Month: dicembre 2016

Classificone 2016

 

Torno alla musica come in licenza, quasi di straforo, per postare e offrire un commento sommario alla consueta classifica dei miei dischi preferiti dell’anno che sta andando in archivio, un modestissimo 2016. “Consueta” e “preferiti” poi tanto per dire, visto che 1) mi sono accorto di aver bellamente saltato l’appuntamento dodici mesi fa e 2) sarebbe più corretto parlare di dischi “meno sgraditi”, in un’annata che conferma e rilancia il trend a ribasso dell’ultimo decennio, piazzandosi idealmente in coda a qualsiasi graduatoria a tema. Ecco, sembra mi sia ridotto come quei vecchi catarrosi che si lamentano dei tempi moderni rimpiangendo a oltranza il passato, magari è effettivamente così. Una questione annosa, un luogo comune al quale non mi riesce di sottrarmi. Però dai, è innegabile che la qualità media sia un po’ andata a farsi benedire ormai.

Non fosse abbastanza, è stato un anno più che tremendo per la scomparsa di alcuni giganti della canzone, David Bowie, Leonard Cohen e Prince, con i primi due a vincere se non altro una disperata lotta contro il tempo per lasciare agli appassionati i rispettivi album-testamento un attimo prima che diventassero effettivamente postumi. Sull’altro piatto della bilancia, il Nobel per la letteratura attribuito a Bob Dylan, un riconoscimento che, piaccia o meno, rilancia le azioni di un universo culturale da sempre guardato con snobismo alla stregua di un volgare intrattenimento da due soldi. Certo Dylan è Dylan, e di artisti (meglio “personaggi” oggi) come lui non se ne vede l’ombra, all’orizzonte.

Inevitabile premiare ancora Bowie e Cohen, per l’urgenza cui già si è fatto cenno e per l’estremo magnetismo che sia “Blackstar” che “You Want It Darker” esprimono, anche nell’inevitabile sfumare nell’ombra che i titoli stessi evocano. In cima ho voluto premiare (nostalgicamente magari) una Emma Pollock che ha regalato un disco in linea con quelli che scriveva quando era alla guida dei Delgados. Se il tenore generale è calato così vistosamente mentre il suo si è mantenuto ad alti livelli, era impossibile non celebrarla con tutti gli onori del caso. Discorso analogo merita King Creosote, che in ambito folk-cantautoriale si conferma una solida certezza. Poi nel mucchio ecco qualche perla garage revival (Cool Ghouls per il jangle-pop, The Conquerors per il power-pop), stelle del pop al femminile più (l’australiana Olympia) o meno esordienti (la sempre efficacissima Angel Olsen) e stelle del pop al maschile più (il gioiellino Roar) o meno esordienti (Lawrence Arabia, che all’inseguimento del mito Harry Nilsson migliora di anno in anno).

Mi sono limitato a cinquanta posizioni (altre cinquanta le trovate qui, ma a quel punto arriviamo a comprendere anche i 6,5 o giù di lì, e non è che ne valga la pena). Per completezza può valere la pena citare anche la top ten delle delusioni, premesso che non vi rientrano i due peggiori dischi ascoltati quest’anno (Bloc Party e Kaiser Chiefs) – visto che entrambe le band le ho sempre trovate abbastanza rivoltanti – e l’ennesima sciacallata necrofila ai danni di Jeff Buckley. Senza particolare ordine di disprezzo, menziono i Crocodiles ormai synth-oriented, Joan As A Police Woman, Tortoise, Warpaint, Animal Collective, Beth Orton, Josephine Foster, l’insulso album di cover di Mark Kozelek che si è scordato la chitarra, Mull Historical Society e Soft Hills. Come dite? Sono già dieci? E io che volevo tirare in ballo ancora quella che dovrebbe essere, se Dio vorrà, davvero l’ultima fatica intestata ai Guided By Voices, “Please Be Honest”! Pensavo che con un Pollard così malmesso fosse la volta buona per ignorarlo, e invece no: ha abbassato la media di uscite da cinque a due, ma l’unico disco solista di quest’anno, “Of Course, You Are”, è ancora buono. Mannaggia a lui e a me che insisto ad andargli dietro.

 

 1. Emma Pollock ‘In Search of Harperfield’

  2. David Bowie  ‘Blackstar’

  3. King Creosote  ‘Astronaut Meets Appleman’

 4. Cool Ghouls  ‘Animal Races’

 5. Leonard Cohen  ‘You Want It Darker’

 6. Angel Olsen  ‘My Woman’

 7. Olympia  ‘Self Talk’

 8. Lawrence Arabia  ‘Absolute Truth’

 9. Roar  ‘Impossible Animals’

 10. The Conquerors ‘Wyld Time’

 

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 11. Thomas Cohen  ‘Bloom Forever’

 12. Os Noctàmbulos  ‘Stranger’

 13. Car Seat Headrest  ‘Teens Of Denial’

 14. Grant-Lee Phillips  ‘The Narrows’

 15. Hope Sandoval and the Warm Inventions  ‘Until The Hunter’

 16. Doug Tuttle  ‘It Calls On Me’

  17. Woods  ‘City Sun Eater in the River of Light’

  18. Thee Oh Sees  ‘A Weird Exits’

  19. Cate Le Bon  ‘Crab Day’

  20. The Claypool Lennon Delirium  ‘Monolith Of Phobos’

 21. Mountains And Rainbows  ‘Particles’

  22. Scott & Charlene’s Wedding  ‘Mid Thirties Single Scene’

 23. Mothers  ‘When You Walk a Long Distance You Are Tired’

  24. The Yearning  ‘Evening Souvenirs’

  25. Vinicio Capossela  ‘Canzoni della Cupa’

 26. Cory Hanson  ‘The Unborn Capitalist From Limbo’

 27. Death Valley Girls  ‘Glow In The Dark’

  28. California Snow Story  ‘Some Other Places’

  29. Levitation Room  ‘Ethos’

  30. Sam Coomes  ‘Bugger Me’

 31. Black Mountain  ‘IV’

 32. Wussy  ‘Forever Sound’

 33. The Divine Comedy  ‘Foreverland’

 34. Nick Cave & The Bad Seeds  ‘Skeleton Tree’

 35. Karl Blau  ‘Introducing Karl Blau’

 36. Laish  ‘Pendulum Swing’

 37. Sam Means  ‘Ten Songs’

 38. Okkervil River  ‘Away’

 39. Kevin Morby  ‘Singing Saw’

 40. Riley Walker ‘Golden Sings That Have Been Sung’

 41. The Burning Hell  ‘Public Library’

 42. Pavo Pavo  ‘Young Narrator in the Breakers’

 43. Audacity  ‘Hyper Vessels’

 44. Wytches  ‘All Your Happy Life’

 45. Marissa Nadler  ‘Strangers’

 46. Whitney  ‘Light Upon The Lake’

 47. Tacocat  ‘Lost Time’

 48. Basia Bulat  ‘Good Advice’

 49. Chris Bathgate  ‘Old Factory Ep’

 50. Brigid Mae Power  ‘Brigid Mae Power’

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La Fiaba dell’Ultimo Pensiero _Letture

       

No, non è Albert Einstein il tipo che vedete qui sopra, anche se la somiglianza appare evidente. Si chiama Edgar Hilsenrath, è uno scrittore tedesco e con Einstein condivide soltanto le origini ebraiche. Dimenticavo di precisare che è un signor scrittore, e il romanzo che sono lieto di presentare qui lo dimostra in maniera incontrovertibile. Parla dell’olocausto. Facile, penserete, l’ennesimo sopravvissuto di Birkenau che affronta la sua dolorosa esperienza con lo sterminio. Non è così o, meglio, non proprio, alla Shoah ha dedicato l’altrettanto notevole “Il Nazista e Il Barbiere”.

No, il genocidio narrato in questo libro straordinario è quello, raccontato sempre troppo poco, spesso colpevolmente, del popolo armeno. Un crimine che l’ottusità criminale dello stato turco continua purtroppo a rendere, spesso e volentieri, una ferita ancora aperta.

[Da confrontare per forza di cose con il fortunato “La Masseria delle Allodole”. Credo di poter ragionevolmente sostenere che “La Fiaba dell’Ultimo Pensiero” sia comunque migliore, e nemmeno di poco]

Thovma Khatisian è giunto al capolinea. Una vita piena la sua, settantatré primavere trascorse intensamente e nel segno del pericolo, precoce nello sradicamento e costretto a faticare ogni giorno per trovare il proprio posto nel mondo, con tutta la dignità del caso. Il tempo è scaduto ma lo si è speso bene, conducendo un’esistenza ben più giusta di quanto non sia stato nei suoi confronti il kismet, il destino. Resta tuttavia un fondo lacunoso anche nel suo scorrere non avaro di soddisfazioni, ormai giunto agli sgoccioli: è il passato remoto, l’anello a lungo sfiorato ma mai davvero afferrato. Sulle proprie origini Thovma mostra di avere le idee parecchio confuse. Forse perché la cronaca della sua nascita ha dovuto costruirsela, riadattandola e rabberciandola dalle numerose testimonianze di sopravvissuti dell’Hayastan, la Turchia armena o Anatolia, il paese dove “i girasoli crescono fino al cielo o alle porte del paradiso”, dove “i monti toccano le nuvole”, dove “i cocomeri sono più rotondi, grossi e succosi del più grosso culo di donna” e dove “Cristo è stato crocifisso per la seconda volta”. Delle radici, un nome, una tradizione, fabbricati e divenuti autentici con l’andar dei giorni, ma che solo l’“estrema chiarezza” conquistata dall’ultimo pensiero, in punto di morte, potrà sgombrare dall’incertezza e dal nebuloso garbuglio della Storia, quella con la esse maiuscola. A sincerarsi che questo avvenga e che l’anima del moribondo possa librarsi finalmente in volo sulla meravigliosa terra natia, per unirsi a quelle di altri milioni di sussurranti vittime di un genocidio tra i più brutali di sempre, nonché sulle lacune a riguardo nei libri di storia turchi, pensa il misterioso narratore di fiabe nella sua mente, il Meddah, compagno di quell’ultimo alito di coscienza in un momento del trapasso dilatato per più di cinquecento, incredibili pagine.

Ma non è di Thovma o di Haik – a seconda di come quel neonato del 1915 sarà chiamato dai genitori veri o da quelli adottivi – l’avventura che Edgar Hilsenrath ha cuore di narrare. Thovma è solo un tramite tra lo spirito del tempo e noi lettori, l’orecchio cui sono descritti trenta e più anni di una storia rimasta colpevolmente ai margini affinché siano le nostre orecchie a raccoglierli e farne tesoro, strappandoli per sempre all’oblio e facendo sì che una preziosa lezione non venga dimenticata. E’ Wartan Khatisian il protagonista, e con lui l’intero piccolo villaggio montano di Yedi Su, oltre agli operosi artigiani armeni della più ricca Bakir. Vittime tra le tante di una persecuzione poco nota. Punti su una mappa secondaria dei testi scolastici. Vite soprattutto, un tempo felici anche nell’asprezza della povertà pungente, dignitose sempre, eppure condannate a essere recise orrendamente senza nemmeno poter rinunciare alla propria innocenza per opporsi con tutte le forze all’ingiustizia atroce riservata loro. Lo incontriamo giusto un attimo prima che il marasma prenda a impazzare, imprigionato senza alcuna ragione se non per fare di lui il più provvidenziale dei capri espiatori, il grande tessitore di una fantomatica cospirazione armena che avrebbe acceso la miccia del primo conflitto mondiale, a Belgrado, solo per lo sfizio di mettere in cattiva luce la candida Turchia, il sultano e il kaiser tedesco. Mentre i primi connazionali già penzolano sotto la Porta della Beatitudine, leggiamo uno stralcio dei suoi trascorsi negli incartamenti delle massime autorità cittadine, il Vali, il Mutasarrif e il Mudir, e ascoltiamo la sua voce negli interrogatori farsa tra una tortura e l’altra, a caccia della confessione impossibile.

Poi è il Meddah a farci volare con sé nel passato di Wartan, a ricamare la sua parabola esistenziale e quella dei suoi più stretti parenti nel paesino dove il tempo pare essere immobile da generazioni. Sentiamo il calore del focolare, il fiato delle bestie, impariamo a conoscere una famiglia e un popolo pacifici, arroccati su valori tradizionali che odorano più di superstizione pagana che non di fede in Cristo, eccetto che per l’assenza di atteggiamenti ostili nei confronti del prossimo, chiunque egli sia. Impariamo ad amare questa gente all’antica ma immancabilmente buona, vessata da tassazioni assurde, dalle violenze degli zaptié turchi e dei barbari curdi, e la nostra simpatia non ha cedimenti nonostante regole che oggi fanno accapponare la pelle, primi tra tutti i matrimoni combinati in culla o ancor prima di nascere. Ma anche le pagine fiabesche che raccontano con maggior serenità folklorica questa sorta di rifugio incantato sono incupite di tanto in tanto da un’ombra minacciosa, il velario profetico del grande tebk, il massacro distante ancora due o tre decenni eppure già acre nell’aria come un puzzo mefitico, una condanna o una spada che pende, la tragica fine di ogni cosa. E come andrà a finire per quegli anziani così ligi, o quelle donne dalla tempra d’acciaio, è scritto nei manuali di storia contemporanea, almeno in quei quarantacinque paesi (tra cui il nostro ma non la Germania un tempo alleata, né – ma non c’erano dubbi – la Turchia che oggi sogna l’Europa) per i quali questo sterminio di un secolo fa non è solo il frutto di una fantasiosa propaganda bensì un terribile esempio destinato a essere a lungo ignorato, allora come all’alba di nuovi olocausti, dagli uomini e dall’occhio di vetro di un Dio sempre assente.

Questi passaggi spaventosi sono una minima parte del voluminoso romanzo dell’autore tedesco, i soli affidati a una narrazione più neutra e quasi documentaristica, pur non rinunciando del tutto al geniale espediente del narratore invisibile e dell’ultima fiamma vitale di Thovma, in un ininterrotto dialogo di rara delicatezza. Per il resto Hilsenrath racconta un orrore meno pungente ma sempre in scena, magari sullo sfondo o silenzioso, reso apparentemente meno cruento solo dalla routine delle vittime verso le prevaricazioni patite. Nell’infanzia di Wartan c’è sì la paura ma è un sentimento tra i tanti. Ci sono anche l’amore, l’amicizia, il coraggio e l’umanità, quella soprattutto. E non hanno bandiere o professioni religiose esclusive, visto che sono buoni anche i turchi in quel villaggio di poveri diavoli, così come è buona e compassionevole la curda Bulbul, uno dei personaggi memorabili di questo libro. Il fondo nero dell’animo umano è presentato ai lettori affidandosi a un registro particolarmente fortunato negli anni in cui “La Fiaba dell’Ultimo Pensiero” venne scritto, quel Realismo Magico che ha fatto la fortuna dei Garcia Marquez e dei Rushdie, tra gli altri. Bene, questo testo non vale meno dei loro capolavori. Perché è tanto aggraziato nell’accostarsi all’inenarrabile quanto accurato e integerrimo nello smascherare il rosario di ipocrisie che il potere ha tramandato insieme alla menzogna sul conto di un milione e trecentomila poveri cristi. Assassinati senza pietà tra le forre dell’Anatolia o lasciati morire di fame nelle lunghe marce nel deserto, e poi assassinati ancora, sepolti sotto un silenzio lungo cent’anni. L’indignazione di chi non dimentica – suggerisce allora Hilsenrath in un finale quanto mai commovente – è il modo più degno per rendere loro giustizia. Soprattutto perché nulla del genere, questa o quell’altra più nota shoah, abbia modo di ripetersi negli anni a venire.
Un libro bellissimo.

9.3/10

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