Sognando Babilonia _Letture

       

Secondo di tre appuntamenti con Richard Brautigan.
Provo a non ripetere quanto già scritto di recente a proposito di “Willard e i suoi trofei di bowling”, anche se mi rendo conto che la presentazione del personaggio resti lacunosa e questa nuova critica non faccia granché per invogliare una sua riscoperta, a più di tre decenni dalla morte. So che tre romanzi letti sui dieci pubblicati rappresentano un campione parziale, anche perché ogni testo dello scrittore di Tacoma era un po’ un mondo a parte, però non credo di dire una sciocchezza sostenendo che questo “Dreaming Of Babylon” rappresenta un episodio anomalo, persino sorridente e fumettistico, all’interno del suo catalogo. Una personale rilettura del genere hard-boiled, ironica, nostalgica e per nulla gravata dalle consuete allegorie (non sempre di facile interpretazione) o dal nonsense imbizzarrito grazie al quale l’autore di “Pesca alla trota in America” viene ancora blandamente ricordato. Forse mi è piaciuto anche per questo, nella consapevolezza che si tratta di un’operina assolutamente marginale. Un momento di svago, risalente al 1977, che anticipò il più lungo periodo di inattività per lo scrittore, cinque anni di paranoia e alcolismo galoppante (ma anche di viaggi in Giappone) chiusi con le ultime due amarissime pubblicazioni (postuma la seconda), “So the Wind Won’t Blow It All Away” e “An Unfortunate Woman”, e con quel maledetto colpo di 44 magnum alla testa.

C. Card è un detective particolarmente disastrato ma inguaribilmente ottimista. Senza più segretaria, auto, soldi per l’affitto e per mangiare, con una reputazione ai minimi storici, vive quasi da abusivo in un appartamento “così scuro che sembra l’ombra di un appartamento” ma non si perde d’animo e campa grazie a qualche meschino espediente. A salvarlo dalla disperazione sono le frequenti sortite in un rilassante universo di fantasia in cui tende a rifugiarsi da quand’era ragazzo, quella pirotecnica “Babilonia” che obnubila fatalmente le sue facoltà cognitive mettendolo senza posa nei pasticci più neri, e che lui stesso sceneggia sull’onda di un entusiasmo fanciullesco (nei panni dell’eroe senza macchia e senza paura, del campione di baseball o del superdetective, regolarmente affiancato dalla giunonica donna dei suoi sogni, Nana-dirat), ora in forma di pellicola cinematografica, ora di romanzo, di spettacolo shakespeariano, sceneggiato a puntate (“Smith Smith contro i robot ombra”) o di comic strip. Ridotto allo stremo da una sorte non esattamente benevola, abituato com’è a prenderla “in culo dai massimi sistemi”, ha l’insperata occasione per una rivincita coi controfiocchi quando – a metà del libro, praticamente – una misteriosa e sensuale cliente, gran bevitrice di birra, gli commissiona dietro lauto compenso il furto del cadavere di una prostituta, dall’obitorio in cui lavora un medico suo conoscente.

Come sempre, quando si parla di quest’autore folle ma accattivante, i margini per il non detto tendono a estendersi a dismisura, e il gioco bizzarro tra scrittore e lettore è mantenuto sul crinale di una farsa divertita e scoppiettante che annulla qualsivoglia criterio di veridicità nella fabula (e ancor più nell’intreccio, qui sabotato con malcelato piacere dai ricorrenti e coloratissimi inserti della fantomatica Shangri-La carnevalesca: valvola di sfogo, ribaltamento trionfalistico ed espediente narrativo cruciale in quanto fabbrica di spunti tragicomici per i segmenti in apparenza più seri). Un po’ come per le tre sorelle Logan in “Willard e i suoi trofei di bowling”, non è dato sapere le ragioni che spingano la femme fatale a commissionare il rapimento della salma, come non è dato sapere perché quella stessa committente e il suo autista dal collo monumentale “come una mandria di bufali” abbiano incaricato altre due distinte squadre di criminali (rigorosamente da strapazzo) per portare a termine con le buone o le cattive la medesima missione. E nemmeno c’è il tempo per provare a darsi delle risposte, visto che le ore dell’assurda giornata del tenero investigatore volano via come un refolo di vento, l’azione è ridotta all’osso, il nonsense è sconfinato (Dove va a finire tutto l’alcool ingollato dalla bellissima bionda? Perché “il Collo” scatta ogni volta che si pronuncia la parola “champagne”? Perché Smiley non smette di sorridere anche quando gli si spara in una gamba? Perché Babilonia sembra un baraccone pop peggio dell’America anni 60/70) e queste duecentocinquanta paginette vergate da Brautigan vanno via come il pane.

Un Richard più svagato (e ispirato) che mai confeziona con il giusto brio una sorta di agile romanzo pulp-umoristico, un noir macchiettistico, quasi una caricatura del genere hard-boiled dell’epoca. Al centro di tutto un personaggio, indimenticabile protagonista da fumetto, motore di una narrazione sfarfallante e gagliarda che ha nell’irriducibile tono ironico il suo vero propellente. Un libro prescindibile, insomma, quanto godibile.

7.5/10

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