Until In Excess, Imperceptible UFO

       

Penso che questa sul quarto disco dei canadesi Besnard Lakes sia davvero una delle migliori recensioni che ho scritto. In linea con la prospettiva “astratta” di Monthlymusic, quasi tattile nel dare forma a quello che ho tratteggiato come un sogno che svolta in incubo, ma pur sempre attenta a raccontare il disco. Il genere musicale ha reso possibile una trattazione non più rigida, e mi sono divertito a infarcirla di spunti sinestetici. Su tutto la ciliegina di quella sventurata località del New Mexico cui è dedicato il brano conclusivo dell’album, scrigno fenomenale di implicazioni sia su vecchi fantasmi della guerra fredda che su certi sfasci della bulimica way of life americana negli anni delle amministrazioni Reagan. E i Besnard Lakes, ci si chiederà? Novità (nei due anni intercorsi tra la pubblicazione dell’Lp e il presente) non ne abbiamo, a parte un avvicendamento nei tour tra chitarristi. Nello scritto, comunque, loro ci sono a mo’ di abitanti di quella radura onirica. I coniugi Lasek, che chissà perché all’epoca chiamai a più riprese Lacek. Dai, alla fine – per una volta – quella consonante confusa è l’unico appunto che mi sento di fare a me stesso.

Alamogordo è dove la speranza va agli alberi pizzuti.
Se avete presente l’isola di Böcklin, ripensatela priva di aneliti romantici ma con carica simbolista elevata a potenza. E senza i cipressi possibilmente, solo deserto. Potrete anche darci una passata di sgrassante al limone, ma rimarrà il simulacro triste e corrotto in cui una certa idea di progresso l’ha trasformato. Sì, perché Alamogordo è il luogo dove il genio evase dalla bottiglia per non esservi mai più intrappolato. Demone scaltro, idolo amaro. Il posacenere in cui hanno lasciato a consumarsi il caro vecchio totem della frontiera, e un’utopia appena rimessa in tiro dopo i rovesci della grande depressione.
Alamogordo è il primo giorno di uno sterminato autunno.
Non proprio un bel posto per escursioni oniriche, ma spiegatelo voi all’estro bizzoso dei coniugi Jace Lacek e Olga Goreas, origini nell’est Europa e adozione canadese, al riparo dagli spifferi della guerra fredda. Fin troppo facile il nesso, ma chissà che gli sposini della scuderia Jagjaguwar non ci abbiano visto dell’altro. Il risvolto cinico della poetica del fanciullino 2.0 brevettata da Steven Spielberg, perché no? Alamogordo è anche il nulla in cui andò a rovinare la luccicante navicella del nostro amato E.T., partita in un trionfo di commozione sui titoli di coda del film per poi schiantarsi con il sigillo Atari nel fondo tossico di un’immonda discarica abusiva. Il più brutto videogioco di tutti i tempi e insieme la più incredibile metafora partorita dagli anni ottanta, per un rovescio della medaglia che ha saputo adeguare il mito di Icaro ai visionari da strapazzo del presente, non senza puntualità. E forse è proprio in questa desolata bruttura che si specchia il nuovo disco dei coniugi Lacek, riuscendo però nell’impresa di sublimarne gli spunti in una trama densa di suggestioni liriche quanto elusive. Rispetto alla fragorosa grandeur o all’epica squassante di ‘The Roaring Night’, ai disastri mentali e gli sperimentalismi arrembanti di ‘The Dark Horse’, qui il loro collettivo, Besnard Lakes, ha curato una raccolta assai più sfuggente. Impalpabile, come opportunamente suggerito anche dall’ermetismo in pillole di titolo e copertina, per quanto il fascino nelle loro canzoni riesca se possibile più plastico che in passato. Il flusso sonoro ha raggiunto un equilibrio che prima era sempre mancato e l’album si candida a diventare la perfetta trasposizione di un sogno. L’assenza di steccati nella sceneggiatura ricorda Gondry, satirica anarchia esclusa, mentre la grana fotografica mette al bando i contrasti che erano un po’ la loro firma nella luce.

L’elegia in soft focus di questo ‘Until in Excess, Imperceptible UFO’ ha indotto la critica a largheggiare con l’aggettivo “cinematico”, nemmeno a sproposito peraltro. Ralenti, piani sequenza, campi lunghi se non lunghissimi. Rimangono un’ostinata prerogativa della band di Montreal, il suo capriccio più amabile, per non dimenticare la predilezione per le riprese in esterni. Anche questa pellicola è girata in spazi aperti, interamente, e si apre nel pallore umido di una foschia caparbia, adagiata come soffice trapunta su una distesa erbosa. Nell’incertezza superba in cui ci troviamo abbandonati ci accoglie Olga, dalla sua casa fantasma sulla collina. Fattezze di sirena, voce suadente come il riverbero di una malinconia che non possa davvero far male. Eppure dietro questa calma alberga il lustro spento della morte, par quasi di sfiorarne l’ombra. E la nebbia è un muro, una presenza che irretisce e non esclude sinistre pressioni. Il gruppo ci culla con un dream-pop al calor bianco, tra refoli sonici e nuance space-orchestrali che saturano i già ridotti margini di manovra e sommergono anche la maestosità del coro, per poi renderne tutta l’energia nel bagliore di un attimo. Quando ci si presenta Jace, il suo falsetto è una dolce lama che fende la bruma. Quieti con la loro elettricità sempre finemente atmosferica, maliardi nel concedersi il balocco di piccole vampe azzurre innescate con le chitarre, ma abbastanza subdoli da non lasciare riferimenti validi. Nessun appiglio per noi avventati ospiti del loro miraggio. Sembra quasi che scherzino con gli ascoltatori i Besnard Lakes, con gentilezza. I cavalli neri di un tempo soggiogati e chiamati ad abbellire la vecchia giostra su cui danziamo un girotondo, la cui eleganza classicista trascolora un poco per volta alla stregua di un ricordo che si sfaldi, inesorabile. Poi un lieve sibilo, e lo scenario si rivoluziona: uno scorcio finalmente rischiarato dall’accompagnamento pop limpido, senza prefissi né suffissi, ma con l’amichevole adesione di uno Spencer Krug chiamato a ricambiare qualche favore arretrato. Ci diremmo lucidi in quest’oasi rinfrancante e soleggiata, e invece siamo nel cuore della creatività laboriosa del subconscio, con entrambi i piedi nella Fossa delle Marianne del sonno. E negli anfratti scivolosi di un torpore privo di regole, riecco inaspettata la mansuetudine fumosa della memoria. L’etereo splendore tratteggiato come in una tregenda d’angeli ancora non caduti – Les Paul Baritone, Epiphone Casino e la fedele Jazzmaster – omaggia l’inarrivabile altrove wilsoniano celebrandone l’inquietante, algida natura. L’invito, ancora una volta, è a lasciarsi andare, a far viaggiare incontrastata l’immaginazione, mentre il suono flessuoso solleva una polvere laminata che è incantevole sfarfallamento ma anche escoriazione a fil di pelle.

La mezzanotte arriva senza farsi annunciare e porta con sé tenui fuochi che destano meraviglia ma non sanno scaldare, e nemmeno bruciano. Nella rincorsa delle voci, il piacere di perdersi. Nella confusione, la fiducia di una notte nuovamente tersa, stellata, che chiama alla contemplazione. Finché le chitarre non scelgono di affollare la volta con una torma minacciosa di nuvoloni neri, l’impagabile schianto di un fortunale shoegaze già abbozzato negli sguardi come un’inedita tempesta del tardo William Turner. Ipotesi poi risparmiataci con l’allontanamento verso un’ulteriore solitudine, nel freddo di una passione disarmata, nei respiri congelati di un inverno che ricorda da vicino le tregue effimere ma bonarie dei L’Altra. Il viaggio conserva così i medesimi fragili contorni di quello pianificato con le sole forze del pensiero nel più riuscito lavoro di una band inglese che in pochi ricorderanno, Alfie, lei pure alquanto audace per indole astrattista. ‘Do You Imagine Things?’, titolo emblematico che può tornare utile. Stessa illusione di false simmetrie e specchi, stessa incorporea presenza. Le ascensioni pirotecniche degli Zeppelin e dell’Electric Light Orchestra, la fumisteria spigolosa e il virtuosismo progressive, i Fleetwood Mac rivisitati e le detonazioni a marchio Constellation: banditi dall’album di famiglia. Gli incendi sul mare e tutti i cannoni, conflitti ipotetici ma spaventosi, cedono il posto al maggior costrutto di una pace dilatata e pur sempre fantasiosa, al ghiaccio, alla rarefazione e le inquietudini intime. Pulite, ripiegate, conservate come candidi fazzoletti nelle tasche.
Infine Alamogordo, che è dove i sogni vanno a morire.
Le bombe all’idrogeno danno ragione all’apocalisse di un’umanità ormai senza speranze, identica a quella profetizzata da uno scrittore triestino tanti anni fa. I Besnard Lakes più visionari non mancano l’appuntamento con la paura condivisa. Volturano la loro creazione in incubo senza troppi complimenti. Sparecchiano la tavola e spalancano gli scuri a quasi tre minuti di raggelante e impassibile crepuscolo, ultimo panorama in cui s’intromette beffarda la rifrazione delle gocce di pioggia lontane – o sono lacrime? – di un delicato fallout. E intanto il lampo abbaglia e scortica i nostri occhi, indifferente.
Li chiudiamo invano nell’istante stesso in cui torniamo ad aprirli.

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