Come in una tomba _Letture

       

Ancora Purdy. Dovete perdonarmelo, ma qualche tempo fa ho insistito parecchio con lui e i frutti si vedono ora in chiave retrospettiva. Potrei limitarmi al copiaincolla di quanto scritto recentemente, perché tanto non ci sono e temo non ci saranno mai novità di alcun rilievo sul suo conto. Aggiungo a quanto già detto una notazione: in carriera l’autore di Hicksville ha firmato diciassette romanzi, otto dei quali attendono ancora la prima edizione italiana (qualcuno da più di quarant’anni). Si pubblica di tutto oggi come oggi, non necessariamente libri di Fabio Volo. Possibile che non ci sia un pisquano che traduca testi a suo tempo anche premiati, come “On Glory’s Course” o “Eustace Chisholm and The Works”, e un pur sgalfio editore che paghi quei due euro di diritti e li pubblichi una volta per tutte? Non chiedo mica la Einaudi, la stessa che lo lanciò in Italia ma si dimenticò presto di lui. Troppi refusi nei loro testi. No, è a gente più minimal e illuminata che rivolgo questa supplica invisibile: Minimum Fax, se ci sei, torna a battere un colpo! Di “In a Shallow Grave” nella fattispecie che dire: un’altra opera a suo modo titanica e tetra oltre ogni immaginazione. Angosciante, nerissima riflessione sulla memoria e l’abbandono: temi chiave in Purdy, temi che, evidentemente, gli si sono rivolti contro come una condanna che sarebbe bene venisse convertita presto in grazia.

Sfigurato da un’esplosione nel mar della Cina meridionale, Garnet Montrose è un reduce di guerra rientrato nella sua casa sull’oceano, in Virginia, e condannato dal suo nuovo raccapricciante aspetto a un inferno in terra fatto di solitudine e rimpianto. Per passare il tempo e arginare i fantasmi del passato, l’uomo comincia a buttar giù i propri pensieri in un diario che brucerà però molto presto, tormentato – più che dalle orripilanti ferite, oramai guarite – dall’inesorabile rigore della memoria, dall’impossibilità di dimenticare, dall’efficienza di un intelletto che sembra particolarmente lucido e terso. Cicatrici, sfregi e chiazze su un corpo color “succo di more”, prigione di una mente che non può che sognare il ritorno al “caro, vecchio me stesso”, è un relitto spiaggiato su una costa desolata, indistinta, da cui spera di affrancarsi trovando nell’unico grande amore della sua adolescenza, la vedova Rance, un’insperata ragione di vita. “Più vago della nebbia, più impalpabile della notte”, vive letteralmente come in una tomba, in un limbo scurissimo, nella vuota attesa di qualcosa che certifichi e insieme legittimi la sua estraneità dal mondo dei vivi. A dargli un senso è unicamente l’ossessione della donna, che ha tutta l’intenzione di tornare a corteggiare per interposta persona. Aspro, burbero, incline a una sobria disperazione, Garnet è un “vecchio” di soli ventisei anni che si illude di essere confinato in un eterno presente privo di prospettive future, ma è in realtà schiacciato dal peso opprimente della nostalgia, dalle reminescenze di quand’era un ambitissimo giovane in piena salute e frequentava una scintillante sala da ballo ormai in abbandono, dove torna regolarmente la notte quasi fosse vittima di un antico incantesimo. Due individui rappresentano per lui il solo elemento di contatto con la realtà: il giovane nero Quintus Pearch, pagato per massaggiargli i piedi e distendergli i nervi attraverso la lettura di vecchi tomi della biblioteca di suo nonno, il cui senso sfugge tuttavia a ogni pretesa di comprensione ed è riscattato dalla rilassante musicalità delle nude parole nell’aria; e poi il giovane bianco Potter Daventry, fuggiasco dello Utah con un terribile segreto insabbiato in recenti trascorsi che paiono lontanissimi, che ha invece il compito di recapitare per lui i messaggi all’amata. Se Quintus si presenta dal primo istante come un tipo taciturno ma accorto, che “vede in trasparenza ogni cosa” e si offre come irrinunciabile garanzia pragmatica, è però con l’irrequieto e imprevedibile Daventry che si instaura il vincolo più profondo, reso quanto mai incandescente dal triangolo sentimentale che ha nella giovane vedova il suo terzo vertice e che porterà, con un implicito sconvolgimento magnetico, al rovesciamento dei poli in gioco, al ribaltamento delle regole di attrazione e repulsione in una sorta di ciclica e beffarda danza delle stagioni.

Detto dell’agenda data alle fiamme, è alle pagine di un altro diario – quello crudo e sincero della pura immaginazione – che Garnet affida i soliloqui che danno vita a “Come in una tomba”. Che è, ancora una volta nel caso di Purdy, uno stupefacente romanzo (breve) sulla memoria, inafferrabile come i pensieri all’origine del memoriale che Alma Mason non scriverà ne “Il Nipote”, inutilmente bugiarda e sempre relativa come i resoconti su “Cabot Wright”, fragilissima e prossima all’oblio come il passato dettato dal vecchio Matt Lacey al suo entusiasta assistente ne “La versione di Geremia”. Quest’ultimo accostamento non è casuale, tanti sono i possibili raccordi tra i due libri. Sembra infatti impossibile non riconoscere nel triste Montrose il calco di quell’anziano narratore, qui migliorato sin nel più infimo dei dettagli dall’autenticità dei suoi pur impulsivi ragionamenti, laddove quel protagonista pareva più che altro congelato in un comodo stereotipo letterario. Entrambi i testi si ricordano inoltre come amari poemi sull’abbandono, in ogni forma esso abbia modo di presentarsi: fisica, emotiva, umana, sociale. Non assistiamo infatti al degrado di un solo individuo rimasto “a parte”, bensì di una collettività che il progresso ha spogliato di tutto, come il desolante teatro urbano della squallida Boutflour. Nelle battute conclusive, mentre la relazione con l’aiutante bianco si fa vincolante in maniera quasi insostenibile e svela inattesi risvolti omosessuali, è proprio quest’ultimo a rappresentare l’opzione risolutiva di tutti gli squilibri, riscattando la proprietà dei Montrose dalle ipoteche che vi gravano come una scure e poi letteralmente immolandosi nel frangente di massima intensità drammatica, per rendere tangibile la guarigione del suo datore di lavoro attraverso il proprio sacrificio come in un mito degli antichi. E’ in questo finale convulso che la narrazione si fa più ostica, visionaria, vibrante, e giocoforza prende a deragliare e perde molto in concretezza finendo per apparire incerta, incoerente, persino sbrigativa. Forse Purdy intendeva mimare così la progressiva follia di un protagonista sempre più sano e sempre meno attendibile, annientato in ultimo anche nel senno (“il mio cervello alla fine scontava la vergogna e lo sfacelo del corpo”), ma lo ha fatto con una violenza brutale, nerissima, disperata, aggrappandosi in via esclusiva a un immaginario tra il catastrofico e il millenaristico (l’uragano, con corollario di oscure profezie) tanto potente quanto vago e nebuloso. L’inquietudine diventa allora sconfinata e l’intero romanzo sembra assumere a posteriori i contorni di un incubo consumato come in preda alla febbre. Che poco a poco si placa, rovesciando le prospettive: il viso di Garnet torna a essere bianco, la vedova Rance prende a fargli una corte spietata con l’aiuto di imberbi messaggeri ma lui ha perso ogni interesse e ha smesso di amarla, consumato dall’assenza di quel Daventry che ora par quasi aleggiare nella casa vuota come uno spettro.

Ancora un grande romanzo da uno scrittore difficile. Cupo, malmostoso, letteralmente rigonfio d’inquietudine, dove non tutte le promesse della prima – straordinaria – parte saranno effettivamente mantenute (avrebbe potuto essere il capolavoro di Purdy), ma i tre personaggi principali si rivelano davvero indimenticabili.
Al solito, consigliato unicamente ai lettori molto pazienti e non particolarmente in sintonia con la banalità autistica di questi tempi.

8.6/10

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