Tooth & Nail

       

Novità su Billy Bragg ne abbiamo? No, me lo chiedo perché con il penultimo tardivo recupero di un mio pezzo da Monthlymusic si è fatto quasi in tempo a vedere pubblicato il relativo successore (mi riferisco all’eponimo di Alasdair Roberts, che uscirà a giorni). Cosa aggiungere allora sul conto del mordace menestrello inglese a due anni esatti (sempre più lento, Stefano!) da questo che, salvo smentite dell’ultimo minuto, resta anche il suo più recente album di inediti? Beh, escludendo la tirata amara in occasione della morte della wicked witch Margaret Thatcher, il tifo per l’indipendenza della Scozia nei giorni del referendum e le lacrime versate per l’ennesimo Ramones passato a miglior vita, nulla di ché. Ma in fondo anche nella recensione dedicatagli mi ero guardato bene dal soffermarmi sui dettagli di un disco pregevole ma non certo indimenticabile, per puntare a un ritratto – diciamo così – definitivo del personaggio. Il risultato mi soddisfa anche ora che ci ritorno: non si tratta di una beatificazione ma credo che l’affetto per l’uomo e il musicista si colgano, specie nell’intento dichiarato di emanciparne la figura dai tanti (troppi) luoghi comuni in cui la si è cacciata in questa trentina (abbondante) di anni di carriera. Ultima considerazione su “Tooth & Nail”, a proposito del quale avevo scritto un pezzo più generalista e, giocoforza, meno “aulico” anche per Ondarock: leggo adesso su Wikipedia che si è rivelato il maggior successo commerciale dell’artista dai tempi remotissimi di “Don’t Try This At Home” (1991).
Ecco, anche questa, sinceramente, non l’avrei mai detta. Con Billy va così.

Parlare di Billy Bragg è davvero come ballare d’architettura. Inutile. Come imbrigliare tra i vetrini del microscopio una passione, alla disperata ricerca di formule che non verranno. Certo l’azzardo di questa citazione logora e bellissima rischia di sembrare un tremendo oltraggio. Siate clementi. Se mai vi capitasse di incontrarlo, me l’accordereste. Se mai vi capitasse di trovarvelo davanti, là da solo su un piccolo palco di travi malandate, vi accoglierebbe con occhi buoni e le sue fidate chitarre ben pronte allo scatto. This Machine Kills Fascists, recita la prima, e già vi vedo scettici sotto le vostre nuvolette. “D’accordo, ma questa l’aveva pensata Woody Guthrie secoli fa”. Tutto giusto, ma Bragg è proprio l’uomo che ha raccolto da uno svogliato Dylan quel testimone, perché si portasse a termine un’impresa. Da improbabile predestinato, ha poi saputo andare a medaglia. Un onore quella valigia di poesie silenti ricevute in dote da Nora Guthrie, affinché di musica le si vestisse. Anche un onere probabilmente, ma alleviato dall’assistenza eccellente dei Wilco operai e pre-rivoluzione-copernicana, quelli in cui Jeff Tweedy ancora sgomitava col compianto Jay Bennett per la piazza del timoniere. Uno scrigno di liriche trasformato in una raccolta tripla di canzoni che non si sarebbe potuto immaginare più vive, e allora tocca archiviare quello slogan bruciante come atto d’amore piuttosto che alla voce “furto con scasso”. Che poi, a pensarci bene, l’ultima parola era stata anche cambiata ai tempi di ‘England, Half English’, fine anni novanta forse. Non più Fascists – pure bersaglio prediletto delle sue freccette di nylon – bensì Time, per una combattiva sei corde acustica nei nobili panni dell’ammazza-noia. Bragg è sempre stato però anche anima elettrica, dal dissenso ultrariverberato degli esordi al tenero jangle retrò della prima maturità, con il nome di Joe Strummer intagliato nel cuore e incollato sotto il ponte della sua Gibson.

E’ l’attore protagonista di un Ken Loach di fine anni ’80 che non si è mai fatto. Il musicista spavaldo che piazzava in copertina delle cesoie da lattoniere invece che un ribelle d’annata come Alain Delon. Oppure la lanterna del minatore negli anni del thatcherismo più devastante, con ovvie recriminazioni sul fatto che Eric Cantona abbia avuto il suo bravo soggetto e lui no. Big Ol’ Nose lo scricciolo senza bussole, quello che suonava nei parchi assieme al vicino di casa e si concesse una comparsata di qualche settimana nell’esercito, corso di educazione manichea in poche pratiche lezioni. Big Ol’ Nose il militante sfrontato, l’artista di propaganda ma anche l’eterno angelo di casa, con le gemme soul e Motown dell’infanzia ancora in pista sul giradischi del salotto. Quello che rubò a Majakovskij quel titolo troppo assurdo per essere vero, tanto per ornare la sua torta migliore con un’ultima ciliegina di puro genio. Quello privato e romantico del “tempo libero dei lavoratori”, quello del canzoniere ideologico ma non dogmatico di ‘The Internationale’, quello pop e con gli amici giusti di ‘Don’t Try This at Home’, ideale per le grigliate in compagnia del sabato pomeriggio. ‘William Bloke’ e il relativo rimpasto di priorità, con l’idealismo accantonato per fare posto al pragmatismo, erano nella natura delle cose. Un po’ come la ragazza di cui il Nostro era in cerca quando giurava di non voler cambiare il mondo o l’Inghilterra, rimpiazzata nel rosario delle necessità da una babysitter per il figlio piccolo. Nessun tradimento in realtà, nessuna utopia da sfregiare. Il bardo di Barking è sempre stata persona concreta, anche nella sua fase più arrabbiata. Non sarebbe arrivato altrimenti a permutare il rassicurante socialismo all inclusive con il più agile socialismo del solo cuore.

Inevitabile chiedersi allora quanti Billy Bragg si siano avvicendati sin qui. Il miope che si crogiola sotto il sole dei luoghi comuni si ostina a vederne uno soltanto, specie di dinosauro oltranzista. Un ritratto per nulla edificante. Basta però una manciata di istantanee del cantante a sbugiardarlo senza troppe cortesie. La sua discografia come un diario corposo, avvincente, tra coscienza civica e delicatezza intimista, dove sentimenti e politica si sono spesso incontrati. L’ultima pagina ci consegna un Bragg da meditazione, insolito, yankee. Uno “Sherpa of Heartbreak”, come lui stesso si è definito. Attento alle fratture emotive e alle difficoltà relazionali. Alla fatica dietro le cicatrici, alle infruttuose rincorse a rimorchio di un arcobaleno, al senso di perdita. Nell’ultimo biennio il Progressive Patriot ha concesso una licenza illimitata ai fidati Blokes, coi quali sembrava aver perso mordente. E’ tornato a fare la spola in solitaria tra un piccolo club e l’altro, coronando con l’estemporaneo progetto ‘Pressure Drop’ il vecchio sogno del teatro canzone: un po’ comizio, un po’commedia, installazione d’arte e concerto, con pochi ritocchi rispetto a quelle mitragliate di aneddoti e ironia che sono i suoi folgoranti spettacoli. Quindi è volato a Pasadena per registrare questo ‘Tooth & Nail’, il suo disco da navigato alfiere dell’Americana. La scelta di Joe Henry in guisa di produttore e coautore chiarisce le nuove coordinate meglio di tutte le note stampa di questo mondo, mentre le pennate di pedal steel griffate Greg Leisz o l’elegante impronta Delta di ‘Handyman Blues’ valgono come sbaffi di evidenziatore sul taccuino per rimarcare l’assunto.

Dietro l’ispida corteccia esibita nelle foto promozionali s’impone uno sguardo accigliato à la Johnny Cash, e nasconde un sorriso. Sarà la sicurezza grandiosa con cui abbraccia un songwriting dal taglio smaccatamente classicista, con esiti felici quanto spiazzanti, oppure il piglio del cantastorie pauperista di ‘January Song’, tutta sostanza e disillusione. All’improvviso l’irruenza della gioventù è davvero molto, molto lontana. Sono cambiati i registri tramite i quali filtrare il reale, evidentemente più prossimi alla sua attuale sensibilità di ultracinquantenne. Rimane però la costante dello stile semplice e disadorno dei suoi autoritratti, non per posa ma per indole. Bragg non è più il portavoce di un disagio sociale. Le ombre di oggi sono un’esclusiva del suo spirito, ma non prevaricano. Il respiro è lungo. Ci sono i giusti margini per fare ammenda magari, annullare tutti i puntini di sospensione e guardarsi dentro senza più trucchi o proclami universali. Un album intimista quindi, non un album angusto. Raccontarlo tirando in ballo il disimpegno è fuori luogo perché l’onestà e la lucidità del suo profilo di cantante non sono evaporate con l’urgenza di un tempo. Si sono cristallizzate, piuttosto. I veri frutti della lezione di Guthrie arrivano adesso e sono paste di disciplina, coerenza, dignità. E allora eccolo il cantore vagabondo che sembra tornato a quelle sessions amichevoli assieme ai Wilco, le parole del maestro nuovamente splendenti e affrancate dalla polvere. Niente più casa significa niente più vincoli né confini. Con la saggezza della misura, con la fiducia indefessa nell’uomo e la frugalità dei piccoli passi, questo nuovo Billy ricorda a tratti l’omonimo Principe oldhamiano, perfino ottimista se visto in controluce. Si ritaglia scampoli di viva meraviglia e non nega il tesoro di una sconfinata gratitudine. La convinzione è che i giorni a venire saranno comunque migliori, e che eventuali rese dei conti rimarranno eccezioni prive di strascichi. Come le sonorità elettriche in questo disco, rare e mai esasperate, perfette per accompagnarsi con una voce invecchiata ma ancora magnificamente evocativa. Oltre il velo di malinconia vigile e coscienziosa, nessuna traccia di autocompiacimento ed anzi un ultimo sibillino messaggio che profuma d’orgoglio: “conservo ancora l’entusiasmo di chi si innamora di tutto”, un po’ come capitava al nostro Faber.

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, si domandava Carver. Giusto per riservarsi il piacere di non offrire risposte certe. Nessuna risposta, da sola, sarebbe stata plausibile.
Inservibile ogni ragionamento.
Parlare di Billy Bragg, oggi, apre l’orizzonte alla stessa capricciosa inconcludenza.

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