Non mi ami ancora _Letture

       

Ed ecco l’esatto fotogramma in cui Jonathan Lethem mi ha un po’ spezzato il cuore. Recuperato dopo aver letto i suoi due gioielli, “La fortezza della solitudine” e “Chronic City”, questo romanzetto – che nella bibliografia del newyorkese è proprio l’anello di congiunzione tra i due titoli citati – si è imposto subito come parentesi marginale e discreta delusione. Opera giovanilista à la Douglas Coupland, appena “carina” quando funziona ma stereotipata ben oltre il necessario attorno agli ormai immancabili cliché indie, ha ben poco da spartire con la Brooklyn fantastica del suo più noto romanzo di formazione ma anche agli spunti visionari (da devoto ex-fan di Philip K. Dick) della sua ultima opera davvero degna di nota. Le sue cose più recenti, tipo “I giardini dei dissidenti” le ho lì sullo scaffale ma a questo punto non sono affatto certo di volerle prendere in mano.

Tirano avanti con assurde occupazioni che parrebbero uscite dalle fantasie scoppiate del primo Douglas Coupland i giovani protagonisti di “Non Mi Ami Ancora”. C’è la telefonista di un ufficio reclami che non è altro che un’installazione d’arte contemporanea. C’è il suo quasi ex-fidanzato, psicologo improvvisato per animali dello zoo con qualche cedimento affettivo verso una giovane cangura depressa. Non può mancare l’impiegata in un porno-shop, quasi un must dell’universo indie americano degli ultimi due decenni. E infine il genietto della compagnia, perditempo cinefilo ossessionato da presunte implicazioni subliminali nel sottotesto de “La Bestia Umana” di Fritz Lang. Sono tutti trentenni, e ancora non è riuscito loro di combinare nulla di buono. Eccetto quando trascorrono assieme il loro tempo e suonano come se non ci fosse un domani nella loro band scalcagnata e ancora priva di nome, il solo espediente per accarezzare l’illusione della libertà. Proprio questo gruppo rock di belle speranze diventa il tramite per una svolta sostanziale, visto che il talento sembrerebbe esserci tutto, la purezza non è mai messa in discussione e un’opportunità inattesa arriva a bussare alla loro porta. Il deus ex machina, preme dirlo, è di quelli davvero insoliti: uno dei fissati di quel “demenziale archivio di lagnanze” che è la baracconata pseudoartistica in cui è coinvolta la bassista Lucinda, primattrice incontrastata del libro.

Il suo “reclamante”, all’altro capo del telefono, la seduce con chiamate quotidiane tanto surreali quanto morbose, influenzandone l’immaginario e candidandosi, all’insaputa di tutti, come il paroliere perfetto di cui l’acerba creatura musicale ha bisogno per un salto di qualità fino a ora solo vagheggiato. Ma che sembra proprio sul punto di manifestarsi quando il suo primo concerto, in un loft preso d’assalto da un esercito di snob eccentrici, si traduce in un successo incredibile. Le offerte arrivano a pioggia e la fama è a un passo, distante giusto l’ospitata radiofonica di rito nella trasmissione del guru di turno, una sorta di John Peel americano. Ma nel frattempo troppe dinamiche, in prevalenza passionali, si sono innescate con l’incarnarsi di quella voce d’oro prima solo virtuale. E così, con l’integrità del quartetto minata nelle fondamenta, nulla di buono si profila forse all’orizzonte, al di là di qualche buon insegnamento sulla lealtà di cui fare tesoro per gli anni a venire.

“Non c’è profondità senza superficie”. In questo romanzo minore, quasi marginale nella sua affettuosa deriva giovanilistica, Jonathan Lethem lo dice abbastanza chiaramente. Per una volta c’è grande leggerezza (a tratti anche troppa), si mima l’entusiasmo ingenuo di chi ancora non è condannato al disincanto grazie ad un’aderenza ammirevole, immersione mai insincera o posticcia in una realtà, quella del sottobosco della musica indipendente, evidentemente molto amata dall’autore. Così si ha modo di offrire, nel groviglio di stramberie e luoghi comuni su un degrado sempre più generalizzato, riflessioni non certo banali sul senso di inadeguatezza o spersonalizzazione, sulla solitudine e gli inganni dell’innamoramento, quasi un marchio registrato della giovinezza che sfuma. Certo non tutto funziona. Alcuni spunti sono fastidiosi per come non stanno in piedi, c’è molto di irreale a cominciare dalle virate caratteriali di quasi tutti i personaggi (un classico i cinici che si trasformano in cuori d’oro, anche se qui prevalgono i movimenti inversi), eppure è innegabile che l’eroina Lucinda, con la sua disastrata navigazione sentimentale del tutto priva di bussole, desti simpatia in modo alquanto naturale.

Ancora una volta Lethem si conferma tuttavia prezioso soprattutto in qualità di scenografo. Al posto della Brooklyn malinconica de “La Fortezza della Solitudine”, fa pur sempre un discreto effetto l’afosa Los Angeles dei boulevard dimenticati, un nuovo villaggio Potemkin assolato e insieme desolato, il teatro perfetto per la parabola dei quattro eterni ragazzini in cerca d’autore (nel vero senso della parola). Delle quinte efficaci, un paio di caratterizzazioni azzeccate e poche pagine di sesso scritte con la dovuta grazia non bastano tuttavia a fare un gran libro. Già per il suo volume ridotto, è alquanto improbabile che questo “Non Mi Ami Ancora” aspirasse a esserlo, anche solo in quanto a intenzioni. Quando va bene è opera carina, non impegnativa ma neppure scialba, che si lascia divorare in agilità. Mancano tuttavia il dolente esistenzialismo de “La Fortezza della Solitudine”, così come gli straordinari vicoli ciechi narrativi di “Chronic City”, con ogni probabilità i due titoli imperdibili dell’autore. Che qui si diletta con mestiere senza offrire mai nulla di più stimolante.

Forse, a ben vedere, quella frase sibillina era puramente autoreferenziale. Non esistono i mezzi capolavori senza i titoli prescindibili. E questa, che la si ami oppure no, è più che altro epidermide.

6.4/10

0 comment