American Psycho _Letture

       

Chissà se Patrick Bateman è poi riuscito a prenotare quel famoso tavolo al Dorsia… Magari sì, ma se pure il ristorante newyorkese non fosse solo il frutto della mente di Bret Easton Ellis, sarebbe dura per il protagonista del suo celeberrimo “American Psycho” imbattersi nel proprio mito indiscusso, quel Donald Trump da poco eletto Presidente.

Non mi riesce di parlare di questo libro senza servirmi del pur umile spadino dell’ironia, forse l’unico strumento utile a uscire indenni dalle caustiche insidie che quest’opera riserva ai lettori sprovveduti. Per omologazione sarebbe comodo adeguarsi al coro di lodi sperticate che accompagnano il romanzo dalla sua uscita, un quarto di secolo fa giusto giusto. A me la cosa non è riuscita anche se ci ho provato, mi spiace. Il suo sadismo mi ha fatto male, anche al netto dell provocazioni (che posso ben comprendere) o delle ridondanze volute (francamente indigeste, a lungo andare), e sì che io non credo certo di potermi etichettare come “anima candida”. Il pugno nello stomaco non mi preoccupa, ne ho già presi diversi e quasi tutti me li ero andati a cercare. Ma il pugno nello stomaco gratuito no, quello mi da ai nervi. E la celebrata opera terza di Ellis appartiene a quest’ultima categoria, e non nasconde l’orgoglio per il fatto di farne parte. Ideologicamente insomma siamo agli antipodi, ma almeno c’è la scrittura a compensare, innegabilmente valida. Un po’ sprecata in realtà, se la costringi a inseguire per mimesi la mente di un maniaco, rendendola essa stessa maniacale: un gioco che può reggere fino a un certo punto, ma dopo centinaia di pagine, beh…

Entusiasmi o meno, “American Psycho” è però uno di quei testi che non si dimenticano – di questo va dato atto a Bret – proprio come il suo protagonista. Che per me avrà per sempre il volto di un (lui sì) sensazionale Christian Bale, l’attore scelto per la discreta (e non altrettanto cinica) trasposizione cinematografica firmata da Mary Harron (chi?!). Non so, indimenticabile ma anche un po’ indigesto. Mi ha inibito nei riguardi di un autore che per altri versi ho sempre trovato intrigante. “Glamorama”, “Meno Di Zero”, “Le Regole Dell’Attrazione” e “Imperial Bedrooms” sono comunque tutti lì, accanto, nella mia libreria. Chissà che un giorno questa indisposizione non mi passi e non mi torni la voglia…

Dovrebbe essere un brillante uomo d’affari di Wall Street Patrick Bateman, broker di quelli cazzuti à la Gordon Gekko che sul finire degli anni ottanta spopolavano nell’immaginario comune come emblemi del vero successo. Dovrebbe, perché a dirla tutta non capiterà mai di vederlo sudare le proverbiali sette camicie per mettere assieme quella stessa fortuna che si mostra invece assai prodigo a dissipare, puntualmente, nei templi del lusso newyorkese come nei locali di maggior grido. Ha una fidanzata avvenente ma interscambiabile a piacimento con infinite altre, ombre degli yuppies più rampanti ma non certo luminari al femminile in lizza per un premio nobel. Agli occhi di lei si presenta come “il ragazzo della porta accanto”, ma non impieghiamo molto a renderci conto che dietro il velo di apparenze, dietro il suo ruolo oracolare in fatto di abbinamenti e bon ton, il Bateman privato è un Edward Hyde perverso ed efferato. Ce lo racconta lui stesso, sciogliendo la briglia a una collezione di monologhi interiori raccapriccianti, per adesione ai cliché della mente dissennata e crudele oltre ogni limite. Vorrebbe scoprire come abbia fatto il borioso Paul Owen a assicurarsi la mecca del “Portafoglio Fisher”, e non esiterà ad ammazzarlo alla prima occasione utile.

Nutrirà impulsi simili verso numerosi altri colleghi, figurine accomunate dalla loro natura insopportabile e iperstandardizzata, oltreché dal fatto di chiamarsi vicendevolmente con nomi inesatti, con una sufficienza che rasenta il patologico. A pagare i sempre più frequenti deragliamenti di una coscienza minata da troppi guasti saranno però, più che altro, vacue accompagnatrici da quattro soldi e gli immancabili homeless, la tappezzeria umana che nel Lower East Side va sempre per la maggiore. I tentativi quasi disperati con cui Bateman proverà a farsi acciuffare, colpendo nel mucchio con sempre meno cautele e rendendo pure caricature i precetti del proverbiale “delitto perfetto”, non sortiranno altri effetti che un inseguimento buono al più per un noir alla Michael Mann, mentre anche la sua patetica confessione su segreteria telefonica verrà accolta come la semplice carnevalata di un drogato di lavoro un tantino esaurito. E allora, forse, andrà a finire che il famigerato serial killer potrà ambire al ruolo di eroe in una società marcia, ottusa e depravata, impossibile da emendare se non con il sangue.

Deliri di onnipotenza, ridicole ossessioni, misoginia galoppante e tetra satira sociale (a voler proprio nobilitare la critica furbetta che a tratti si lascia ammirare) sono gli ingredienti grazie ai quali Ellis da corpo al vuoto pneumatico di un mondo e di un’epoca, aggrappandosi al suo primattore come all’emblema di una way of life che ha superato in quinta anche le più sfrenate tra le fantasie malate del Sogno Americano, e consacrando se stessa in maniera frenetica a ogni possibile falso mito, senza più margini di credito a pur elementari forme di amore o solidarietà. L’autore è stato abilissimo – diciamo pure geniale, vista la messe di allodole imbambolate dagli specchietti qua e là piazzati ad arte – a giocarsi le carte del nonsense e della verve comica, espedienti narrativi perfetti per controbilanciare la spietata, seriosa insensatezza dietro le efferate azioni del cavaliere nero Patrick, e ancor più dei suoi pensieri. E’ un trucchetto semplicissimo, del genere che fa fine e impegna meno di zero, e gente come Palahniuk l’ha metabolizzato così bene da riuscire a imbastirci su una più che ragguardevole carriera.

Ecco allora la dipendenza del protagonista da una boiata televisiva come il Patty Winters Show (peraltro sempre più sfarfallante e grottesco, curiosamente in linea con i suoi – diciamo così – ragionamenti), l’odio insano e caustico verso le orribili comparse incravattate del suo universo dopato (più che dorato), il ridicolo imperante dietro manie e vezzi eccentrici, quell’insistere a oltranza sulle Diet Pepsi o i J&B on the rocks, o nel noleggio della videocassetta di “Omicidio A Luci Rosse”, per non parlare dell’imbarazzante entusiasmo per i peggiori Genesis di sempre o i mediocri Huey Lewis & The News (in lunghe dissertazioni che si vorrebbero ironiche, ma trascolorano presto in noia plumbea). Anche le presunte perle di saggezza come la celeberrima “Il mondo il più delle volte è non solo cattivo, ma addirittura crudele” hanno il sapore di una beffarda presa per i fondelli e andrebbero lasciate cadere anziché raccolte e rilanciate. Ma la miscela è indubbiamente ben studiata, il retrogusto fruttato e dolcemente alcolico, un mix che non poteva mancare la presa sull’immaginario collettivo, appena usciti (morti, direbbe il cantante) dal tunnel degli anni ottanta. Bene, pur impeccabile per stile e puntuto nella messinscena, questo affresco riesce a essere più stucchevole della realtà che suggerisce di voler denigrare. Per dirne una, quando va bene le donne appaiono come povere cretine opportuniste, magari strafatte di psicofarmaci o diete ridicole e degne, nel migliore dei casi, di esser liquidate con la lusinghiera (?) etichetta di “corpoduro”. Avvilente, ma c’è gente intelligente che plaude.

Il peggio tuttavia, ben più delle tremende e morbose descrizioni dei delitti, sono le centosettanta pagine che l’autore impiega per “confezionare” il suo primo omicidio, anche solo tentato. Quella brutalità secca, scioccante, sa essere persino liberatoria (per quanto all’ennesima replica si finisca per non poterne davvero più) in coda all’eterno preambolo che ha visto Ellis affilare le armi di un implicito sadismo, costringendo il povero lettore a sorbirsi a ripetizione, implacabilmente, elenchi su elenchi di abiti e accessori griffati, impossibili pietanze dalle esotiche implicazioni oltre a un rosario di rituali maniacali sulla cura del corpo e l’igiene personale, da mettere i brividi anche ai più fissati (e impavidi) in materia. E ancora, epifanie curiose che sembrano riaffacciarsi all’infinito come deja vu in un incubo dei più ostici, dai manifesti di “Les Miserables” in giro per Manhattan a quel fantomatico bistrot salvadoregno in cui tutti sembrano andare eccetto il protagonista, dal tavolo impossibile da riservare al Dorsia (mancato come una cena di gruppo in “Il fascino discreto della borghesia”) alle sinistre evocazioni dell’odioso amico Tim Price, presumibilmente cancellato (fuori campo) dalla circolazione prima di regalare un bel paio di corna a Patrick.

Al di là di tutto, del nichilismo in dosi da cavallo, dell’ultraviolenza rigorosamente gratuita, di provocazioni (per anime candide) che lasciano il più delle volte il tempo che trovano, dello sfarzo ipocrita o l’ostinata assenza di una morale o una direzione, “American Psycho” resta un’opera cinica come poche, sgradevole se affrontata con il beneficio dell’ironica indulgenza ma addirittura insostenibile qualora si scelga di dedicarvisi senza l’ausilio di questo filtro. Spacciato da oltre vent’anni per un romanzo irrinunciabile, sembra piuttosto, sotto quella crosta modaiola, una grossa perdita di tempo.

4.6/10

10 Comments

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