David Foster Wallace

La Scopa del Sistema _Letture

       

Oh bene, torno a parlare di David Foster Wallace dopo tempo immemore. Non la brillante nonfiction di “Una cosa divertente…” stavolta, bensì un romanzo vero e proprio,
quello d’esordio oltretutto. In quel vecchio pezzo lamentavo di spendere in dischi tutti i soldi che avrei potuto destinare ai libri. Beh, oggi è vero l’esatto contrario e ho avuto modo di acquistare e leggere i titoli più significativi dell’autore di Ithaca arrivando a un paio di conclusioni in merito. Primo: sono sinceramente affascinato ma non posso (e non credo potrò mai) definirmi un fan di DFW. Secondo: ho fatto molta più fatica con questo “La Scopa del Sistema” che non con il ben più ponderoso (e sicuramente arduo) “Infinite Jest”. Non saprei dire se a pesare sia stata l’assenza di malizia di un caso rispetto all’altro, o se sia stata colpa dei problemi personali che mi hanno accompagnato nella travagliata esperienza con il primo. Sia come sia, è stata una sofferenza. Comunque gli spunti vertiginosi e riusciti, al netto dell’inevitabile fuffa, sono innumerevoli, su tutti il piacere dell’affabulazione in quanto tale. Insomma, ormai sono vaccinato ma non nascondo che “il Re Pallido”, là ancora intonso sullo scaffale, mi incute ancora un notevole terrore.

 

Sobborgo di East Corinth, 1990, in una Cleveland affogata nel sole e nelle sue nevrosi: la brillante Lenore Beadsman, terza di quattro figli in una (disfunzionalissima) famiglia di magnati nel ramo della chimica-farmaceutica, cerca di fare un po’ di ordine nella sua vita e di capire una volta per tutte, all’indomani dell’ennesimo traguardo accademico, cosa intende davvero fare da grande. Aver rifiutato l’implicito cordone ombelicale paterno le è valso una certa illusione di indipendenza anche se, professionalmente, il suo presente di centralinista senza scopo presso una fittizia casa editrice di proprietà, ironia della sorte, proprio del genitore, non le garantisce lo sfogo intellettuale di cui avverte il bisogno. Il suo capo e fidanzato, che per uno strano tiro del destino si chiama Rick Vigorous ma appare come la negazione stessa del proprio nome (secondo un gusto beffardo nelle attribuzioni onomastiche che richiama la galleria farsesca del Kubrick de “Il Dottor Stranamore”), la vincola e la soffoca, con le sue manie compulsive e l’ideale di un’esclusività sentimentale che non può che implicare il possesso e l’annullamento. Con la sua ninfomania non diagnosticata, l’amica e collega Candy Mandible pare sintonizzata su ben altre frequenze, mentre con il fratello “genio e sregolatezza” LaVache non è più praticabile alcun approccio dialogico e la sorella Clarice pare ormai irrecuperabile nel suo orticello di grottesca follia coniugale e genitoriale. Persino il pappagallo Vlad L’Impalatore sembra aver voltato le spalle a ogni traccia di buon senso animale e, di punto in bianco, prende a sproloquiare di fede e oscenità, in egual misura, con una parlantina che non può che esaltare il luccicante fanatismo del mondo televisivo. Lo psicanalista che la segue, il Dr. Jay, è matto come un cavallo e, come se non bastasse, se ne frega dell’etica professionale, spiffera il privato dei suoi pazienti ai loro congiunti ed è l’ennesima pedina al soldo di papà Stonecipher.

 

L’ unico vero stimolo di Lenore, l’amata bisnonna col pallino di Wittgenstein e un nome all’anagrafe che è tale e quale il suo, è scomparsa nel nulla assieme a una ventina di altri pazienti della casa di riposo in cui era stata relegata: colpa di quanto può aver scoperto su alcune ricerche e un nuovo rivoluzionario prodotto ancora in fase di sperimentazione che potrebbe permettere ai lattanti (e agli animali, perché no) di parlare, garantendo all’impresa di famiglia, la Stonecipheco, di primeggiare finalmente nella guerra all’ultimo sangue con le concorrenti di mercato? E centrerà qualcosa il D.I.O. – deserto incommensurabile dell’Ohio, attrazione turistica artificiale che si trova proprio a ridosso della metropoli – cui alcuni indizi lasciati dall’anziana parrebbero rimandare? La ricerca della ragazza sul conto della parente finirà per coincidere con l’indagine introspettiva e non potrà che spingerla a liberarsi dei tanti legacci che le tarpano le ali, quando l’aitante figura di Andy “Wang-Dang” Lang riemergerà dal suo passato di adolescente per stregarla.

 

Romanzo d’esordio programmatico e vertiginoso di David Foster Wallace, sorta di prova generale del successivo capolavoro “Infinite Jest” di cui presenta in germe la medesima babele stilistica, il culto per la parola, le affabulazioni torrenziali e i dialoghi affilatissimi, “La Scopa del Sistema” è un’opera prima ambiziosa e non certo agevole che ha il suo limite più evidente (evidentemente ricercato dall’autore) in una certa sfibrante prolissità e nella pesante dipendenza dai modelli della narrativa postmoderna e della meta-fiction – Pyncion in testa – più in voga alla fine degli anni ottanta. Gli spunti sono innumerevoli, così come le ossessioni sviscerate con gelida lucidità (e un’accuratezza nel dettaglio che rasenta il maniacale) e i tanti eccentrici personaggi che popolano le sue pagine come specchi deformanti del reale (memorabile la bulimia esistenzialista dell’industriale pazzo Norman Bombardini). La stessa Cleveland, in fondo, con i suoi grovigli (telefonici e non) à la “Brazil”, la sua periferia progettata per omaggiare, a uno sguardo aereo, il profilo della vecchia diva Jayne Mansfield, e quel D.I.O. che è metafora sin troppo facile del vuoto relazionale che toglie umanità ai suoi abitanti, è un teatro distopico angosciante e implacabile.

 

Se la precisione sinestetica e luministica delle descrizioni già si rivela una eccellente prerogativa dello scrittore di Ithaca, l’impressione generale in merito a un testo così ricco e audace esce forse indebolita dall’insistenza con cui il giovane DFW promuove la propria inquietante visione della contemporaneità. Troppa filosofia del linguaggio, troppe circonvoluzioni concettuali a fronte di una materia sì stimolante ma anche capricciosamente irrisolta, priva di comodi approdi per il lettore che non voglia limitare la propria esperienza a un puro piacere discorsivo. Bene invece, decisamente, quando nella trama si fanno spazio le sottotrame rappresentate dagli elaborati che Rick racconta a Lenore a più riprese, testi scritti da studenti depressi in cerca di pubblicazione sull’inesistente rivista della Frequent & Vigorous o abbozzi di storie vergati di proprio pugno (ma non dichiarati), dedicati a una sorta di alter ego senza macchia, Monroe Fieldbinder, e di fatto ancor più deprimenti dei primi. In questi avvincenti slanci metanarrativi – su tutti la vicenda della “donna con il termos che teneva una raganella in un’ansa del collo”, o quella della coppia triste truffata dallo psicanalista, o anche la favoletta di “Billy Visone resta senza cena”, letta da Lenore alla nonna Concardine, risiedono forse i passaggi più interessanti del libro, il suo virtuosismo affabulatorio che, evidentemente, non lasciò indifferente il Douglas Coupland di “Generazione X” e che per l’autore canadese sarebbe diventata un’autentica ossessione stilistica, spesso e volentieri senza sbocchi davvero convincenti.

7.2/10

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Una cosa divertente che non farò mai più            _Letture

    

Decisamente soft il mio primo incontro con l’opera di David Foster Wallace. Diventato celebre in anni in cui avevo mandato la letteratura di ogni sorta al confino, totalmente assorbito da altre passioni e dalla lettura dei troppo spesso indigesti manuali universitari, questo momento non poteva che essere procrastinato fino a dopo la morte dello scrittore statunitense, quasi fosse programmato che non avrei avuto il piacere di aspettare una sua eventuale prossima uscita con l’insofferenza tipica del seguace fidelizzato. Meglio così forse, il suicidio degli artisti che più amo mi risulta particolarmente insopportabile. Dovevo scegliere un punto fermo dal quale partire ed avrei optato senza troppi timori reverenziali per ‘Infinite Jest’, se solo l’avessi trovato in biblioteca. “Compri tanti dischi, comprati qualche libro”, mi si contesterà. E’ vero, ma il fatto è che per mia natura tendo a non fidarmi troppo e di certo non compro (quasi) mai a scatola chiusa, non nel caso di un voluminoso e controverso tomo da 1400 pagine di narrativa postmoderna, per lo meno. Che poi già so che sarà amore, me lo sento. Ho mandato giù ‘L’Arcobaleno della gravità’ senza troppi patemi e mi è piaciuto, figuriamoci. Amo la scrittura brillante ma non paracula e più di tutto apprezzo l’intelligenza. Ecco, questo breve saggio molto particolare – da me preferito alle raccolte di racconti solo perché per apprezzare davvero i racconti devo sentirmi assolutamente ispirato verso essi (diciamo che devo essere in “modalità racconto”, ed in questo momento non lo sono) – ha soddisfatto agevolmente entrambi i criteri convincendomi. Nel suo genere, sempre che esista, potrebbe essere quasi un capolavoro: è caustico, preciso, divertente, onesto e soprattutto sincero. Forse perché non filtra quella sottile tristezza che Wallace aveva nei giorni in cui lo scrisse, vivendo l’esperienza allucinante di una megacrocera ai caraibi. Solo uno stuzzichino in attesa di qualcosa di più probante, però non male davvero.

Una settimana in compagnia dell’”agorafobico borderline” David Foster Wallace sui bianchissimi ponti della nave da crociera extralusso Zenith, affettuosamente ribattezzata Nadir, in navigazione tra la Florida e i Caraibi. Sotto la rassicurante cappa di un sole che sembra programmato in base alle esigenze e di un’immensa volta celeste color lapislazzuli, nella rinnovata bambagia di temperature rigorosamente uterine, seguiamo la genesi di un lungo articolo commissionato allo scrittore dalla prestigiosa rivista Harper’s nella primavera del 1995 e reso assolutamente imperdibile solo e soltanto dallo sguardo illuminante del suo autore. Un reportage informale, un diario pungente vergato con mirabile acume psicologico, sociologico e semiologico, ma senza alcuna pretesa di infallibilità. Disincantato, onesto, preciso, feroce, impietoso ed ironico ma assai meno esilarante di come lo si è spesso descritto, anzi, amarissimo nella lucidità della sua analisi, sgravato da qualsivoglia scoria di cinismo eppure abbandonato ad una sottile ma rassegnata tristezza di fondo. Ad emergere a più riprese segnando il tono della trattazione assai più del fine umorismo è un senso di vigile disperazione, legata soprattutto al fatto di non potersi emendare completamente dalla propria sostanziale e sgradevole natura di americano benestante. Il pessimismo di un Wallace ancora poco più che trentenne è l’autentico certificato di qualità di questo libello agile e a suo modo appassionante, prezioso nel raccontare senza belletti la stremante fatica del divertimento a tutti i costi, il vizio pianificato al millimetro, l’assurdità di una certa sterilizzata filosofia di vita e di riposo. E’ il segno tangibile di un’intelligenza rara ed incapace di abdicare anche di fronte agli inevitabili “rinculi interiori politically correct”, particolarmente viva nelle pagine cruciali in cui è descritto il significato più profondo delle allucinanti esperienze di questo tipo: <<Una vacanza è una tregua dalle cose sgradevoli, e poiché la coscienza della morte e della decadenza è sgradevole, può sembrare strano che la più sfrenata fantasia americana in fatto di vacanze preveda che si venga schiaffati in mezzo ad una gigantesca e primordiale macchina di morte e decadenza. Eppure, sulla crociera extralusso 7NC, veniamo coinvolti con abilità proprio nella costruzione di svariate fantasie di trionfo sulla morte e sulla decadenza>>.
Un saggio brillante e ancora incredibilmente attuale, che si lascia leggere e rileggere volentieri.

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