Soffocare                        _letture

 

Finalmente Palahniuk, finalmente all'altezza della sua fama. Dell'idolatrato autore di 'Fight Club' avevo letto sino ad oggi solo 'Rabbia' e 'Ninna Nanna', libri deludenti per più di una ragione. In entrambi i casi l'impressione era stata quella di un pugno di idee grandiose portate avanti anche egregiamente sino ad un certo punto (davvero ottima ad esempio tutta la prima parte di 'Rabbia', come pure l'espediente stesso del romanzo/inchiesta), e poi irrimediabilmente affogate in un gorgo di pasticciate assurdità, tradotte senza grande convinzione in fantafumetti deliranti ed anche un po' irritanti. Con 'Soffocare', al contrario, Palahniuk riesce ad essere concreto anche distribuendo iperboli come suo solito, maneggia una materia meno instabile ed esplosiva ma senza voler strafare a tutti i costi, quindi conducendo in porto la nave. Lettura leggera senza essere banale, dissacrante nell'affrontare vecchi tabù con sguardo maligno ma legittimo e soprattutto spassosissima. Ci sono stati passaggi in cui mi sono trovato a ridere da solo come un idiota, tanto era vivo il sarcasmo del racconto. Cinismo amichevole quello di 'Choke', duro e crudo ma intelligente e mai gratuito. Non un capolavoro – a questo punto dubito che l'autore ne abbia scritti, 'Fight Club' è in attesa anche se la lettura partirà condizionata dall'inevitabile fardello dei rimandi al film di Fincher – ma comunque un'opera capace di parlare dell'oggi senza giocare ad imitarlo, senza trincerarsi dietro facili trucchetti gergali o modaioli. Il sesso resta il coprotagonista del libro: franco, per nulla scabroso, narrato quasi con gli occhi di un maturo adolescente. Sarà forse per merito di questa prospettiva giovanile (ma non giovanilistica), oppure per via dello stupefacente disincanto che anima tutte le fasi cruciali nella narrazione, di certo 'Soffocare' riesce a catturare dalla prima all'ultima riga e non stanca. Impresa ardua per un vero amante delle reiterazioni e dei refrain killer come Palahniuk.

Il roboante viaggio nella progressiva alienazione di Victor Mancini, figlio paranoico e mai abbastanza amato di una madre decisamente fuori dal comune, figurante in un finto villaggio coloniale per turisti e scolaresche, truffatore con anima da samaritano e ricca inventiva, sessodipendente in cura ma senza significativi margini di miglioramento.  Difficile dire quale di queste quattro dimensioni sia quella sviluppata con maggior acume da un Palahniuk davvero cattivo ed irriverente. Di certo la gustosa miscela dei tanti spunti azzardati risulta brillante e consente di mettere a fuoco riflessioni non banali sugli squilibri di una contemporaneità allucinata e priva di grandi speranze, in barba al progresso sempre celebrato come idolo. Memorabili in tal senso alcune battute lapidarie messe in bocca al protagonista, specchio fedele di un’America emotivamente anestetizzata, incapace di affrontare e sanare i propri conflitti irrisolti e regno di una omologazione sempre più feroce: <<la mia vita sta prendendo una piega tale che mi sembra di recitare in una soap opera guardata dai protagonisti di una soap opera guardata da gente reale in un luogo imprecisato>> o, anche, <<più vado avanti, più mi sembra di vivere facendo una pessima imitazione di me stesso>>. Il rapporto di Victor con la madre è assolutamente cruciale, come evidente dal montaggio alternato di un presente di miserie (emblematici i rituali jamais vu nella casa di cura, dove il nostro si spaccia ora per questo ora per quell’ex avvocato della donna) ai frammenti di un passato tutto sconquassi per via del tormentato legame con la genitrice, scriteriata anarcoide esponente di un non meglio precisato “terrorismo cosmetico”.  Meno rilevanti (e poco raccontati, nonostante il richiamo nel titolo), ma pur sempre indispensabili per rendere la complessa interiorità del licenzioso antieroe, i suoi espedienti per far soldi e pagare le cure alla madre: un breve quanto maniacale affresco, utile a cogliere il senso di implicita sudditanza di Victor nei confronti degli altri (e sorta di emblema degli squilibri insiti in ogni relazione sociale). In un romanzo che parla di pazzia in termini di ossessione e dipendenza, anche la soggezione verso l’altro gioca un ruolo di primo piano: per sentirsi buoni, degni, “divini” quasi. E così Victor Mancini simula soffocamenti in pubblico e, facendosi salvare dall’improvvisato eroe di turno, gioca a dare un senso alla vita altrui, oltre che alla propria: <<questa persona sarà fiera di te perché tu l’hai fatta sentire fiera di se stessa>>. E ancora, con ironia nera e cinismo d’alta scuola: <<potresti addirittura essere la buona azione di una vita, il ricordo che in punto di morte giustifica un’intera esistenza>>. Inevitabile che, proprio come il sesso e come la madre, anche questo gioco diventi una droga e, in quanto tale, presenti alla fine il suo conto al protagonista. Per una volta Palahniuk sa essere concreto anche senza rinunciare alla sua classica vena surreale, al suo inconfondibile stile pop-noir eccentrico ed iperrealista. Di più, riesce veramente spassoso, impietoso, amaro ma divertentissimo (esemplari le pagine dedicate alle pazienti della casa di riposo, con la sentenza fenomenale: “tanto varrebbe tentare di ridipingere una casa in fiamme”). Soprattutto, per una volta, si dimostra capace di confermarsi su alti livelli senza mai sbracare, specie per merito del ribaltamento finale della prospettiva. Anche in ‘Soffocare’ non mancano richiami messianici e viaggi nel tempo, ma l’autore se ne serve come pretesto per esplicitare il tema sempre più inesorabile della follia. Il delirio abbracciato in chiusura da Victor, dall’amico Danny, dalla sbiadita Beth e dalla misteriosa Paige Marshall, diventa l’unica possibile via di salvezza in un mondo che sembra aver smarrito ogni significato insieme al senso del limite. Lo dimostra chiaramente la madre del protagonista, altro personaggio che in questa realtà alla rovescia parrebbe vaneggiare ed invece si dimostra l’inossidabile baluardo di una ragione altrimenti perduta: <<L’America ha uno slogan: “Mai abbastanza”.  Niente è mai abbastanza veloce. Abbastanza grande. Non siamo mai contenti. Cerchiamo sempre di migliorare>>, anche se questa è una triste chimera. Solo una delle tante illusioni di cui è infarcito il romanzo, la più riuscita delle quali rimane forse il passato fasullo – per metà Disneyland, per metà Alcatraz – di Colonial Dunsboro. Veramente irresistibile.

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