Belle & Sebastian

(I Can’t Get No) Stevie Jackson

       

Tiro fuori da un dimenticatoio (quasi letteralmente) buio e polveroso questa che è stata la mia penultima recensione per indie-rock.it, ormai assai distante nel tempo, giusto perché non si perda per sempre e arrivederci. Ammetto che dai giorni dei consuntivi del 2011 non ho più ascoltato le canzoni di questo disco, pur avendole inserite nella mia personale classifica dei migliori album di quell’annata. Nulla di trascendentale insomma, ma è pur vero che a Stevie Jackson guardo sempre con una certa simpatia, restando convinto che il suo esordio in solitaria abbia raccolto molte meno attenzioni di quante avrebbe meritato. Che io abbia un debole per lui non dovrebbe più essere un mistero. In anni in cui mi sono progressivamente (ma inesorabilmente) allontanato dai Belle & Sebastian, lui – che della band di Glasgow resta il principale chitarrista nonché uno dei più importanti autori – rimane nel novero dei miei popsinger britannici preferiti. Sicuramente il mio prediletto all’interno di un gruppo in cui non mancano le figure amabili. Ultimamente la formazione scozzese sembra scomparsa dai radar. Dopo (l’alquanto modesto) ‘Write About Love’ di qualche tempo fa, non si sono più segnalati progetti degni di rilievo: il leader Stuart Murdoch sembra appagato dai vezzi tra il musical e le orchestrazioni stucchevoli, mentre gli altri si sono limitati a qualche comparsata in dischi o tour altrui. E’ capitato anche a Stevie e a Bobby Kildea, in giro per il mondo assieme agli amici Vaselines prima di eclissarsi nuovamente. E’ sicuro che i Belle & Sebastian torneranno in pista per qualche live selezionato nei mega festival europei e nord-americani tra la tarda primavera e l’estate, anche se dubito li ritroveremo nei negozi di dischi con qualche novità in tempi brevi. Lo stesso vale purtroppo per Jackson, del quale ci si deve accontentare degli ascolti in replica di qualche hit con il gruppo e di queste piccole gemme non troppo fortunate. Spiace, perché l’ascolto delle sue cose migliori oscilla tra il gradevole e l’esaltante, almeno per me, e titoli come ‘Richie Now’ o ‘Dead Man’s Fall’ non avrebbero certo sfigurato nella tracklist di un Belle & Sebastian vero e proprio, anche di uno dei classici. Resto però convinto che l’occhialuto/barbuto alfiere pop nella squadriglia di Glasgow non mancherà di farsi vivo prima degli altri. Nell’attesa di un riscontro, chiudo segnalando che la band forse in assoluto più affine ai Belle & Sebastian, i Camera Obscura, sta per tornare – lei sì – con un lavoro nuovo di zecca. Dopo la (personale) mezza delusione di ‘My Maudlin Career’, le premesse per fare bene di nuovo ci sono tutte: chissà che questo ‘Desire Lines’ non sia il nuovo ‘Let’s Get Out of This Country’

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Write About Love

 

Il pezzo dello scorso ottobre per Monthlymusic è stato un esperimento. Ero partito ovviamente con le migliori intenzioni e avrei scritto la solita mezza paginetta ad ampio raggio, anche retrospettivo, non mi fossi imbattuto in un disco invero deludente come questo. Arrivavo da un trimestre di recensioni per forza di cose orientate al passato e non troppo lusinghiere, per cui un'alternativa mi è parsa necessaria. La soluzione è arrivata dal titolo stesso di questo settimo LP della band scozzese, traducibile senza separazioni con la frasetta "I Belle and Sebastian scrivono a proposito dell'amore". Ho recuperato tutti i testi delle canzoni pubblicate dal gruppo di Glasgow tra il 1996 ed il 2007. Ho estrapolato qualche succoso stralcio sul tema, anche solo un'istantanea suggestiva, e con un minimo di ardito taglia&incolla ho plasmato una sorta di vaporosa polifonia – in realtà un dialogo – con le loro stesse parole. Da un lato l'anima romantica, dall'altro quella nihilista ('I Don't Love anyone' il paradigma), come facce contrapposte della stessa medaglia. Il risultato, me ne rendo conto, si è rivelato molto meno soddisfacente della preparazione e del giochino in sé, ma d'altro canto ridurmi ad analizzare 'Belle & Sebastian Write About Love' con gli strumenti soliti sarebbe stato anche meno edificante. Per parlare di loro guardando indietro, spiegando magari come e perché ne sia uscito così influenzato, c'é sempre la possibilità di una scheda appositamente dedicata su questo blog: riascoltare i loro vecchi dischi è sempre una piacevolissima attività, per cui non escludo di farlo, magari anche in tempi brevi. Per l'album in questione è invece più che sufficiente questo post. Anche a diversi mesi dall'uscita c'é ben poco che mi senta di salvare. La copertina per esempio, ennesima fotografia di ragazza pensosa in seducente tinta monocroma (rosa a questo giro, ma quella in bianco nero, poi scartata, mi piaceva decisamente di più). Tra le canzoni qui raccolte un paio sono buone: la graziosa title track, la cui freschezza suona ancora sincera, poco artificiosa, e l'ordinaria amministrazione gradevolissima di 'Ghost of Rockschool', dalle melodie in realtà risapute ma premiate nella loro pacatezza dopo la pacchiana frenesia di 'I'm Not Living in the Real World'. Ecco, quest'ultima è realmente terribile, mi lascia indeciso tra il "deprimente" e l'"irritante", coi suoi coretti osceni, la sua odiosa melassa e quella overproduzione che da ai nervi. Il resto si colloca tra i due estremi: troppo poco considerando che gli up sono in realtà passaggi di medio livello. Discreto mestiere e buone sfumature quando Sarah Martin convince ('I Can See Your Future') o tono umilissimo da riempitivo quando non entusiasma ('I Didn't See It Coming'); il decente compromesso tra vecchio e nuovo stile, con veste maliziosa ma un po' stucchevole ('I Want The World To Stop'), essenzialità che affascina ma senza che ci si strappi le vesti ('Calculating Bimbo'), il manierato synthpop iperglassato di 'Come On Sister' – non particolarmente indicato per quelli che come me non abbiano amato lavori tipo 'The Life Pursuit' o 'God Help The Girl' – e poi ancora un duetto con Norah Jones a dir poco inutile (in 'Little Lou, Ugly Jack, Prophet John', esangue) ed un paio di altre insipide minestre riscaldate. Che sia abbastanza per scrivere che i ragazzi sono bravi, ma non si applicano, pare evidente. Raccontare i Belle & Sebastian oggi, in fondo, non è meno facile di quando non si poteva che magnificarli. Forse però le sbrodolate erano meglio delle tirate: non si correva il rischio di passare per snob, o antipatici, e poi c'era tanta buona musica di cui parlare. Altri tempi.

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