Novità dal Canada

 

Andre Ethier è veramente un caso anomalo. Resta un personaggio non facilmente incasellabile nella attivissima scena indipendente canadese, nell’abito della quale continua a rimanere ai margini. La stessa cosa vale comunque anche nel più vasto universo del folk contemporaneo, dove la scrittura di questo artista replica la propria orgogliosa diversita, il suo essere assolutamente borderline ed il cercare con ostinazione contatti con registri musicali diversi, rimescolando di continuo le carte e arrivando per l’ennesima volta a spiazzare (positivamente) l’ascoltatore.

Ethier è un folksinger per caso. C’è ancora chi lo considera semplicemente il leader di una band garage-rock tra le meno fortunate degli ultimi tempi in Canada, gli ottimi The Deadly Snakes, senza ricordarsi che quel gruppo si è sciolto oramai da tre anni, dopo aver licenziato un disco di nome ‘Porcella’. Al di là di questa, che è stata la sua più ambiziosa incarnazione sino ad oggi, è importante ribadire che gli stimoli di Ethier non si sono esauriti con quell’esperienza e che il nostro ha già pubblicato quattro LP in proprio nell’arco di un lustro scarso.

Il nuovo album non smentisce quanto di buono proposto in precedenza, confermando sostanzialmente pregi e difetti di un autore quantomai curioso ed imprevedibile ma anche troppo discontinuo. Già nel titolo, ‘Born on Blue Fog’, è presente la citazione scoperta del lavoro precedente (‘On Blue Fog’), di cui questo si pone come ideale prosecuzione lasciando intuire una genesi creativa comune. Un po’ come per ‘The Stage Names’ e ‘The Stand-Ins’ degli Okkervil River, stessa dinamica di pubblicazione e stessa ingannevole offerta di finti scarti in saldo. Anche in questo caso la seconda uscita è inferiore alla prima per quanto non di molto.

 

Non è un particolare da poco il fatto che nessuno di questi nove brani assomigli sensibilmente agli altri: è indice di estrema varietà stilistica e compositiva, una delle migliori doti del canadese. L’inizio, soprattutto, è di quelli folgoranti: ‘The Only Wine I Crave’ si presenta con una trama folk quasi vorticosa dal sapore russo, ad incorniciare l’inquietudine notturna di questo raffinatissimo chansonnier. Sembra una sorta di Bill Callahan accompagnato dai violini malinconici di Drake, in un contesto nebuloso ma estremamente controllato, con un equilibrio che ha del miracoloso. Il piano e il fantastico sax che impreziosiscono la successiva ‘Easiest Game’ accentuano il mood umbratile e vellutato che è tanto congeniale ad Ethier. Un passaggio di squisita fattura ed elegantemente jazzato, dove niente è fuori posto o di troppo, che ricorda (anche nel cantato) un altro personaggio poco noto che amava esplorare i medesimi territori, Eric Wood.

Se il resto dell’album si mantenesse su questi livelli, potremmo parlare senza azzardo di capolavoro. Non va esattamente così, ma bisogna dare atto ad Ethier di essere uno che non si fossilizza su formule comode e trite, preferendo fallire pur di provare comunque qualcosa di poco convenzionale. L’eco del cantante di Tanworth-in-Arden torna con prepotenza in ‘Polynesian Beach’, dove il calore del folk viene contaminato da lampi sinfonici e da estemporanee sortite in ambito space-rock: il risultato è un mix squilibrato e di non facilissima digeribilità, eppure ha un suo fascino. Se si esclude la maggiore ordinarietà dell’ispirato frammento voce&chitarra di ‘Black is the Colour of My True Love’s Hair’ (quasi una curiosa versione scura e narcotica del singolo apripista del nuovo di Elvis Perkins, ‘Shampoo’), rarefatto ed essenziale ma abbastanza caldo, prevalgono soluzioni piacevolmente squinternate e deraglianti. ‘Infant King’, ad esempio, ha nella chitarra elettrica la sua luminosa protagonista ma evita strade già battute facendo ricorso all’insolita commistione con gli archi, con esito vivace. Altrove restano ben percepibili pose e citazioni dai più svariati riferimenti: ‘Heaven Above You’ è una parentesi meno movimentata nella quale l’hammond conferisce un retrogusto blues elegante e non sporco che può ricordare il primo Waits; ‘By The Stables’ insiste nel proporsi come prova di folk sui generis, scarno e pesantemente dominato dagli archi, à la Ilya Monosov; prima della chiusura minimalista e gentile di ‘Can’t Go Back Again’, ‘Copkiller’ impatta con un taglio grintoso ed incredibilmente dylaniano. In definitiva ‘Born on Blue Fog’ è un album denso di spunti e di suggestioni non troppo coerenti tra loro. L’opera forse interlocutoria (ma interessante) di un artista che potrebbe riservare grosse sorprese in futuro.

 

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