco. Mentre sembra poter concretizzare il silenzioso miracolo di un matrimonio risorto dalle ceneri fumanti del World Trade Center, Keith si scontra con un’altra solitudine rischiarata dal medesimo dramma, Florence, ed instaura una relazione extraconiugale (“ciò che le serviva di lui era la parvenza di calma, la capacità di monitorare il livello della sua angoscia”) la cui fine è comunque annunciata da un nuovo e più oscuro baratro. Dopo la promettente partenza l’azione viene congelata, le riflessioni ristagnano e si impone l’inerzia di una rinnovata routine emotiva. Con essa a farla da padrona è la noia e nemmeno la qualità di DeLillo può riscattare il romanzo dalle secche di un rigido inverno americano, dal suo girare a vuoto come nelle invettive sempre più opache di Martin, uomo scolpito nel rimpianto, individuo fuori posto, confuso, “smarrito nel tempo” come una cattiva coscienza critica ormai inappropriata (un po’ come, nell’economia del libro, le velleitarie istantanee dell’apprendistato jihadista e del martirio di Hammad, risvolto della medaglia della follia contemporanea). Quella impersonata da Keith, attore cruciale per la rovinosa assenza di reazioni, è in fin dei conti un’umanità svuotata, insensata, che nella tragedia non ha trovato né forza, né orgoglio, né (a differenza di Lianne, unico personaggio almeno in parte positivo) quel bisogno di conferme o sicurezza, ed ha raccolto al contrario lo spunto per inabissarsi in un’alienazione fredda e del tutto priva di scopi. Anche per questo ‘Falling Man’ è un romanzo realmente pessimista, disperato quasi, e non lascia spazio ad alcuna consolazione.

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