Ira in incognito
 
E così anche gli Yo La Tengo si sono tolti lo sfizio di licenziare il loro disco garage di serie Z. Hanno già fatto un po’ tutto in venticinque abbondanti anni di carriera. Studiato e insegnato quattro decadi di musica popolare americana, codificato l’indie-rock più puro, prima che venisse sbertucciato dalle formule stantie di una convenzionalità britannica in caduta libera. Hanno mantenuto una loro disciplina e una loro autenticità, grazie alle quali sono sempre riusciti a dondolare al di sopra di una fantomatica linea di galleggiamento qualitativo. Recentemente hanno scelto di rivisitare un certo numero di classici, anzi di "assassinarli", si sono prestati per le colonne sonore di film decisamente indipendenti e per qualche curiosa deriva sperimentale. Per non restare fermi tra un album e l’altro ora ripiegano su una passione giovanile evidentemente mai sopita, il garage, registrando alla buonissima un LP utile a fissare su nastro umori e vezzi assolutamente transitori ma genuini, una controfigura selvaggia delle meravigliose e notturne alchimie sonore a marchio DOC Y.L.T.
Fuckbook va letto in questo modo come l’intera proposta Condo Fucks, invero una completa elusione. Una finta, una mascherata in stile ‘Ritorno Al Futuro’, un salto all’indietro a recuperare barlumi di innocenza rock per indagare sulle origini della propria passione. In tal senso l’operazione è meritoria anche nell’evidente funzione di alleggerimento. Un diversivo senza pretese ma con una sua importanza. Certo lasciando la parola a queste undici fulminee tracce l’impressione è più quella dello scherzo, se non si hanno ben chiari i retroscena. Quella di pezzi come ‘What’cha Gonna Do About It’, ‘Accident’, ‘Come On Up’ e ‘Gudbuy T’Jane’ è una band inesistente rispolverata da un passato mai esistito. Ma non è questo che conta. E non è importante nemmeno la forma, intenzionalmente approssimativa se non scadente. E’ rock pestone da quattro soldi, fracassone alla Wild Billy Childish (di cui replica una certa commovente purezza). Si fa molta fatica all’inizio a intuire anche solo che sotto quel denso groviglio di riverberi, quella bagna e quegli schizzi elettrici in bassissima fedeltà, è la mitica band di Hoboken a sudare. A seconda dei punti di vista, ‘Fuckbook’ può passare per uno spregevole prodotto di inqualificabile imperizia tecnica o per una divertente e sana pausa dal sapore casalingo. Io propendo per la seconda opzione anche se l’ascolto mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca: passi per la rinuncia ad ogni abbellimento formale e alla veste più onirica e delicata della band di Kaplan, passi per un genere che riesco a digerire con notevole tolleranza e sopportazione, passino tutte quelle sporcizie noise, i feedback altissimi, le voci sepolte, gli assoli di raro grezzume e via dicendo. La confezione povera però mi sembra più difficile da accettare perché in ‘Fuckbook’ c’è davvero troppa rumenta sonora. La mia impressione è quella di un gruppo che si è divertito moltissimo a suonare queste canzoni, mentre per chi si limita a goderne in cuffia il giovamento è assai ridotto. Sarebbe bello seguirli dal vivo gli Yo La Tengo della temporanea incarnazione sbracata, allora sì sarebbe un piacere. Su disco tuttavia, con queste registrazioni, tutti i brani perdono moltissimo.
Non mancano gli episodi in cui la penalizzazione subita dalle scelte fatte a livello tecnico hanno un peso minore. In ‘This Is Where I Belong’, ad esempio, la selva rumoristica si dirada di quel tanto da lasciar intravvedere per sommi capi i lineamenti musicali degli autori, per quanto il livello sonoro rimanga quello di un bootleg neanche tra i migliori in circolazione. Ancora meglio è ‘With A Girl Like You’, con le chitarre finalmente forti e chiare. I ‘popopo’ delle voci di Kaplan e McNew, già di loro tutt’altro che poderose, restano comunque quasi impercettibili e si riconosce esclusivamente Georgia, che affiora da un fondo di silenzio ad intermittenza. Interessanti i due episodi di ‘Shut Down’, quasi versioni povere di quelle contenute nella raccolta ‘Yo La Tengo Is Murdering The Classics’, cui si accennava in apertura: suonano anni ’50 e danno un’idea dell’abilità mimetico-revivalista della band, anche se il vestito rimane quello miserabile del resto dell’album. Il lato ludico e tagliente di questa esperienza si apprezza maggiormante in brani come ‘The Kid With The Replaceable Head’ e ‘So Easy Baby’, tra chitarre affilate ed un gusto per i coretti che fa tanto seventies, in zona punk-pop anche se fuori tempo massimo. Resta la curiosità sulle possibili implicazioni di questa manciata di nuovi pezzi: dal vivo dovrebbero essere sufficientemente divertenti, offrendosi come discreta variante ad un repertorio peraltro già consistente e policromo. Non sfigurerà di certo ‘Dog Meat’, rock’n’roll classico, scattante e citazionista, che si guadagna a mani basse la palma di miglior titolo del lotto, con una Georgia che pesta alla grande. Sì, potrebbe essere fantastica in concerto.
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