Month: settembre 2013

Sputerò sulle vostre tombe  _Letture

      

E alla fine l’inevitabile accadde. Non potevano restare ancora a lungo due entità separate, Michel Gondry e Boris Vian. Sembrava un delitto continuare a sognarlo soltanto, il loro incontro, e alla fine il matrimonio si è fatto davvero. Dopo la prolungata (e del tutto trascurabile) parentesi americana e la relativa vacanza dai proprio cliché più travolgenti, il cineasta parigino è tornato a occuparsi di materiale affine alla propria estetica, scegliendo di cimentarsi nientemeno che con il capolavoro del grande artista francese, “La schiuma dei giorni”. Il risultato, occorre dirlo subito è controverso: c’è chi ha salutato questo ritorno al passato come una sorta di liberazione di tutto il potenziale poetico di Gondry, troppo a lungo sacrificato per compiacere progetti non suoi. D’altro canto non mancano i puristi che hanno ravvisato nell’assenza del geniale sceneggiatore Charlie Kaufman il segno più concreto di una vera e propria occasione perduta, con il profluvio di invenzioni visive messe in scena dal regista incapace di compensare l’assenza di profondità di una pellicola che non avrebbe (il condizionale è d’obbligo, non avendo io visto il film) saputo liberare tutta la follia romantica dell’originale. Eh sì, perché Vian era soprattutto proprio uno straordinario cantore romantico: decadente e tragico, surrealista e debordante, camaleontico e innovativo su tutti i possibili piani linguistici e stilistici. Per ribadirne la grandezza davvero non comune, mi fa piacere poter menzionare qui una delle sue opere minori e in fondo meno esplosive, eppure non meno significative dei suoi più celebrati gioielli. “Sputerò sulle vostre tombe” è uno dei quattro romanzi americani di Vian, il primo e – con ogni probabilità – anche il migliore. Aggettivo, questo, che perde significato quando ci si spinga a confrontare l’effettivo valore del libro con il resto della produzione, anche se bisogna stare attenti a non sminuirne la portata. Per due motivi almeno. In primo luogo perché si tratta di un buon testo, agile e serrato, un giallo efficace a sfondo erotico e con virata imprevista verso le tinte fosche del pulp più crudo; quindi proprio per il coraggio della sua provocazione sfrontata nelle pagine finali, dove agli espliciti rimandi sessuali si aggiunge lo sfoggio di una violenza brutale, tanto più perché inattesa e in un certo senso gratuita. Il Vian mascherato da Vernon Sullivan sfidò senza alcuna paura la morale dei suoi tempi (era il 1946, dettaglio davvero sconvolgente), confezionando un romanzetto inquietante e indimenticabile in appena due settimane, come per scommessa con l’editore Jean D’Halluin. I capolavori veri sarebbero arrivati solo a partire dall’anno seguente e per una manciata di anni appena, visto che il narratore, poeta, canzoniere e musicista (e quant’altro) morì a soli trentanove anni nel 1959, curiosamente alla prima della riduzione cinematografica di questo stesso libro, a causa di un attacco di cuore. Vian e il cinema, un rapporto fatale che in questi giorni si rinnova grazie all’omaggio di un altro grande talento. Il fatto stesso che il nome abbia cominciato a girare di nuovo sembra il più felice degli auspici per la riscoperta di un autore maiuscolo, fino a oggi vergognosamente dimenticato. Comunque vada, insomma, sarà davvero un successo.

Lee Anderson è un nero dalla pelle bianca che ha già fatto vita di mondo, si è sprovincializzato e ha così perso “quell’umiltà abietta che ci hanno dato”. Il suo fratello minore dalla pelle anche più bianca – sempre chiamato nel testo “il ragazzo” – non ne ha avuto modo. Innamoratosi della ragazza sbagliata, figlia di un ricco bianco, ha pagato questo affronto intollerabile (negli Stati Uniti del sud degli anni ’40) con il linciaggio e la morte. Poco incline ai principi cristiani della tolleranza e del perdono a differenza del terzo fratello, il maestro elementare Tom, di pelle nera, Lee riesce a inserirsi in una piccola e benestante comunità bianca della remota provincia ottenendo un posto di gestore di libreria. In breve tempo si farà benvolere da tutti i giovani della cittadina di Buckton, razzisti e sempliciotti ma soprattutto ignari delle sue vere origini, e avrà modo di pianificare la propria ideale e indiscriminata rappresaglia contro lo strapotere dei bianchi. Nelle prime pagine del romanzo hanno spazio sia l’odio e la determinazione silenziosi del protagonista che l’affetto compassionevole verso l’altro fratello, sottoposto a atti di violenza e discriminazione nella natia comunità eppure disposto a sopportare tutto grazie a una sincera devozione: “una brava persona, troppo sentimentale, troppo umile” ma con in testa “troppi pregiudizi, di bontà e di fede”, “fregato” dalla sua onestà “perché pensava che a far bene si raccoglie bene, ma questo non succede quasi mai”. A intralciare il sogno di quella “vendetta piena e completa” che solo ha senso sono gli occhi scaltri di Dexter, un giovane che nella banda promiscua frequentata da Lee a Buckton rappresenta la sola vera minaccia: estremamente facoltoso, minato nel fisico da un paio di pleuriti, è un falso amico infido e fortemente intuitivo, “chiaro e semplice e netto come un bambino, un bambino più grande della sua età comunque” il cui ritratto sgradevole, magnetico e assai minaccioso, è completato dagli scabrosi dettagli nelle poche pagine che rivelano il suo animo perverso e la sua odiosa inclinazione alla pederastia. Sarà proprio la perspicacia di Dex a scombinare il folle piano ordito ai danni delle ricche, sensuali e insopportabili sorelle Asquith – capro espiatorio perfetto per quella che doveva essere soltanto la prima portata di un luculliano banchetto di morte – alla laboriosa seduzione delle quali, da parte di Anderson, Vian aveva sin lì dedicato oltre metà del suo libro. Ecco così a sorpresa la svolta sconvolgente, quella che fa deragliare un breve romanzo giallo a carattere fortemente erotico verso le tonalità fosche e crude del pulp. E la lucida prospettiva del suo protagonista verso la furia cieca di una terribile missione inevitabilmente votata al suicidio. La colpa, o il merito, spetta ai tumultuosi frangenti finali del testo, con l’esplosione incontrollata di una violenza bestiale e raggelante che Vian non ha avuto timori a mettere in scena senza censure e senza limiti, con efferato piacere verrebbe da pensare.

La forza di “Sputerò sulle vostre tombe” sta soprattutto nella storia e nelle vicissitudini legate alla sua genesi impudente e affrettata. Vian scrisse il romanzo in due settimane sotto lo pseudonimo del falso autore afroamericano Vernon Sullivan come per scommessa con l’editore Jean D’Halluin che era in cerca di un caso letterario dagli States. Non si fa proprio fatica a riconoscere le ragioni di uno scandalo che evidentemente l’autore ricercò con forza e senza il minimo timore. Si trattò di un’aperta provocazione giocata ad ampio raggio. Verso l’etica e la morale ad esempio, visto che dietro il registro noir si era scelto di far giocare per forza un ruolo rilevante all’atteggiamento caustico e sfrontato dell’io narrante, anche nelle sue sferzanti considerazioni su Dio e la religione. Per non parlare delle atmosfere sordide, incredibilmente spinte ed esplicite considerando l’anno in cui l’opera venne pubblicata, il 1946. Soprattutto nella prima parte del romanzo si parla senza problemi di sesso anche di gruppo con ragazze minorenni (o addirittura con bambine) e disinibite. Sesso facile e “persino stucchevole” consumato “con lo stesso pudore di un fottuto branco di scimmie in calore” in cambio – scherno degli scherni – di comodi rifornimenti di Bourbon e Gin trangugiati poi da questi terribili ragazzini come bibite gassate. Non poteva che alzarsi un polverone micidiale in anni come quelli e Vian, va detto, trovò pane per i suoi denti. L’espediente della narrazione secca e asciutta in soggettiva, aspetto più significativo di un testo breve e scorrevole scritto peraltro molto bene, si rivelò un trucco semplice quanto efficace, perché utile a favorire l’immedesimazione e a rendere se non altro simpatica questa figura di “bel bastardo” spinto da motivazioni forti, seppur non condivisibili. L’esplosione del tutto inattesa di una violenza barbara e scioccante veniva a rompere inevitabilmente questo meccanismo e non poteva che destare sconcerto. A quel punto non era più possibile proseguire nella stessa maniera e a Vian spettava quasi il dovere di adottare il distacco come forma di riguardo verso un lettore indubbiamente provato. La descrizione della rovina di Lee Anderson filtrata nelle battute conclusive da una più fredda terza persona doveva mitigare il clima, assicurando che solo di una provocazione si era trattato. Di dubbio gusto, magari, ma assolutamente riuscita.
Il genio del miglior Vian abita altrove ma questo libro rimane una testimonianza interessante per l’irruenza con cui ha voluto sfidare la morale ancora gretta e perbenista del suo tempo.

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Idle Dreams

       

Dopo un lungo periodo di silenzio, riparto con la missione recupero dallo scrigno Ondarock, webzine per la quale ho scritto – forse addirittura senza rendermene conto – quaranta recensioni di dischi in appena nove mesi. La seconda di esse è quella che a gennaio ho dedicato a un LP uscito in realtà lo scorso anno e già citato, da queste parti, tra i titoli imperdibili del sottoscritto per l’annata 2012. Nonostante sia trascorso un intervallo di tempo non esorbitante dalla pubblicazione, questo quarto capitolo dell’avventura Bare Wires puzza già di pagina postuma, così come il frontman di quel gruppo poco fortunato ha tutta l’aria del reduce. La indossava, peraltro, anche quando l’album arrivò nei negozi, con la band di Oakland considerata già una parentesi chiusa in archivio e rimpiazzata dalla versione, di poco riveduta e corretta, denominata Warm Soda. Licenziato in sordina alla stregua di un banale tassello per completisti, “Idle Dreams” è in realtà Matthew Melton al suo meglio: scrittura di rara efficacia, chitarre abrasive ma più che accessibili, un suono disinvolto che guarda con interesse al glam ma senza stravolgere i propri semplici dettami espressivi. Proprio questa sarebbe stata la direzione seguita dal leader nella sua nuova e più ambiziosa avventura, eccedendo però un po’ troppo nella baracconata à la Bolan in salsa pop, sporcando di lo-fi e fuzz furbetti le canzoni (a volte anche senza ritegno) o insistendo nelle proprie discutibili tracopiature dagli Strokes di “Is This It?”. Peccati veniali comunque per un autore che si sta affermando senza troppo clamore come uno dei più autorevoli nella popolatissima scena garage californiana, meno imprevedibile di Ty Segall e meno geniale o animalesco di John Dwyer, ma pur sempre un discreto talento che potrà dire ancora molto, se riuscirà a non perdersi. Sperando possa tornare presto la purezza garage-pop di questo precedente segmento, un nome da serbare senza esitazioni tra quelli in assoluto più promettenti.

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