Month: marzo 2013

Mr. M

       

Sabato scorso ho iniziato a lavorare ad una monografia di Vic Chesnutt. Su Ondarock sono presenti schede di qualsiasi artista, anche dei più marginali, e io stesso ho dato il mio contributo dedicandone una a figure interessanti ma non certo imprescindibili come i miei amati Quasi e la promessa kiwi Lawrence Arabia. Incredibilmente però ne manca una su Vic Chesnutt. I suoi ultimi dischi sono stati recensiti più o meno tutti ma nessuno ha voluto imbarcarsi in questo impegnativo lavoro, così come non sono state scritte di suoi album le cosiddette Pietre Miliari (e almeno uno dei primi avrebbe meritato questo onore). Sarà una faticaccia. Non solo perché ho la testardaggine di voler portare avanti con la massima cura ogni “missione” in cui mi ritrovo impelagato, ma anche perché l’artista in questione è stato fondamentale. Emotivamente, poi, ci sono dentro fino al collo. Non esagero se scrivo che per anni non sono più riuscito ad ascoltare le sue canzoni. Troppa pena, troppe emozioni. Due anni almeno a dimenticarmi di lui, a dimenticarmi quei dischi e quella voce. Poi poco alla volta mi ci sono riaccostato, con tutto il rispetto di cui sono capace, con parsimonia direi quasi. L’onore di dedicargli uno speciale mi costringe ora a riaffrontarlo in toto e, soprattutto, in profondità, a catturarne l’essenza dentro le sfumature, gli umori cangianti, le parole e l’ironia. Sembrerà banale ma è un processo anche doloroso, in un certo senso. Ho così rispolverato l’intera discografia in rigoroso ordine cronologico, fissando sul taccuino ogni febbrile impressione da cui mi sentissi aggredito. Dopo aver definito una precisa distanza, questa immersione si è rivelata un’esperienza emotivamente forte e creativamente stimolante. Da critico dilettante è stata anche l’occasione per una rielaborazione lucida su uno dei miei cantautori preferiti, come a voler sgombrare il campo dai pregiudizi (in particolar modo quelli positivi, e non potrebbe essere altrimenti dato il mio amore incondizionato per quei dischi, quasi tutti) e ripartire senza vincoli o complicazioni di sorta. Sono ancora in una fase embrionale del progetto e di scritto non c’è ancora nulla. Però ho già potuto riscontrare alcune piacevoli sorprese. Lavori che avevo sempre considerato non fondamentali mi sono apparsi sotto tutta un’altra luce. Avevo sempre pensato che Vic avesse scritto un solo capolavoro, ‘About To Choke’, mentre oggi ho la certezza che questa considerazione valga anche per ‘West of Rome’, ‘Is The Actor Happy?’ e ‘North Star Deserter’. Pur tra momenti di stanca o di grandi lampi, il corpus dell’autore mi è parso coerente, armonioso, articolato in una sorta di preciso sceneggiatura che varrà la pena, forse, raccontare. Un album di vero pregio che avevo però sempre snobbato un po’ mi ha particolarmente stupito. Mi riferisco a ‘The Salesman & Bernadette’, il concept per il quale Vic scelse di farsi accompagnare dalla band “sorella” dei Lambchop dell’amico Kurt Wagner. All’epoca fu per me una parziale delusione: eccessivamente posato, riflessivo e morbido, nel suo cordiale tepore quasi natalizio. Devo aver pensato ad una specie di maniera, ignorando che quello era lo stile del gruppo texano e che splendidamente si prestava per i brani di Chesnutt. Oggi forse la mia sensibilità è cambiata, e non poco, perché ‘The Salesman & Bernadette’ mi ha impressionato per l’armonia che esprime, per il suo essere confortevole, accogliente, e anche per la presenza al suo interno del Vic forse più sereno di sempre. Un grandissimo disco, cui assomiglia e non poco questo che Kurt Wagner e i suoi Lambchop hanno dedicato a Chesnutt lo scorso anno. Il legame tra i due è evidente e profondo, come avevo sottolineato nella  relativa recensione (di cui sono molto soddisfatto, riletta oggi dopo più di un anno). Chi ha amato Chesnutt come il sottoscritto non può restare indifferente, nessun problema nell’affrontare i ritmi blandi e la seraficità di queste canzoni da focolare. Per gli altri, probabilmente, una collezione noiosissima di brani, o un lavoro troppo ostico per dedicarcisi. Grazie al cielo, i gusti non sono gli stessi per tutti.

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I’ve Been Riding with the Ghost

       

Due parole, proprio soltanto due parole per Jason Molina, che sabato scorso ci ha lasciati senza fare rumore. Suona sempre un po’ retorico trattare a posteriori vicende tristi come la sua, cantautore schiacciato a soli trentanove anni dal peso devastante della dipendenza da alcool, ma è pur vero che cronaca e arte si legano qualche volta in maniera quasi beffarda, e non si può considerare l’una senza dare conto dell’altra. Come per Vic Chesnutt poco più di tre anni fa, il rigore spietato della sanità U.S.A. non ha fatto sconti, giocando un ruolo decisivo nella vicenda umana di uno dei più grandi songwriter della sua generazione. Molina non aveva un’assicurazione sanitaria e non poteva far fronte alle spese pazzesche per cure e riabilitazioni. Di certo la sua debolezza lo ha affossato senza pietà, ma è indubbio che ci sia qualcosa di decisamente sbagliato laddove chi è in evidente difficoltà debba e possa contare solo su se stesso, per venire a capo dei propri demoni. E dentro Jason ne aveva tante, di ombre. Abbastanza per riuscire a scrivere canzoni sofferte ma mai banali, troppe forse per poterle tenere a freno senza venirne travolto. In passato ho descritto Molina come uno dei grandissimi della rinascita folk degli anni novanta, al pari di Will Oldham e Bill Callahan. Accostamenti di per sé assai limitanti, considerata la complessità del corpus di ognuno di questi maestri, ma che per comodità tocca ribadire. Una sorta di santa triade quindi, cui andrebbero aggregati anche  altri due eccezionali talenti come il già citato Chesnutt e Mark Kozelek. In comune con il primo Jason aveva quell’intensa vena malinconica priva di autocommiserazione, mentre pare sin troppo facile legare la sua creatura originaria, Songs: Ohia, alla prima straordinaria incarnazione kozelekiana, i Red House Painters, tra le formazioni cardine della sempre ripudiata scena slowcore.  Curioso. Proprio ieri leggevo una bella intervista ai Low (cui ho in parte contributo), ed ecco di nuovo la fatidica domanda sull’etichetta slowcore. Se è riduttivo ricondurre forzosamente la band del Minnesota ad una scuola di cui mai ha fatto parte, e solo per via di una sensibilità particolarmente pronunciata, è chiaro che di quella stessa sensibilità sia stato latore in primis proprio lo stesso Molina, con le sue ballate dolenti e ammalianti per sola voce e chitarra, a ritmi blandi e senza inutili orpelli. A voler dar credito a queste semplici coordinate, il moniker Songs: Ohia dovrebbe essere trattato alla stregua del caposcuola, niente di più e niente di meno. Album come ‘The Lioness’, ‘Axxess & Ace’ e ‘Ghost Tropic’ lo testimoniano in maniera autorevole. Ma come musicista Jason è stato davvero molto, molto di più: cantautore nudo ma non crudo, alfiere tra i più credibili della ricodifica alt-country, sperimentatore nei margini assai ristretti della tradizione, rocker delle radici e bluesman ruspante con l’altro suo progetto, i Magnolia Electric Co., senza l’intensità miracolosa dei primi lavori ma con un’esattezza non comune nello sguardo. E’ in questo suo segmento, conclusivo purtroppo, che lo incrociai nel 2009. Per lui si trattava dell’inizio della fine, ma non ne avevo la minima idea. Lui per primo non me ne diede l’impressione, al comando di una formazione affiatatissima che sul palco dello Spazio211 mi sbalordì con un concerto rock davvero notevole, quando io mi aspettavo una prova compassata e in solitaria. Aria triste da fanciullo vestito da cowboy, ma grandissima energia. Era da poco uscito il più che discreto ‘Josephine’, e mai si sarebbe detto che sarebbe stato l’ultimo lavoro di gruppo per lui. Dopo di allora il filo sempre più sottile di una curiosità genuina, la stessa che lo ha spinto a collaborare in poco più di dieci anni con i vari Bonnie Prince Billy, Alasdair Roberts, Steve Albini, Aidan Moffat (Arab Strap), Will Johnson (Centro-matic, South San Gabriel) e con i Lullaby For The Working Class, prima di sparire in una comunità rurale di recupero dalle dipendenze nel West Virginia, evidentemente troppo tardi. Che una figura maiuscola come lui se ne vada così, a neanche quarant’anni, sa di beffa crudele. Il 2013 come il passato mitico, quando eroi maledetti cadevano come mosche assicurandosi un eterno, luminosissimo presente. Molina non aveva però alcun mito da consegnare ai posteri, né un fare da bohemien maledetto. Era un uomo fragile come tanti, che ha lottato con le proprie debolezze e ha perso. Spiace sapere che nella sua battaglia fosse solo, così solo. Pur restando artista di nicchia era personalità di spicco, di quelle che ci si ricorderà. Le sue canzoni e i suoi dischi lo faranno per lui ora che non c’è più, anche meglio di quanto purtroppo non abbiano fatto fino a oggi.

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Un Amore  _Letture

      

Ritrovare Buzzati dopo quasi vent’anni è stata una sorpresa, forse, ancor più che un piacere. Negli ultimi anni ho definito una sorta di implicito veto sugli autori italiani. Quelli relativamente “classici” li ho affrontati negli anni del liceo, alcuni anche in quel paio di esami di letteratura sostenuti durante il mio segmento universitario. Quelli che classici devono ancora diventarlo, invece, i nostri veri contemporanei, li lascio volentieri fuori. Ho i miei pregiudizi, come tutti, ma fatico a trovare nella prosa attuale artisti che meritino davvero attenzione. C’è uno splendido aforisma di Thoreau che mi piace citare, ed è quasi un mantra per me da quando si è ridestata in me la voglia di leggere, la sera, piuttosto che offendere il mio tempo davanti allo schermo vuoto della televisione: “Leggi per primi i libri migliori: potresti non avere l’occasione di leggerli tutti”. Non me ne vogliano i romanzieri italiani celebrati nelle classifiche di oggi, se preferisco dedicarmi a loro colleghi stranieri. Sarebbe come preferire autarchicamente il cinema italiano attuale a quello degli altri paesi, compresi tutti quelli emergenti, per il fatto stesso di essere un bene nazionale. Una sciocchezza colossale. Di cinema su queste pagine parlo pochissimo, ma il cinema è sempre stata una delle mie poche, vere passioni. Questo deriva anche forse dal fatto di essere italiano, e dal fatto che il Cinema italiano è stato uno scrigno di assoluti capolavori, per tanti e tanti anni. Oggi non è più così, inutile illudersi. Si afferma ogni tanto un autore di spessore con il suo stile importante e personale, così abbiamo di tanto in tanto i ‘Gomorra’ e ‘Il Divo’ in cui specchiarci con compiaciuta soddisfazione, al di là dei contenuti evidentemente non troppo edificanti. Ma quella che per il nostro cinema una volta era la norma, ora è l’eccezione. Qualche valido nuovo regista solo ogni tot anni, sceneggiatori con la esse maiuscola manco a parlarne (siamo fermi alle commedie amare da trentenni immaturi da quanto? Alla faccia degli Zavattini, dei Flaiano e delle Cecchi D’Amico), attori degni di questo nome solo sui peana marchettari della solita stampa. Per la letteratura (e anche per la musica, purtroppo), non vedo grandi cose da almeno venti anni. Forse è solo un mio limite, ripeto, ma non posso farci nulla. Tutta questa lunga e noiosa premessa solo per dire che qualche mese fa ho preso in mano ‘Un amore’ di Buzzati, autore maiuscolo che non incontravo dai tempi de ‘Il Deserto dei Tartari’ o ‘La Boutique del Mistero’, ed è stato colpo di fulmine.

In uno sterminio di formiche frenetiche assetate di benessere e lascivia, nell’alveare caliginoso di un’ininterrotta ed operosa periferia, il cinquantenne Antonio Dorigo conduce senza grandi slanci la sua tranquilla esistenza di borghese piccolo piccolo, relativamente benestante, di intelligenza media e – sostiene lui – alquanto fortunato. Non ha particolari problemi se si omette l’incapacità cronica di rapportarsi in maniera men che fallimentare con il gentil sesso. Per riscattare la sua natura di uomo impacciato e poco brillante opta quindi spesso per l’amore a pagamento e frequenta assiduamente la scuderia di ragazze di una quantomeno decorosa maitresse, la signora Ermelina, dando così forma “ad un sogno realizzato, ad un colpo di bacchetta magica, per ventimila lire”. E’ proprio in questa casa di appuntamenti che conosce Laide, una giovane squillo genuina e impertinente, ragazzina senza testa lanciata alla disperata attraverso il mondo, che per il povero infatuato diventerà presto la più devastante delle ossessioni rendendolo involontario epigono del professor Unrath de ‘L’Angelo Azzurro’.
‘Un amore’ è in primo luogo la cronaca dettagliata e dolorosa di questo affetto non corrisposto e messo a dura prova da tutta una gamma di altre emozioni minuziosamente tratteggiate dalla penna precisa dell’autore, impietoso nel lasciar scorrere senza filtri le angosciose riflessioni del suo antieroe, dal risentimento a tutto campo ad una gelosia destinata a sconfinare nel patologico.
A Buzzati interessava raccontare al meglio la crudeltà implacabile di cui è potenzialmente portatore il più nobile dei sentimenti quando assuma i contorni di un’esperienza totalizzante e squilibrata, quando va in scena la persecuzione di un pensiero fisso in ogni istante millimetrico della giornata e ci si ritrova prigionieri coscienti di una passione “falsa e sbagliata”, quella sorta di triste autunno evocato nelle bellissime pagine che chiudono il libro. In questo viscerale e bellissimo romanzo lo scrittore milanese è riuscito però a fare molto di più. Ha saputo rendere avvincente, per esempio, una trama altrimenti pretestuosa e ripetitiva riportando con vividezza la paranoia di Antonio e al tempo stesso evitando di sbugiardarne i fondamenti grazie ad una mirabile ambiguità di fondo, rendendo cioè il lettore perennemente malfermo sulle sue fragili ed incerte convinzioni.

A risultare particolarmente riusciti sono entrambi i personaggi principali. Non soltanto quello titanico – con tutte le accezioni negative del caso – di Dorigo, ma anche e soprattutto quella Adelaide ‘Laide’ Anfossi che a detta di molti non sarebbe molto più di una figurina senza profondità alcuna, dimenticando però come lo sguardo sempre condizionato di Antonio ne capovolga pietosamente il ritratto nelle battute conclusive, rivelando un’umanità fino a poco prima inimmaginabile. Questa miscela esplosiva di sfrontatezza invereconda, sete confusa di vita, gusto di vendicarsi dell’umile sorte, popolaresco orgoglio e candore di bambina è in realtà elemento cruciale nel romanzo per le innumerevoli implicazioni anche allegoriche portate in dote con sé. E’ eletta a simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermenta di insaziabile vita intorno alla noia dei borghesi, con impliciti rimandi di tipo socio-politico che pare fin superfluo ribadire. E’ poi descritta più volte come l’”ignoto” o l’”avventura”, come colei che si scatena la notte ballando il rock’n’roll, e col senno di poi la si potrebbe agevolmente ricondurre, come personificazione pure grezza, ai fermenti di una gioventù che solo un lustro più tardi avrebbe dato vita al sessantotto.
A risultare fondamentale è anche la sua natura di ballerina prima ancora che di meretrice, perché in un rapporto in cui il desiderio sembra contare assai più del sesso nudo e crudo, la danza diviene per Dorigo il simbolo lirico del femminile, del corpo, della passione, dell’attrazione e, in definitiva, della bellezza. Ultimo decisivo parallelismo è quello che vede specchiarsi in Laide una Milano promossa da semplice sfondo al rango di coprotagonista: dura, sfacciata, insolente, equivoca, corrotta e condannata per indole ad uno stravolgimento radicale in nome del denaro e di un benessere ipocrita e astutamente perbenista. Nel 1963 la città stava cambiando pelle, la società anche: una sola fotografia rende testimonianza di questa duplice rivoluzione in atto.

‘Un Amore’ è davvero un’opera sorprendente. Sorprende la qualità mimetica di un’indagine introspettiva realmente aliena all’artificio, agevolata da spunti autobiografici innegabili ma abbastanza fine da non restare invischiata nella morbosità gretta ed insulsa per guardare invece a principi e sentimenti universalmente validi. Sorprende la freschezza agevole della prosa, soprattutto per quel fare ardito che stravolge modi, tempi e persone, ed alterna lunghissimi monologhi interiori a dialoghi serrati e assai puntuti, panorami fulgidi come quinte teatrali e straordinari inserti onirici, senza colpo ferire. I pensieri affastellati a perdifiato in sequenze incoerenti, senza pause, con una punteggiatura disinvolta quando non volutamente latitante, ben rendono il caotico incalzare delle divaganti impressioni di un protagonista dalla mente vivace, oppure la frastagliata e pullulante ricchezza umana della grande periferia, con tutta la densità di mille vite che fermentano, quel senso delle case intorno una attaccata all’altra, verticalmente rigide, grigie, sature di vite umane, sipari tremendi uno sull’altro asserragliati.
E’ anche un romanzo onesto nella sua critica sottile e mai gratuita a certi falsi miti borghesi ormai in ambasce. Coraggioso e profondamente in anticipo sui tempi per come ha saputo rompere la crosta di tanti tabù logori in fatto di costume e comune senso del pudore, senza abbassarsi a svilire la forza del proprio messaggio con trovate volgari o di pura sensazione. Intendeva raccontare l’uomo e la società del tempo, in fondo, evitando accuratamente di lasciarsi andare a tratti e caratterizzazioni troppo marcate: una mosca bianca in un’epoca in cui l’autocensura e l’iperbole fasulla andavano ancora decisamente per la maggiore.

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(I Can’t Get No) Stevie Jackson

       

Tiro fuori da un dimenticatoio (quasi letteralmente) buio e polveroso questa che è stata la mia penultima recensione per indie-rock.it, ormai assai distante nel tempo, giusto perché non si perda per sempre e arrivederci. Ammetto che dai giorni dei consuntivi del 2011 non ho più ascoltato le canzoni di questo disco, pur avendole inserite nella mia personale classifica dei migliori album di quell’annata. Nulla di trascendentale insomma, ma è pur vero che a Stevie Jackson guardo sempre con una certa simpatia, restando convinto che il suo esordio in solitaria abbia raccolto molte meno attenzioni di quante avrebbe meritato. Che io abbia un debole per lui non dovrebbe più essere un mistero. In anni in cui mi sono progressivamente (ma inesorabilmente) allontanato dai Belle & Sebastian, lui – che della band di Glasgow resta il principale chitarrista nonché uno dei più importanti autori – rimane nel novero dei miei popsinger britannici preferiti. Sicuramente il mio prediletto all’interno di un gruppo in cui non mancano le figure amabili. Ultimamente la formazione scozzese sembra scomparsa dai radar. Dopo (l’alquanto modesto) ‘Write About Love’ di qualche tempo fa, non si sono più segnalati progetti degni di rilievo: il leader Stuart Murdoch sembra appagato dai vezzi tra il musical e le orchestrazioni stucchevoli, mentre gli altri si sono limitati a qualche comparsata in dischi o tour altrui. E’ capitato anche a Stevie e a Bobby Kildea, in giro per il mondo assieme agli amici Vaselines prima di eclissarsi nuovamente. E’ sicuro che i Belle & Sebastian torneranno in pista per qualche live selezionato nei mega festival europei e nord-americani tra la tarda primavera e l’estate, anche se dubito li ritroveremo nei negozi di dischi con qualche novità in tempi brevi. Lo stesso vale purtroppo per Jackson, del quale ci si deve accontentare degli ascolti in replica di qualche hit con il gruppo e di queste piccole gemme non troppo fortunate. Spiace, perché l’ascolto delle sue cose migliori oscilla tra il gradevole e l’esaltante, almeno per me, e titoli come ‘Richie Now’ o ‘Dead Man’s Fall’ non avrebbero certo sfigurato nella tracklist di un Belle & Sebastian vero e proprio, anche di uno dei classici. Resto però convinto che l’occhialuto/barbuto alfiere pop nella squadriglia di Glasgow non mancherà di farsi vivo prima degli altri. Nell’attesa di un riscontro, chiudo segnalando che la band forse in assoluto più affine ai Belle & Sebastian, i Camera Obscura, sta per tornare – lei sì – con un lavoro nuovo di zecca. Dopo la (personale) mezza delusione di ‘My Maudlin Career’, le premesse per fare bene di nuovo ci sono tutte: chissà che questo ‘Desire Lines’ non sia il nuovo ‘Let’s Get Out of This Country’

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