Someone For You

       

Più di un anno e mezzo da quando ho scritto questo affettuoso ritratto dell’alfiere garage-pop Matthew Melton, e già il mio credito nei suoi confronti è stato dissipato senza riguardo. Parlavo di un “guizzo perfetto” che non si smorza, di un equilibrio sulla cresta prossimo al prodigioso, ma la rovinosa caduta è di fatto arrivata. Se l’esordio dei Warm Soda mi era parso un bluff ben architettato, ma non difficile da smascherare, il seguito troppo puntuale “Young Reckless Heart” ha malamente ribadito concetti espressivi già triti, rendendo leciti anche i dubbi su un talento che forse avevo incensato con ingiustificato anticipo. Nulla di male, per carità. I suoi dischi potrebbero anche essere etichettati come carini (questo “Someone For You” soprattutto), ma il limite è proprio quello: un “carino”, oggi, non lo si nega quasi a nessuno. E sembra davvero troppo poco per uno che alla guida dei Bare Wires, poi ignobilmente cestinati, aveva avanzato la propria candidatura a genietto dell’alt-rock californiano con tutte le carte in regola.

Cavalcare una delusione d’amore quasi fosse la più imponente delle muraglie d’acqua.
Quanto sapresti restare in equilibrio su quella vetta increspata, tu e quel po’ di talento, con la tua vecchia tavola scadente a bande colorate? Giusto il tempo della scuffia, forse. Un attimo di puro orgoglio, e poi giù nell’abisso. Per Matthew Melton il guizzo perfetto sembra essersi congelato. Una gif animata in loop lunga più di cinque anni, poche figurine tornite ripetute fino alla nausea e nessun fotogramma di cadute rovinose o annegamenti. A guardarlo in faccia non si sarebbe certo indotti a concedergli tutto questo credito: occhi “che non sorrisero” e baffo retrò à la John Holmes, incastonati in un fisico lungagnone che pare il calco esatto del Joey Ramone degli anni d’oro. Un parallelo iconografico avvalorato dall’immancabile giubba di pelle nera, la stessa che Matt indossava nella natia Memphis quando ancora andava a ripetizioni dal caposcuola Jack Oblivian assieme a sodali del calibro di Alicja Trout e Jay Reatard. Proprio per il compianto astro nascente della scena rock cittadina scattò la fotografia splatter scelta come copertina di ‘Blood Visions’ e destinata a divenire, col senno di poi, un triste presagio di morte. In questo segmento iniziale, Melton non seppe tuttavia ritagliarsi ruoli più significativi dell’anonimo gregario. Una faticosa gavetta la sua, spesa in compagini marginali del circuito locale – Memphis Break-Ups e River City Tanlines – senza un solo straccio di prospettiva. Come nel più classico dei film del genere, la consapevolezza di averne a basta lo spinse a vendere il poco che possedeva, a salutare gli amici più cari e ad imbarcarsi nel proprio “illusorio sogno californiano”.

Non sarebbe durato molto neanche l’improvvisato progetto di una nuova scalcinata combriccola, gli Snake Flower, che in questa incarnazione originaria comprendevano oltre a lui l’ex Barbaras Cole Weintraub e l’artista di performance concettuali Bunny Lampert, di cui fece presto ad invaghirsi. Avrebbero potuto diventare i nuovi Lee Ranaldo e Leah Singer se, al termine di un disastroso abbozzo di tour, la fanciulla non gli avesse dato il benservito preferendogli un “pretenzioso docente d’arte con l’aria del John Lennon esangue”.
Lo salvò il cuore infranto. La sceneggiatura prevedeva a questo punto una breve dirompente sequenza, protagonista il suo desiderio di rivalsa. Ecco quindi una nuova formazione opportunamente battezzata Snake Flower II, la parola “rinnegato” in bella vista nella cover sopra la foto della Datsun bianca, profumo di anni settanta e libertà nello stereotipo di un sogno ad occhi aperti. A condire il primo modesto successo, una sensibilità ad ampio raggio. Dai T-Rex melodici di ‘Beard of Stars’ alla psichedelia dei Love e degli Electric Prunes, dal folk di Dylan ai Big Star, chitarre rubate all’Oblivian dei Reigning Sound, squassate con impeto primitivista e registrate sul più pulcioso dei quattro piste. Matt non avrebbe più perso l’appetito. Solo un altro passo avanti per la nascita della sua creatura fortunata, Bare Wires, confermando le stesse coordinate di massima, l’identica attitudine cruda ma onesta e il consueto vizietto nel circondarsi di batteriste o bassiste: Donelle, Erin ed Heather gli ultimi petali della margherita, comune a tutte il laconico “non m’ama”, ma senza più cascare in stupidi inciampi del pivello.

Il resto è storia attuale. Quattro dischi di qualità crescente in altrettanti anni fino al pretestuoso epilogo, le colpe di una noia tutta propria addossate ai compagni di turno senza troppi riguardi. A sbugiardare quella exit strategy che il Nostro immaginava senz’altro ben assortita, pensa oggi involontariamente proprio l’esordio del suo nuovo gruppo Warm Soda, ‘Someone for You’. Una manciata di secondi adrenalinici subito in avvio, con la voce registrata al solito molto alla buona, per il più scontato dei “dove eravamo rimasti”. Ed è ancora fermo a quell’approccio tenero e diretto il buon Matt, a quel sound sabbiato ma sostanziale, solo studiato un tantino meglio. Furbo per come mette in tiro la bassa fedeltà della casa, ma non abbastanza da riuscire a intortare i più smaliziati. Nel suo fare ragguardevolmente ruffiano, la sopravanzante title track incarna la quintessenza dei felici automatismi meltoniani, tra riff rutilanti, tempestivi assoli al fulmicotone e quel cantato indeciso tra tedio e pose languide, ancora nel segno della ruvidezza. La faciloneria sempre più conclamata nei refrain offre la prova tangibile di un ulteriore – minimo – scarto espressivo, insieme ai ritmi tendenti alle impennate e ai minutaggi ormai ridotti al lumicino. Ha scarnificato il suo songwriting il ragazzo del Tennessee, e già punta ad un’idea bruciante di easy listening esasperata dal rumorismo alla moda. Efficace senz’altro, sincero mica tanto. Stilemi hard-rock liofilizzati trovano la giusta dissimulazione in un mix che impasta la platealità un po’ tamarra di certe sgangherate band dei novanta con l’opportunismo fattivo e la farina doppio zero dei veri campioni dell’indie recente. Se la cartavetro delle chitarre riporta quasi per necessità al marchio Oblivians e quel basso felpato dovrebbe avere il copyright Buzzcocks, il battito minimale che si atteggia a drum machine sembra infatti copiaincollato tale e quale da ‘Is This It’. E’ ancora ‘Someone for You’ a guidare una pattuglia di canzoni che tradiscono ad ogni livello debiti pesantissimi nei confronti dei primi Strokes, dando seguito a quel paio di episodi che nel testamento fasullo ‘Idle Dreams’ già apparivano precise avvisaglie di una virata stilistica.

‘Waiting For Your Call’, caso limite, rasenta il plagio. Con la T-shirt degli Urge Overkill nascosta quasi con vergogna sotto il vissuto Schott nero, il citazionismo di Matthew Melton si prepara a diventare senza grandi complimenti un revival del revival. Strategia che non potrà mai dirsi al riparo dalle critiche dei puristi, anche se non è improbabile che alla fine possa rivelarsi remunerativa. La cricca di giovani slacker denominata Parquet Courts ha già tentato l’azzardo qualche mese fa e con discreto profitto, viste le regali benedizioni dell’oracolare Pitchfork.
Chi abbia seguito le peripezie della canaglia baffuta sin da prima del suo trasloco a Oakland non potrà che registrare come dello spirito grezzo degli esordi non siano rimasti che l’abbigliamento e una certa simpatica sfrontatezza. Noi debosciati, si sa, paghiamo bene il disimpegno. Dietro l’apparente leggerezza si è impinguata la baldanza, proporzionata ormai alla messe dei riverberi prodotti. Contrariamente a tutta questa sfilza di preamboli, l’indirizzo semantico del disco tende però più al pop che al rock. E a poco valgono le smentite del frontman, quando disconosce ogni parentela per la sua ambigua ‘Lola’ con l’omonima drag queen cantata dai Kinks. Il finale pirotecnico esalterà pur fuori tempo massimo i cuori garage dei recenti trascorsi, ma le inflessioni glam enfatizzate qui come nell’eloquente ‘Jeanie Loves Pop’ spostano con una certa prepotenza la barra verso i languori iperglicemici di metà anni ’70. Tra chitarroni abbacinanti e sovraesposti, il teatro si è fatto per forza ammiccante. Una strizzatina d’occhio sulla sua bella faccia di bronzo. Matt porta lo stesso nome di uno dei ragazzi protagonisti di ‘Big Wednesday’, manco a dirlo quello più dotato e scapestrato. L’onda della rivincita dovrebbe essersi infranta da tempo, la coniglietta nemmeno la si ricorda. Eppure lui è ancora in cima a un cavallone immaginario e tiene vivo l’entusiasmo quasi fosse l’ultima ragione di vita. Queste sue affilate e squillanti canzoni frizzano per un istante prima di svanire per sempre come fate morgane analcoliche. Così almeno recita l’etichetta, e io ho timore che menta.
Neanche mezzora per una sbornia con tutti i crismi. Non si è mai visto, mai.

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