Month: aprile 2017

Joshua allora e oggi _Letture

       

E, finalmente… Mordecai Richler. Ok, “La Versione di Barney” l’abbiamo letta tutti, ma l’errore comune è di limitare l’autore canadese a quello che resta il suo indiscusso capolavoro. Richler però non era solo Barney Panofsky, e a ribadire l’assunto pensa soprattutto il romanzone che qui vi presento. Prima di lui c’è stato infatti Joshua Shapiro, altro calco autobiografico superlativo. Il confronto tra i due, in differita di oltre tre lustri a vantaggio di quest’ultimo, può rivelarsi operazione non meno avvincente della lettura di quest’opera datata 1980, già vertiginosa per l’intreccio, per le digressioni esaltanti oltreché per la profusione di figurine minori (ma irresistibili) dalla generosa galleria richleriana. Una tirata d’orecchi alla Adelphi, che ha impiegato davvero troppo tempo per pubblicare questa meraviglia (privilegiando magari testi minori e prescindibili, libricini per l’infanzia o raccolte di articoli del Nostro). Ad ogni buon conto, meglio tardi che mai!

Montreal, fine anni settanta: Joshua Shapiro è in convalescenza per un brutto incidente stradale. Giornalista sportivo e televisivo, miscredente di origini ebraiche, autore letterario di un certo successo in Canada, ha perso temporaneamente il controllo sulla sua vita. L’amatissima moglie Pauline è scomparsa nel nulla, uno scandalo sessuale montato ad arte sta danneggiando la sua reputazione e, come non fosse abbastanza, c’è anche un ambiguo ispettore che non esita a fargli le pulci per un comodo tornaconto personale. Su di lui e i suoi tre figli vegliano però come angeli custodi il padre Reuben, ex promessa del pugilato ed ex scagnozzo del boss della mafia locale, e il ben più azzimato suocero, rappresentante del Quebec patrizio e per lunghi anni senatore influente. Impossibilitato a far altro che riposare e tornare indietro con la memoria, Joshua si perde tra i mille rivoli incoerenti del suo passato, quasi a voler cercare brandelli di senso alle attuali, sfavorevoli circostanze, all’allontanamento della donna conquistata con perseveranza ammirevole (e mai tradita) e all’irriducibile corruzione del bel mondo ipocrita che aveva imparato a conoscere e fronteggiare, che ora gli sfugge e pare pronto a espellerlo come il corpo estraneo che è sempre stato.

Senza fornire pratiche guide ai suoi itinerari, Mordecai Richler ci invita a seguire Joshua nel dedalo dei suoi trascorsi, saltabeccando tra i duri anni della fanciullezza, a ridosso del secondo conflitto mondiale, e quelli in apparenza più confortevoli dell’affermazione professionale, tra le scapigliate disavventure giovanili a Ibiza – qui fascinosa e pressoché incontaminata – nell’inseguimento impossibile al mito delle brigate internazionali nella Spagna della guerra civile e la boheme povera ma onesta spesa in una Londra ancora ben lungi dal potersi fregiare dell’accattivante etichetta swinging. Tra furfanti matricolati, parenti serpenti, circoli di scrittori boriosi e comunisti da operetta, riccastri drogati di mondanità e vecchi amici pronti a pugnalarsi alla schiena, ricostruiamo assieme al protagonista il rutilante mosaico dei primi cinquant’anni della sua vita, simpatizziamo con lui, pure non sempre impeccabile, e con gli anticorpi che ha sviluppato strada facendo in contesti quasi immancabilmente vili, urticanti, cinici e gretti, la corazza formidabile per sopravvivere con la necessaria purezza senza soccombere alla stupidità o al moralismo imperanti.

Pubblicato diciassette anni prima del celeberrimo “La Versione di Barney”, “Joshua Allora e Oggi” è sicuramente ben altro che la pallida copia di quel capolavoro. In primo luogo poiché, appunto, questo romanzo è stato scritto parecchio tempo prima; quindi perché non si tratta affatto di un’opera minore. Molto scaltri e in fondo comprensibili quelli della Adelphi, che battono sul ferro ancora incandescente di quella sensazionale sorpresa letteraria del 1997, assicurando che anche in questo caso il lettore avrà modo di trovare un validissimo surrogato al titanico protagonista del più scintillante successo di Richler. Dimenticano di dirci che ci sono voluti trentatre lunghi anni perché questo libro fosse pubblicato in Italia e che, forse, con un po’ più di avvedutezza allora, sarebbe stato ridimensionato proprio il clamore suscitato poi dalla scoperta de “La Versione”, per come sono andate le cose un autentico fulmine a ciel sereno. Sia come sia, un ponte tra i due romanzi esiste innegabilmente, ma solo perché sono lo stile e l’immaginario di Mordecai, entrambi vividissimi ed entrambi cruciali, a fare la differenza e legare questi titoli.

Sostenere che qui l’autore canadese abbia fatto le prove generali per il ben più tardivo gioiello è sensato. Ma non si deve negare a “Joshua” la dignità che merita. Se volessimo fingere per un istante di non esserci mai imbattuti nel successivo caso letterario, dovremmo ammettere che sì, questo libro brilla di luce propria perché anche stavolta, in tempi non sospetti, Richler ha infilato tantissimo di sé. L’infanzia umile a St. Urbain Street è calda e croccante. La McGill solo agognata e relativa invidia per i rampolli della Montreal bene che hanno potuto frequentarla è puro, superbo, rancore autobiografico. Non parliamo poi dell’ininterrotto compendio di ironia sull’essere ebrei in una società avida di profitti e riconoscimenti, nonché incline all’ipocrisia e al perbenismo: per Joshua Shapiro è pane quotidiano, gliel’ha insegnato l’indimenticabile Reuben tra una visita mancata alla sinagoga e una bella Labatt’s ghiacciata. Ma Joshua e Mordecai condividono tra le altre cose anche la venerazione per Hemingway, un avventuroso soggiorno a Ibiza nei primi anni cinquanta e fondamentali trascorsi londinesi, prima del ritorno in patria da autori affermati e padri di famiglia. E poi l’intelligenza, il bagaglio più prezioso di queste anime eternamente nomadi.

Il gioco delle differenze allontana peraltro i rischi della mera operazione fotocopia. Rispetto a Barney Panofsky, Joshua Shapiro è meno estremo, meno politicamente scorretto (anche se si fa tramite, per il suo creatore, di alcune stoccate niente male contro la legge 110 in difesa della lingua francese, all’epoca tema di scottante attualità), meno disastrato e irrecuperabile. Al contrario, è ben più concreto nella sua ammirevole, ostinata lotta da autodidatta per l’indipendenza e il riconoscimento, in primis personale. E’ caustico, impulsivo, pragmatico, non di rado antipatico, sempre umanissimo. Se l’intreccio ostico per la sua frammentarietà resta l’elemento di massimo contatto tra i due romanzi, proprio ciò che affiora quando si entra nel vivo vale la più netta delle distanze tra essi. Ne “La Versione di Barney” la malattia conduce a un disgregarsi della memoria, a uno sfilacciarsi sempre più confuso della verità che pare perdere ogni certezza assoluta; in “Joshua” si prospetta al contrario una progressiva presa di coscienza, un faticoso riappropriarsi del passato per interiorizzare ciò che di più doloroso vi è sepolto, la consapevolezza che gli errori si pagano, che luoghi e persone cambiano – spesso e volentieri in peggio – e che la giovinezza vola via senza che ce ne accorgiamo. In questo c’è forse più amarezza e disincanto che nel futuro bestseller: le pagine sul ritorno a Ibiza dopo un quarto di secolo non potrebbero essere più malinconiche e sconfortanti.

“I giorni sono lunghi ma gli anni volano”, diceva la nonna di uno dei compagni di scuola di Shapiro. Un paradosso che ne nasconde un altro: le intricate manipolazioni dell’ordito non sono facili da sciogliere, eppure il libro vola via leggero, letteralmente, una sorpresa sbalorditiva dietro ogni curva. Continue irresistibili diversioni, piazzate con regolarità dallo scaltro Mordecai, confondono di continuo il lettore ma amplificano il piacere della lettura, moltiplicano risvolti e sottotracce, inaugurano e interrompono senza posa nuovi romanzi nel romanzo, uno più bello dell’altro. Le riunioni annuali della congrega goliardica della Mackenzie King Memorial Society, le lezioni di etica del padre manigoldo dal cuore d’oro, la dubbia moralità di una madre spogliarellista e fedifraga, la vacuità triste dello sventurato cognato Kevin, l’astiosa doppiezza di Jack Trimble, la limpidezza del “Senatore”, i ritratti imperdibili delle figurine minori (il cugino Sheldon, l’amico Murdoch, il crapulone Seymour Kaplan, l’ignobile Izzy Singer, il miserabile dottor Mueller, la perversa Jane Trimble e il poliziotto McMaster, che sognava di diventare come Wambaugh) implorano per essere ricordati e sostanzialmente lo meritano: sono queste le tessere che concorrono a rendere imperdibile “Joshua Allora e Oggi”, assemblate con maestria dalla sceneggiatura di un Richler in stato di grazia.

Peccato solo, forse, per un finale che gli inglesi definirebbero “pretty decent”: la genialità di “La Versione…” almeno qui, solo qui, manca. Ci sono però tali e tante pagine di straordinaria perfezione (le lunghe parentesi spagnole, l’inizio del legame sentimentale tra Shapiro e Pauline, il demenziale inciso su Mackenzie King e i suoi cani) che, assieme alla consueta profusione di dialoghi fenomenali, garantiscono anche a “Joshua” le cinque stelle piene e, alla buonanima di Mordecai Richler, una benevolenza incondizionata.

9.0/10

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L’Autunno a Pechino _Letture

       

Torno con immenso piacere a parlare di quel genio di Boris Vian. L’occasione mi è offerta dal recupero di uno dei suoi romanzi in assoluto più folli e pessimisti, “L’Autunno a Pechino”, salutato ormai cinquant’anni fa come il capolavoro dell’autore francese, stando a quelli della Rizzoli che si davano pena di promuoverlo. Con un rivale ingombrante come “La Schiuma dei Giorni” l’etichetta suona eccessiva, ma neanche poi troppo. Chiunque non abbia particolari problemi con il Vian più visionario e nichilista, quello dello “Strappacuore” per intenderci, in quest’opera rilanciata in tempi più recenti da Sellerio troverà pane per i suoi denti. Sembra un testo teatrale, anticipa il nonsense vertiginoso di un Richard Brautigan ed è un sublime lavoro poetico, un inno alla stupidità e all’inutilità che merita di non essere dimenticato.

Tra le dune della misteriosa Exopotamia è in programma la costruzione di una linea ferroviaria faraonica. Poco importa se si tratterà della più classica delle cattedrali nel deserto: il consiglio di amministrazione della società che in Francia si è assicurata l’appalto pare lanciatissimo, anche se nelle pompose riunioni dei suoi altissimi papaveri il clou è rappresentato dalla condivisione di cartoline pornografiche, e per le scelte operative si lascia molto alla buona sorte o all’immaginazione. Un direttore dei lavori, il pavido omosessuale Amadis Dudu, ha già avuto il suo bravo incarico; peccato sia giunto sul posto per puro caso, inconsapevole di quanto lo attendesse e condotto là da un autobus della linea 975 che non si capisce come abbia potuto attraversare mari e monti in una mezzoretta scarsa. Poco male, l’impatto con l’ambiente sembra corroborarne lo spirito e lo trasforma dal vessato per eccellenza nell’incubo di quelli che saranno i suoi sottoposti, giunti anch’essi nella desolata regione senza averlo programmato: Angel e Anne, due amici ingegneri entrambi di sesso maschile a dispetto del nome (“nome da cane”, scrive più volte l’autore), il secondo dei quali ha una fidanzata, Rochelle, platonicamente amata dal primo e qui presente in veste di segretaria; il professor Mangemanche, medico del cantiere che pare più interessato a dilettarsi con i suoi modellini d’aereo e a tormentare il suo assistente che non a esercitare con profitto la professione; il personale esecutivo, ovvero i nerboruti Carlo e Marin addetti al lavoro “di fatica”, con i rispettivi figlioli.

A tutti loro l’Exopotamia non sembra avere grandi svaghi da offrire, se si eccettuano alcune anomalie bizzarre (degne per inventiva, in futuro, di un Richard Brautigan) e la compagnia di pochi altri diavoli che vi si trovano imprigionati con serena accettazione: l’attempato archeologo Athanagore e il suo piccolo staff, con in testa la provocante “donna oggetto” Cuivre; la macchietta italiana Pippo Barrizone, proprietario tuttofare dell’unico albergo ristorante; il grottesco abate Petitjean e il suo protetto, l’eremita Claude Leon, riparato in Exopotamia dopo l’omicidio di un ciclista (con l’attenuante che si trattava di un conformista) per esercitare una forma di ascetismo non proprio ortodosso. Nella stasi e nell’apatia che l’ambiente regala in virtù della sua stessa conformazione geologica, il lettore è invitato a seguire il naufragare dei sogni dei pochi idealisti, assieme all’esplosione delle psicosi dei ben più numerosi (e disastrati) comprimari, mentre nulla di quanto programmato procede come dovrebbe, i binari vengono posati senza che una massicciata sia stata approntata e la morte si prepara a mietere il proprio raccolto, quasi con sollievo da parte delle annoiate vittime qui radunatesi.

“L’autunno a Pechino” è un’opera incredibile. Ha il suo stuolo di detrattori come è naturale che sia, trattandosi di narrativa pindarica e non particolarmente mansueta. Chi abbia già una certa familiarità con lo “stile Vian”, per aver affrontato in precedenza i ben più celebrati “La Schiuma dei Giorni” o “Lo Strappacuore”, non dovrebbe faticare a entrare in sintonia anche con questo testo, meno esplosivo in quanto a pirotecnia linguistica e fantastica, meno anarchico nella struttura, eppure di una buona spanna sopra la già ragguardevole media di cupezza e nichilismo dell’autore francese. L’avvio è folgorante. Un’autentica delizia nonsense, pura giocoleria dadaista, introduce uno alla volta i vari personaggi celebrando la poesia del contrattempo. Si fa “bu” agli orologi per mandare indietro le lancette e il giochino funziona, almeno per quella dei secondi; gli uccelli suonano col becco il tema de “I Battellieri del Volga”, ma steccano miseramente; le immagini riflesse nelle vetrine hanno il vizio di sgraffignare la merce esposta nei negozi; e le comuni sedie di legno possono essere operate e perire come qualunque paziente umano in sala operatoria. Terminata questa fase, il romanzo prende a normalizzarsi, a darsi un certo contegno formale, ma mai del tutto. Che senso avrebbe piazzare una ferrovia in un deserto, esattamente sopra un sito di scavi archeologici, e incaponirsi a farla passare proprio dove si trova l’unica costruzione già presente, costringendo all’esproprio coatto e a una demolizione dell’edificio ancor più demenziale in quanto incompleta? Nessuno, se si eccettua un’occasione d’oro per decantare la stupidità immortale di chi è al comando.

Non c’è dettaglio che non faccia pensare a un testo ideato per il teatro (dell’assurdo, si intende). I protagonisti in prima battuta, tutti tendenzialmente sgradevoli e fortemente caratterizzati come tristi caricature, che paiono palesarsi solo per recitare le loro battute sotto i nostri occhi; quindi la scena, desolante ancor prima che desolata, con un pugno di ambienti asettici e tristanzuoli. La struttura espressiva fortemente regolata e il ricorso massivo ai dialoghi non rappresentano tuttavia un limite, bensì un valore aggiunto: la lettura va infatti avanti che è una bellezza, nonostante l’umore saturnino che fa da padrone. Vi sono pagine realmente sublimi, tra le migliori mai scritte da Vian, come quelle del viaggio per mare visto attraverso gli occhi dei due ragazzini innamorati, Olive e Didiche. Il tono visionario, a rilascio graduale e molto ben disciplinato, è ancora una miniera di suggestioni, con lievità e armonia, “dolce come il canto del chiurlo fischione”. Certo come festa dei paradossi “L’Autunno a Pechino” non potrà che lasciare però l’amaro in bocca, visto che l’insensatezza ha rotto gli argini e ha intaccato senza più speranze ogni ambito, testuale e metatestuale (a cominciare dal titolo che, l’avrete capito, è del tutto gratuito, per continuare con le citazioni prive di significato piazzate in testa a ogni capitoletto): l’autore si riserva giusto poche comparsate esplicative o “passaggi”, che più che guidare demoliscono con pungente ironia le poche certezze rimaste a chi legge.

In fin dei conti si tratta di un inno all’inutilità, disincantato e folle quanto basta (come se Vian vi si fosse dedicato dopo essersi perso anche lui nelle porzioni di deserto delimitate dai raggi neri del matto sole exopotamico). Inutile è la vita, che con estrema leggerezza abbandona le spoglie di tanti di questi figuranti; inutile è il lavoro, che premia i parassiti e non produce nulla di utile o bello; inutili sono l’amore e le sue illusioni, ben rese dalla rivalità amore sacro / amor profano nello scontro senza vincitori tra Angel e Anne con l’insoddisfazione appostata dietro il primo angolo, pronta a avvelenare anche il cuore sulla carta più puro. Inservibili sono sia la religione, una scappatoia per i delinquenti, che la ragione, opportunamente affidate in chiave dissacrante ai due personaggi davvero indimenticabili del romanzo: il pretazzo crapulone e donnaiolo Petitjean, con i suoi rosari un tanto al chilo, il suo blocchetto di dispense autoassolutorie e quelle irresistibili filastrocche in vece delle più canoniche preghiere; e il medico Mangemanche, un macellaio in camicia gialla che al giuramento di Ippocrate ha preferito pericolose forme di rimbecillimento. La risposta è l’alienazione di chi sceglie di dimenticare. Come Athanagore, che recupera reperti integri e li distrugge. O come il consiglio di amministrazione, che insiste a perpetrare gli stessi errori a oltranza. In cima alle voci ormai inutilizzabili Vian colloca infatti la storia, quella con la esse maiuscola: costretta a ripetersi fatalmente con le sue tragedie e incapace di insegnare alcunché alle future generazioni. Un romanzo profondamente pessimista “L’autunno a Pechino”, a tratti eccezionale.

8.8/10

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