Bradford Cox

Parallax

       

Sembra incredibile ma è già trascorso un anno dall’uscita di ‘Parallax’, non il lavoro migliore partorito dalla fantasia dell’instancabile Bradford Cox ma pur sempre l’“opera struggente di un formidabile genio”, tanto per citare Dave Eggers ed il suo più celebre romanzo. Un anno di stagionatura e non mi resta molto, al di là di un pugno di belle canzoni vagamente sfuggenti ma assai meno impervie di certi altri prodotti a marchio Cox. Sarò sincero: prima di ‘Parallax’, dello spilungone di Athens preferivo la parabola più avventurosa e meno psicotica delle prove realizzate con il gruppo, i Deerhunter, forse per la schiettezza a tutto tondo di quanto registrato in una dimensione comunitaria. Il mio giudizio non è cambiato in seguito, anche se questo più recente lavoro solista accreditato ad Atlas Sound non ha fatto mistero di volersi aprire al compromesso in termini di accessibilità, e di puntare a smussare spigoli umorali, angoli concettuali ed increspature rumorose. Il risultato, ancora una volta è piacevole, curatissimo, personale, per quanto non sufficientemente “sanguinante” come i migliori dischi del suo repertorio. Per una volta, tuttavia, sono rimasto abbastanza soddisfatto della mia analisi in proposito. I più evidenti difetti dei pezzi che scrivo per Monthlymusic.it sono senza dubbio la prolissità e la difficoltà a tenere la rotta dall’inizio alla fine. Assieme agli album amo tessere in forma di racconto – fantasioso o realistico, poco cambia – anche una storia sui loro autori. Il problema è che tendo poi quasi automaticamente a perdermici io stesso, a dilungarmi, aprire percorsi secondari che non vanno da nessuna parte, accatastare allegorie e visioni che tutte assieme rischiano di stordire ed annoiare chi legge. Questo nella recensione dedicata a ‘Parallax’ si nota meno, ma il merito credo risieda in primo luogo nel disco stesso. che ha una sua coerenza di fondo invidiabile, qualcosa che ho cercato di carpire e riproporre sviluppando la metafora non originalissima ma senz’altro corretta (per ammissione dello stesso Cox) di un universo altro, acquatico ed impenetrabile, proiezione di un personale abisso. Contenendo per quanto possibile la mia irrinunciabile logorrea simbolica credo di esser riuscito, per una volta, a dare una testimonianza interpretata ma non così assurda dello spirito e delle linee guida di un lavoro comunque molto particolare ed eccentrico, come da tradizione del talentuoso musicista statunitense. Anche la lunghezza per una volta dovrebbe essere quella corretta, né troppo insipida né destinata alle sbrodolature senza misura. Poi certo, se ho scritto cazzate non sono io a doverlo dire. Se non aveste ancora ascoltato ‘Parallax’ e vi andasse di provare a sbugiardarmi non vi resta che darci dentro con gli ascolti e con la vostra personalissima capacità di lettura. Garantito al mandarino che Bradford Cox gabberà sia me che voi.

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Deerhunter + Lower Dens @ Sala Espace 06/04/2011

    

E’ passato già quasi un anno dalla mia prima volta al cospetto di uno dei migliori artisti emersi negli ultimi dieci anni, quel Bradford Cox che con il progetto Deerhunter ha saputo licenziare un paio di album realmente significativi in un momento altrimenti non troppo esaltante. Un anno che sembra un secolo, amplificato dalla distanza e dal desiderio di chi vorrebbe ritrovare dal vivo quelle canzoni emozionanti. Nel frattempo Cox si è nuovamente fatto vivo con il terzo disco (valido, non esaltante) della sua più intima incarnazione, Atlas Sound, ma è improbabile che lo si ritrovi nuovamente in Italia prima di un paio d’anni, forse anche di più. Peccato, e per fortuna. Concerti come quello dei Deerhunter alla Sala Espace valgono già solo per l’eccezionalità dell’evento in sé. Verrebbe voglia di definirli incredibili, non fosse che già in studio il cantante e chitarrista di Athens ha dimostrato di essere un autore come ce ne sono pochi in circolazione, e che dal vivo la sua band gode di una fama stellare nonostante i pochi anni di attività. L’occasione per un ripasso prezioso la si avrà a fine maggio, anche se riguarderà esclusivamente il gruppo apparso come opening act, quei Lower Dens che furono un’autentica rivelazione sul palco di via Mantova. Non solo per il bellissimo set a base di dream-pop rumoroso ma disciplinato con cui incantarono la platea (ed il Cox spettatore), ma anche per la piacevole scoperta rappresentata in quei giorni dal loro sorprendente album d’esordio, ‘Twin-Hand Movement’. Avevo lasciato Jana Hunter diversi anni prima, oziosa e futilissima alla corte freak folk di Devendra Banhart, e l’ho ritrovata visionaria e convincente tra i fumi insopportabili di una sala tango. L’atteso sophomore ‘Nootropics’ sarà nei negozi il primo maggio, e c’é da scommettere che si tratterà di una conferma piena. Seguirà un tour europeo con un paio di date in Italia. Omettendo di menzionare anche l’imminente capitolo secondo del side project del chitarrista Lockett Pundt (Lotus Plaza: l’LP in uscita ad aprile si intitola ‘Spooky Action at a Distance’ e potrebbe rivelarsi un’ulteriore sorpresa) per la comitiva di Cox l’attesa sarà comunque lunga e bisognerà far tesoro dei (tanti) momenti fenomenali di questo show torinese: le pazzesche architetture elettriche di ‘Desire Lines’, i vortici siderali di ’60 Cicle Hum’, l’ipnosi collettiva assicurata dalla vecchia ‘Octet’, la commozione sincera di ‘He Would Have Laughed’, la pelle d’oca di ‘Helicopter’ (che nel report ho definito “una delle più belle performance degli ultimi anni” , parole che mi sento di ribadire oggi). Potrebbe non essere un male, considerando che con lo scombiccherato (ed emotivamente instabile) Bradford può sempre capitare una serata storta come quella di un paio di settimane fa a Minneapolis, quando lo spilungone ha riservato al pubblico il supplizio di una cover di ‘My Sharona’ lunga un’ora (!!!?) per punire in modo esemplare la richiesta fuori luogo di uno spiritoso spettatore. Genio e sregolatezza – evidentemente – ancora una volta in coabitazione dentro lo stesso guscio di nervi ed ossa.

Che poi, diciamocela tutta: che roba pazzesca dev’essere stata una cover eterna di ‘My Sharona’ portata su un palco da Bradford Cox?

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