A Wonder Working Stone

       

Recupero con un certo piacere questo ritratto dello scozzese Alasdair Roberts, scritto credo più con lucidità che con affetto (a differenza di quanto mi capita solitamente), anche perché non è che al personaggio e al suo mondo musicale io sia poi chissà quanto legato. Lo apprezzo, questo sì, ma da profano che ai rigorosi folklorismi britannici si accosta solo di tanto in tanto, senza tradire grandi entusiasmi ma con la curiosità di chi sa riconoscere l’artigianato di superba fattura. Che poi, forse, questa non è nemmeno la pura verità. A questo ragazzone del bene gliene voglio, eccome. L’ho visto in una sola occasione, primavera del 2008 qui in città, allo Spazio 211: una vita fa praticamente. Beh, quella sera mi ha stregato. Con tutto il pubblico che era là per ascoltare l’immenso Bill Callahan, abbiamo assistito a questa inattesa meraviglia di antipasto con il culo inchiodato al pavimento, immersi in un silenzio quasi mistico che è cosa rarissima per un concerto in un club, di questi tempi. Mi è bastata quell’oretta scarsa per rendermi conto che di un cantautore maiuscolo si trattava. Poi ho recuperato i dischi, custodendoli – come detto – con la cura e l’attenzione pure non maniacale che si è soliti riservare alle gemme un po’ fuori moda, preziose ma non appariscenti, cui fa piacere tornare in sporadiche occasioni. Come vini invecchiati, quelli che ci si regala nella marginale frugalità e nella solitudine di un salotto una volta l’anno, gustandoseli fino in fondo. Ecco, la musica di Ali Roberts è così, a grosse linee. Nel pezzo che segue l’ho raccontata con l’ammirazione di un estimatore che non è e mai potrà essere un vero fan. Forse perché quelli come lui, come King Creosote o James Yorkston, sono autori talmente superiori alle (meglio, al riparo dalle) consuete logiche di fazione da non avere nemmeno bisogno di fan. Qualche musicista oggi può ancora permettersi lussi simili, pensate un po’…

Un giorno incontreremo forse il suo ritratto sul dizionario, accanto alla parola “Mite”. Significante e significato congiunti così, in un matrimonio degno del miglior Saussure. L’abito che fa il monaco ha questa volta le sembianze di un impegnativo maglione retrò a dolcevita e di un viso spigoloso quanto basta, addolcito appena in parentesi da due folte basette. Uno schizzo a china sulla carta ingiallita dal tempo: Alasdair Roberts è un ragazzone alto, dinoccolato, con la faccia buona che hanno i pastori dalle sue parti. E forse un pastore avrebbe anche finito per diventarlo, non si fosse trovato a recitare il ruolo dell’eroe in una fiaba che oggi diremmo cinematografica, con un’attempata leggenda del crooning o una rockstar maledetta nei panni attanziali dell’aiutante magico al posto del barbuto forestiero Will Oldham. Immaginiamolo diciottenne il nostro Ali, inchiodato dal rossore mentre passa a Bonnie Prince Billy un demo della sua band del liceo, gli Appendix Out. E figuriamoci i suoi occhi stupefatti nell’affrontare la lettera della prestigiosa Drag City, pronta a offrirgli un contratto senza ulteriori preliminari. Vero che sembra un romanzo, ma andò in scena sul serio nella Glasgow del 1995. Da allora il ragazzo si è fatto strada senza mai alzare i gomiti, eccezion fatta per gli irrinunciabili momenti di distensione nel pub sotto casa. Adottato dal Principe, adottato da Jason Molina negli anni splendidi dei Songs: Ohia, e poi da entrambi ad un tempo con il progetto in patrocinio Amalgamated Sons of Rest. Pure una benedizione dal santino Sean O’Hagan per non farsi mancare nulla, ed un lasciapassare in Secretly Canadian.

Tanti padrini, tanti dischi messi in pila negli anni, prima con quel gruppo sempre più scomodo, quindi in perfetta solitudine e infine con solo una ristretta corte di amici selezionati. Tanto tempo speso a costruirsi la fama del folksinger instancabile, poco incline alle frenetiche divagazioni espressive ma altresì avverso alle tentazioni manieriste o accademiche del puro revival. Con la penna e la chitarra ha vergato una bozza d’armistizio tra i retroterra folklorici delle sue campagne e di quelle inglesi, gallesi e irlandesi, muovendo con la cautela del filologo e riservandosi di tanto in tanto il piacere di un inciso tra il progressive e l’acidulo, alla maniera di un Greg Weeks finalmente lucido. Per le parole si è ripensato pescatore di scintille dorate, dal monumentale forziere della letteratura: stralci di epica cavalleresca e tetre murder ballads, medievalismi e canzoni marinaresche, vivificati grazie a ricche orchestrazioni da protocollo o stilizzati abbracciando soluzioni assai più spoglie, cameristiche e sostanziali. Lo scorso anno si è celebrato il matrimonio tra le sue Lowlands e le Highlands della cantante e attrice Mairi Morrison, in un brillante disegno di revisionismo celtico tratteggiato con il contegno dei fini musicologi e chiuso dalla pubblicazione di un disco intitolato semplicemente “Battesimo”. Come offrire all’afflato degli antichi canzonieri gaelici una pelle nuova di zecca – scorza blues, jazz o bossa nova – riuscendo comunque appropriati. Fedele al suo credo artistico, Ali rinnova oggi il legame magico tra arcaismi ed attualità trasfigurata anche nei solchi della sua ultima prova in studio, ‘Wonder Working Stone’.

Roberts l’affabulatore col viso da eterno ragazzo, piglio moderno ma repertorio polveroso, e bardo fuori quota per questi nostri miseri giorni balordi. Un pulviscolo comunque prezioso, il suo. Così plateale, in un avvio che sa di filastrocche dei tempi andati, da esonerare in platea chiunque non chieda altro pretesto per accantonarlo e passare oltre. Le prime ballate colpiscono per la pienezza degli arrangiamenti, per il fulgore classicista, il mestiere e la passione, non certo per chissà quale omessa sorpresa. E’ la bontà della tradizione, bellezza, la sua fragranza, e tu non ci puoi fare niente. Lo standard bucolico è rispettato alla stregua di un cerimoniale sacro, nella flemma dei toni come nell’inoffensivo arsenale a disposizione: viole e violini dappertutto, corni, flauti, chitarre acustiche in abbondanza, un cameo della fisarmonica. Per la patente di genuinità – sai mai che qualcuno ancora gliela domandi – vale la stessa carta del devoto in pellegrinaggio di cui riporta traccia qualsiasi recensione che parli di lui, speranza sul Cammino dei mostri sacri del folk inglese. Pentangle e Fairport Convention le stazioni obbligate, ma una breve sosta anche nella Caledonia tratteggiata dal dulcimer e dalla sei corde del padre Alan ormai una vita fa. Il finale in lingua della lunga canzone dicembrina rappresenta allora l’ovvia acme di questa immersione nelle immobili ma limpide acque del passato. E’ musica lontanissima dalle maliarde lusinghe dell’hype, dal fascino volatile che ogni moda porta cucito in bella vista sul bavero. Le suggestioni, tuttavia, non le fanno difetto. L’imprevedibilità poi, stesso discorso. Quando i ritmi si fanno incalzanti si sarebbe tentati d’aspettarlo al varco, certi di scorgere nei suoi quadretti la Scozia oleografica delle peggiori cartoline. Ma Ali è già altrove. Assorto nel trastullo di una contaminazione con il country della scuola nordamericana, così da avvicinare per condotta espressiva il suo vero mentore. Che è lì davvero ad un soffio, non appena il ricamo replica gli scarni disegni di un album come ‘Spoils’. E’ proprio nella disciplina del pauperista che Alasdair svela le grandi seduzioni della sua terra aspra, alla maniera del compaesano Mike Scott e dei suoi Waterboys per l’Irlanda. Con James Yorkston persuaso dalle potenzialità infinite dell’artificio pop e King Creosote ormai sedotto dalle fruttuose joint venture in salsa elettronica, Roberts sembra quindi in grado di prevalere sui due alfieri del Fife nella sua stessa specialità.

Parlare ancora solo di promesse, in ogni caso, suona ingeneroso per tutti. Con le atmosfere senza tempo annoverate nella sua lista di referenze, sospese in un incanto quanto mai distante dall’insulsa bruttura contemporanea, non c’è proprio più nulla che vada dimostrato. A trentacinque anni Ali è un cantautore fatto, prima ancora che un eccellente mastro artigiano. Come il cantato evocativo e mai sopra le righe che porta in dote, ha saputo esser forte nelle proprie debolezze. Tra languori elettrici e sobrie finiture, in ‘Fusion of Horizons’ sembra togliersi lo sfizio di un’impressionante aderenza al songwriting umbratile e alla tenue, umanissima malinconia di uno dei giganti della scuderia, quel Bill Callahan che alcuni anni fa lo portò con sé in giro per il mondo. Rispetto ai Simon Breed e agli Adrian Crowley , discepoli pedestri del verbo Smog, qui è però proprio il timbro vocale ben diverso a marcare una netta distanza. Un po’ come quando lo spettro tormentato di Nick Drake fa capolino nella meravigliosa ‘Gave the Green Blessing’ e tocca a quella sua voce chioccia infrangere la sfibrante angheria dell’immagine nello specchio, inarrivabile. I piedi e il cuore, tuttavia, scelgono una concretezza che non si potrebbe immaginare più terrena. Nessuna bizzarria ancestrale questa volta, sconfinamenti nel fantastico opportunamente interdetti. In loro vece, un’ininterrotta celebrazione delle radici, di un universo popolaresco, comunitario, e delle sue fiabe scure da tramandare a oltranza. Lo spirito di un disco caloroso, partecipato e come sempre suonato in modo magnifico, risplende nella leggerezza conviviale, materia povera per definizione che può però tradursi in lusso se le motivazioni sono quelle giuste. Svagarsi, per dirne una, magari sabotando un grande classico jazz per trarne un divertissement eclettico. Capita così di ritrovare in Roberts e i suoi accoliti la nutrita squadriglia Lambchop, per giunta in un clima di ostentata licenza. Stesso virtuosismo ad ampio raggio, stesso stupefacente affiatamento ed identico fluire torrenziale eppure placido.
Curiosa l’ironia, arrivati sul delta: un’ora e passa di musica oltremodo rigogliosa, ed un microscopico aggettivo di sole quattro lettere per contrassegnarla. Ancora una volta, Saussure approverebbe.

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