Month: dicembre 2012

Classificone 2012

Stavo per dimenticarmene. Niente classifica, nulla di grave in effetti, ma l’influenza che da sempre mi coglie quando riesco a mettere insieme almeno dieci giorni di ferie mi ha quasi imposto di tracciare il solito consuntivo di fine anno e allora, beh, eccoci qua. Ogni volta mi ritrovo faccia a faccia con la considerazione che, no, non è stata proprio un’annata esaltante. Non credo serva neppure a molto ripetersi, che nella musica non si inventi più nulla di epocale (a parte forse in generi che mi risultano indigesti) direi che è un dato di fatto. Prendendo allora come spunto per un confronto solo gli ultimi anni (ché spingersi molto più in là nel tempo offre il fianco a paragoni impietosi ed ingenerosi), tocca riconoscere che il 2012 non ha nemmeno sfoderato quel paio di dischetti da 9 che in passato non erano mancati. A compensare questo ulteriore scivolamento verso il basso, ho trovato tuttavia una qualità media più che accettabile. Nessun vero picco, ma una trentina buona di album che non varrebbero meno di un 8 (e le altre settanta posizioni non scendono comunque al di sotto del 7). Non male quindi.

Infine una considerazione sulle posizioni “calde” di quest’anno. Alla fine ho scelto l’esordio dei londinesi TOY. Genere dark-coldwave (à la Horrors, per intenderci). Non sarebbe il mio pane e non sarebbero i miei suoni, ma il condizionale è d’obbligo. Già l’anno scorso avevo portato in classifica un disco simile, l’esordio degli S.C.U.M., ma ammetto che questa volta l’infatuazione è stata forte. Una raccolta di canzoni con i fiocchi, spleen giusto, bella carica. Li ho anche visti dal vivo: bravi, ma meno che in studio (chitarre notevoli, voce deludente). Per la piazza d’onore premio il garage pop di King Tuff, un album eponimo di cui ho appena scritto il pezzo conclusivo dell’anno per Monthlymusic. Sul gradino basso del podio l’album del ritorno di una Fiona Apple in bello spolvero, anche se evidentemente mai tormentata come negli ultimi tempi (arrestata in Texas per qualche grammo di hashish quest’estate, ha recentemente annullato il suo tour nordamericano per stare accanto alla sua cagna malata). A scendere, un Lee Ranaldo eccellente, capace di non far rimpiangere i Sonic Youth (non è dato sapere se esistano ancora), il congedo di un’ottima compagine garage rock, i Bare Wires (il cui leader Matthew Melton sta per rilanciarsi con il nuovo progetto Warm Soda), il sorprendente esordio di una ragazzina inglese di grande talento (Beth Jeans Houghton), il convincente ritorno dei losangelini Earlimart e di un Mark Lanegan che ha saputo fondere davvero meravigliosamente rock ed elettronica.

 

1. TOY ‘TOY’

2. King Tuff  ‘King Tuff

3. Fiona Apple  ‘The Idler Wheel…

4. Lee Ranaldo  ‘Between the Times and the Tides

5. Bare Wires  ‘Idle Dreams

6. Beth Jeans Houghton  ‘Yours Truly, Cellophane Nose’

7. Earlimart  ‘System Preferences’

8. Mark Lanegan Band  ‘Blues Funeral’

9. Cheater Slicks  ‘Reality Is a Grape’

10. The North Sea Scrolls ‘The North Sea Scrolls

 

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11. Ty Segall Band  ‘Slaughterhouse’

12. Spiritualized  ‘Sweet Heart, Sweet Light’

13. Hugo Race & The Fatalistes  ‘We Never Had Control’

14. Euros Childs  ‘Summer Special

15. Leonard Cohen  ‘Old Ideas’

16. The School  ‘Reading Too Much Into Things Like Everything’

17. James Yorkston  ‘I Was a Cat From a Book’

18. Spain  ‘The Soul of Spain’

19. Ty Segall & White Fence  ‘Hair’

20. Pepe Deluxé  ‘Queen of the Wave’

21. The Barbaras  ‘2006-2008’

22. The Abigails  ‘Songs of Love and Despair

23. Susanne Sundfør  ‘The Silicone Veil’

24. Death By Unga Bunga  ‘The Kids Are Up to No Good’

25. Andrew Bird  ‘Break It Yourself’

26. First Aid Kit  ‘The Lion’s Roar’

27. Burning Hearts  ‘Extinctions’

28. Trespassers William  ‘New Songs & Outtakes’

29. Patrick Watson  ‘Adventures in Your Own Backyard’

30. Gold Motel  ‘Gold Motel’

 31. Of Montreal  ‘Paralytic Stalks’

32. Nightingales  ‘No Love Lost’

33. The Mountain Goats  ‘Trascendental Youth’

34. Bob Dylan  ‘Tempest’

35. Jack White  ‘Blunderbuss’

36. Hannah Cohen  ‘Child Bride’

37. Beach House  ‘Bloom’

38. Aidan Knight  ‘Small Reveal’

39. Dr. Dog  ‘Be the Void’

40. Josephine Foster  ‘Blood Rushing’

41. Mrs. Magician  ‘Strange Heaven’

42. Parquet Courts  ‘Light Up Gold’

43. Gentleman Jesse  ‘Leaving atlanta’

44. Tame Impala  ‘Lonerism’

45. Matthew E. White  ‘Big Inner’

46. Gravenhurst  ‘The Ghost in Daylight’

47. Thee Oh Sees  ‘Putrifiers II’

48. Anais Mitchell  ‘Young Man in America’

49. Tindersticks  ‘The Something Rain’

50. Lawrence Arabia  ‘The Sparrow’

51. Simon Joyner ‘Ghosts’

52. Redd Kross  ‘Researching the Blues’

53. Wild Billy Childish & The Spartan Dreggs  ‘Coastal command’

54. Marissa Nadler  ‘The sister’

55. Rover  ‘Rover’

56. Elephant Micah  ‘Louder Than Thou’

57. Allah Las  ‘Allah Las’

58. Sea+Air  ‘My Heart’s Sick Chord’

59. Chain & The Gang  ‘In Cool Blood’

60. Grant Lee Phillips  ‘Walking in the Green Corn’

61. Beth Orton  ‘Sugaring Season’

62. Rufus Wainwright  ‘Out of the Game’

63. Giant Giant Sand ‘Tucson’

64. The Raveonettes  ‘Observator’

65. Regina Spektor  ‘What We Saw From the Cheap Seats’

66. Patti Smith  ‘Banga’

67. Brendan Benson  ‘What Kind of World’

68. The Ufo Club  ‘The Ufo Club’

69. Brad  ‘United We Stand’

70. Jens Lekman  ‘I Know What Love Isn’t’

71. Go-Kart Mozart  ‘On the Hot Dog Streets’

72. Langhorne Slim  ‘The Way We Move’

73. Lambchop  ‘Mr.M’

74. Swans  ‘The Seer’

75. Guided By Voices  ‘Bears For Lunch’

76. Sun Kil Moon  ‘Among The Leaves’

77. Nude Beach  ‘II’

78. Dinosaur Jr  ‘I Bet on Sky’

79. Jessica Pratt  ‘Jessica Pratt’

80. Right Away, Great Captain!  ‘The Church of the Good Thief’

81. Lightships  ‘Electric Cables’

82. Hanne Hukkelberg  ‘Featherbrain’

83. Woven Hand  ‘The Laughing Stalk’

84. Bat For Lashes  ‘The Haunted Man’

85. Subsonics  ‘In the Black Spot’

86. Cat Power  ‘Sun’

87. Grizzly Bear  ‘Shields’

88. Todd Snider  ‘Agnostic Hymns & Stoner Fables’

89. The Tough Shits  ‘The Tough Shits’

90. Audacity  ‘Mellow Cruisers’

91. Barna Howard  ‘Barna Howard’

92. Jherek Bischoff  ‘Composed’

93. Dirty Projectors  ‘Swing Lo Magellan’

94. Dodgy  ‘Stand Upright in a Cool Place’

95. The Shins  ‘Port of Morrow’

96. Heartless Bastards  ‘Arrow’

97. Eamon McGrath  ‘Young Canadians’

98. Anna von Hausswolff  ‘Ceremony’

99. Baroness  ‘Yellow & Green’

100. The Primitives  ‘Echoes & Rhymes’

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Wilco @ Teatro della Concordia, Venaria (TO)   12/10/2012  _Il nostro (altro) concerto

      

La prima volta che li ho visti c’era ancora Jay Bennett. Tour di ‘Summerteeth’, di spalla (con i Suede) al Dall’Ara di Bologna nel più indimenticabile concerto dei R.E.M., con due leader al timone e qualche spigolo di troppo, evidentemente. Jeff era smilzo e glabro, capello corto e giacchetta di jeans. Devo ammettere che non mi fecero una grandissima impressione. Conoscevo solo ‘Shot in the Arm’, il cui video passò qualche volta come una cometa  nel cielo tardo-serale di MTV Brand New. Altri tempi. Il pop di quell’album sensazionale non rese al meglio dal vivo, mentre la miscela di folk e alt-country delle loro prime cose non incontrò i miei gusti dell’epoca, un remoto 1999, per cui archiviai l’esperienza con un distaccato e generico apprezzamento in attesa delle più succulente portate in cartellone.

Li ritrovai otto anni più tardi e lo scenario era già tutto stravolto. Tour di ‘Sky Blue Sky’ sul comodo pratone estivo di Spazio 211, in archivio anche le perle di ‘Yankee Hotel Foxtrot’ e ‘A Ghost is Born’, una squadra rinnovata e già affiatatissima, la certezza di un tocco magico. Degli idoli in pratica, dei giganti cresciuti molto in fretta. Jay era ancora vivo ma Tweedy l’aveva già esautorato da tempo.  Un Tweedy decisamente più in parte, più in carne, più in pelo. Accanto a lui il nuovo squadrone avvoltoi con dentro quel paio di fenomeni assoluti che rispondono ai nomi di Nels Cline e Glenn Kotche, oltre ad un altro terzetto di eccellenti musicisti capitanato dall’unico altro reduce dell’esibizione felsinea, il fidato bassista John Stirratt. Complice un salto di tensione e conseguente blackout, un concerto di per sé entusiasmante si trasformò in una pagina memorabile nell’album dei ricordi di chiunque fosse presente a quell’unico passaggio italiano per la band di Chicago: ‘Spiders (Kidsmoke)’ troncata dal buio all’improvviso ma salvata, senza che nessuno pianificasse la cosa, da un batterista troppo testardo per fermare i suoi battiti, da un cantante bravo anche con la chitarra acustica (e del tutto unplugged), da quattro alfieri disposti a percuotere qualunque cosa capitasse loro a tiro (compreso un caschetto ornamentale a fibre ottiche, scosso come maracas) ed un pubblico elettrizzato e come in trance collettiva, perso nelle onomatopeizzazioni corali dei riff della chitarra di Cline manco fosse una curva di faziosi ultras, per dieci minuti ed oltre semplicemente indimenticabili, travolgenti, da pelle d’oca. A corrente ripristinata, fu un’insolitamente entusiasta Jeff a complimentarsi con i duemila spettatori presenti per la cosa pazzesca plasmata tutti assieme sul filo squillante di una semplice, meravigliosa improvvisazione. Un rammarico che non siano presenti su youtube filmati di quel che accadde in quel lungo frangente.

Bando ai sentimentalismi comunque. Archiviato un evento che non faccio fatica a etichettare come uno dei tre live più belli cui avuto la fortuna di assistere in tutta la mia vita, resta da tenere traccia di un rapporto con il gruppo andato scemando poco alla volta da quel giorno di cinque anni e mezzo fa. Due dischi – ‘Wilco (The Album)’ e ‘The Whole Love’ di buon livello ma decisamente non all’altezza dei quattro diretti predecessori. Un discreto numero di nuovi passaggi italiani snobbati dal sottoscritto esclusivamente per necessità (trasferte troppo onerose, in pratica) e salutati da puntuali entusiastiche cronache degli amici di volta in volta presenti, sempre più numerosi come un drappello di nuovi adepti e senza remora alcuna nel dichiarare ormai al culmine della maturità la compagine statunitense nelle prove dal vivo. Sembrava quindi un amore destinato a spegnersi senza clamori ma con una coda di sottile gelosia, questo, poi ecco insperata l’occasione di ritrovare finalmente i Wilco ospiti nella propria città. Impossibile non approfittarne nonostante quel fuoco non più ardente come una volta. “Live sono sempre uno spettacolo”, il dato di fatto da cui partire senza esitazioni, ed eccoci allora sotto al palco del Teatro della Concordia di Venaria, luogo poco sfruttato ed in fondo (azzardo) ideale per eventi di discreto cabotaggio come questo (sì, ma andiamolo a spiegare a chi si ostina a portare solo i carrozzoni intergalattici e tamarri dei vari Muse, Lady Gaga, Rihanna, ecc., regalando poi immancabilmente a Bologna e Milano ogni Okkervil River, Calexico e compagnia cantante che ancora si ostini a passare per l’Italia). Polemiche a parte, rieccoli! Jay Bennett non è più di questo mondo da quasi tre anni, Tweedy ha preso nel frattempo non meno di altri dieci chili e si fregia di indossare una giubba di jeans che non sarà quella di un tempo ma le somiglia terribilmente.

        

La partenza è proprio tutto fuorché esplosiva. Non certo agevolata dal recupero di un classico tra i più oscuri del repertorio, ‘Misunderstood’, piazzato subito in apertura come un bel pugno nello stomaco, ingolfata oltremodo da un paio di episodi già di loro non proprio esaltanti ed eseguiti in maniera meccanica (e con il basso ed il synth scuro di Jorgensen a raschiare via ogni scampolo di sfumatura), sembra dare credito ai pensieri meno rosei della mia vigilia. Perché le cose migliorino, sensibilmente, non basta il sempre toccante appello di ‘I Am Trying To Break Your Heart’, pure sgrezzata da quell’impasto sonoro invadente, né il cuore di Jeff esibito senza particolari filtri in ‘Sunken Treasure’. A ridestarmi è piuttosto un pezzo che mai avrei pensato di ascoltare, e invece: ‘Laminated Cat’, dall’eponimo dei Loose Fur, progetto minore di Tweedy e Kotche (sempre che si possa definire “minore” una formazione il cui terzo vertice è rappresentato da Jim O’Rourke), lunga e gradita anticamera  per l’inevitabile estasi chitarristica di ‘Impossible Germany’. Sarà scontato, ma solo quando Nels Cline smette i panni della ricamatrice per salire finalmente in cattedra, i Wilco sembrano liberi di decollare. E con lui tutti gli altri, in primis un Pat Sansone che pare più leggero e gioviale che mai nei suoi quarantatre anni indossati divinamente (si fa fatica a dargliene trenta). Con ‘Jesus, etc.’, ‘Handshake Drugs’ e ‘War on War’ (non perfetto il cantato di Jeff) possiamo dire di essere arrivati là dove avevamo sperato. Il finale di set è una lunga fiammata a base di hook festaioli (‘Heavy Metal Drummer’) ed irrefrenabili singalong collettivi (‘Hummingbird’, ‘Shot in the Arm’). Si riparte per la prima serie di bis nello stesso modo in cui si era cominciato, ovvero con una straniante (e stravolta) versione di ‘Via Chicago’, discutibile per l’inclinazione sperimentale che alterna pause, fracassi sonici e limpide melodie. Diversamente da prima, il gruppo è però carico e pimpante e tutti i suoni sono ben equalizzati.  I recuperi della vecchia ‘Passenger Side’ e di ‘California Stars’ (direttamente dal primo dei tre album tributo a Woody Guthrie realizzati assieme a Billy Bragg) sembrano orientare i suoni verso un’Americana di stampo più tradizionale prima che ‘Hate It Here’ e soprattutto ‘Walken’ riportino con decisione il piede sull’acceleratore. Il secondo filotto di bis accentua questa dimensione per chiudere le danze in una lunga ed euforica smargiassata dalle cadenze prog, con tanto di baffuto ragazzotto roadie sul palco a percuotere un campanaccio e sculettare a torso nudo accanto agli altri. Siamo arrivati ai saluti finali e solo la nostra provatissima schiena sembra certificare che dal via siano trascorse due ore e mezza di strabordante ciccia rock. Ventotto canzoni, centocinquanta minuti avvolgenti, mesmerizzanti, quasi tutti impeccabili. Ma resta una sensazione di sortilegio, un retrogusto di precisione un po’ fredda o di scarso trasporto al di là dell’indiscutibile clamore, almeno in certi momenti. Si potrebbe stare qui ancora per ore a discutere se i Wilco siano effettivamente la migliore live band del mondo, oggi come oggi, ed io forse propenderei sempre per il sì. Ma senza il dato tecnico tutta la riflessione andrebbe comunque ripensata, il mestiere è ormai una componente significativa (anche se pur sempre minoritaria). Ad ogni buon conto uno spettacolo, come se ne vedono di rado.

P.S. – Quest’ultima considerazione non può valere per gli Hazey Janes, modesta compagine scozzese che ha aperto la serata con un mix di pop blando ed innocuo indie-rock, con troppo poca personalità a disposizione. Confronto impietoso con gli headliner, per cui mi fermo qui. Nella galleria fotografica raggiungibile dalla prima foto in alto ci sono comunque anche loro.

SETLIST: ‘Misunderstood’, ‘Art of Almost’, ‘Standing O’, ‘I Am Trying To Break Your Heart’, ‘I Might’, ‘Sunken Treasure’, ‘Born Alone’, ‘Laminated Cat’, ‘Impossible Germany’, ‘Shouldn’t Be Ashamed’, ‘Jesus, etc.’, ‘Whole Love’, ‘Handshake Drugs’, ‘War On War’, ‘Always In Love’, ‘Heavy Metal Drummer’, ‘Dawned On Me’, ‘Hummingbird’, ‘Shot in the Arm’; ENCORE I: ‘Via Chicago’, ‘Passenger Side’, ‘California Stars’, ‘Hate It Here’, ‘Walken’, ‘I’m the Man Who Loves You’ ENCORE II: ‘Monday’, ‘Outtasite (Outta Mind)’, ‘HooDoo Voodoo’.

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Due parole sul garage nel 2012

       

E finalmente ecco dicembre, tempo di consuntivi. Mentre mi ritrovo un po’ svogliatamente ad arrabattarmi tra recuperi e full immersion per compilare come da tradizione la più inutile delle classifiche, convinto già in partenza che a gennaio salterà fuori il disco 2012 del millennio (puntualmente mancato al momento giusto, è il bello di queste cose), non riesco a liberarmi da un’impressione che teneramente mi attanaglia. Ho cambiato gusti musicali, un’altra volta. Ho avuto, come tutti, le mie fasi. Ho seguito il grunge con ardore adolescenziale praticamente all’indomani della morte di Cobain. Poi ho abbracciato l’indie-rock statunitense in anni in cui l’etichetta ancora non si era deteriorata, ed è stato un altro bel segmento. Quindi ho sposato le camerette scozzesi quando i Belle & Sebastian avevano ancora qualcosa da dire, salvo fare poi un rapido cambio di porte à la Monsters & Co. per ritrovarmi in analoghe cornici ma dalle parti di Goteborg o Stoccolma. Non pago di questa schizofrenia regressiva, mi sono quasi letteralmente appeso alle infinite barbe dei cantori del nuovo folk a stelle e strisce perdendo alla fine la stretta e precipitando in un baratro nerissimo.

Al mio risveglio eccomi in una sudicia bettola accompagnato da note grezzissime, tutt’attorno a me. Chitarre scalcagnate in abbondanza, melodie scolpite in un archetipo rock’n’roll vecchio come la terra, facce da schiaffi a non finire ed una simpatia innata per il disimpegno da cazzoni, alieno all’hype più ipocrita e indossato come scarduffata ed improbabile divisa dell’onestà stessa nel fare musica, commovente nella sua purezza fin quasi alle lacrime. Sto parlando del garage, ovviamente: mai come quest’anno lo celebrerò con posizioni significative nella lista delle mie preferenze musicali, e non certo perché siano uscite cose migliori rispetto agli anni passati. Le prime avvisaglie di questa mia metamorfosi le avevo avute due anni e mezzo fa, quando tratteggiai una sintetica ma appassionata difesa del genere in un pezzo dedicato a Mark Sultan, non senza un certo stupore. Quelli che sembravano solo sintomi innocenti di un parziale ripensamento estetico approdano oggi al compimento di una conversione che era quasi inevitabile, in fondo. Per la prima volta nella mia vita ho anche una giacca di pelle nera. Ereditata, non comprata, nientemeno che dalla moglie norvegese di un cugino. Prendiamolo come un segno, mi son detto.

Con la musica alternativa sospinta a folate dalle mode della rete ci ho provato ancora una volta, ma credo sia l’ultima. Ho tentato di mandar giù una quantità indicibile di immondizia spacciata per arte. Puntualmente votata all’elettronica, furba nelle etichette, falsa nel proporsi come next big thing di rito, odiosa nelle celebrazioni idiote pescate qua e là. L’ho ascoltata ed era merda. Grimes, Yeasayer, Purity Ring, giusto per tirare in ballo qualche nome. Aggiungo con un colpo di teatro i Sigur Ros (e affini), giusto per togliermi lo sfizio di un tardivo outing: pippe intollerabili, indigeste, (pseudo)concettuali, gelide, mortifere. Mai come adesso mi rendo conto che la vita, musicalmente parlando, è altrove. Nel beat sgraziato e magari pestone, nel riff malfermo che si libra col cuore, nel riciclo indefesso di chi non inventa nulla ma si ostina a citare ed omaggiare con la passione incrollabile dei bambini. Dal revival alla psichedelia farlocca, dalle ovvie derive blues al surf, dalle macchiette canzonettare alle varianti punk, dai pidocchiosi cliché lo-fi alle bizzarre commistioni con il post-hardcore. Di tutto un po’, davvero, con il solo comune denominatore di dischi orgogliosamente suonati da e per perdenti.

Il 2012 non regalerà nulla a firma Fleshtones, o King Khan & BBQ Show (che comunque stanno per tornare), o Shannon & The Clams, tanto per menzionare i padrini di questa attitudine oltre ad un paio delle primizie più sfiziose ascoltate negli ultimi anni. Chi bazzica gli avelli garage ha avuto però anche quest’anno di che deliziarsi. Nelle posizioni alte, mentre la mia graduatoria è ancora un pastrocchio confuso, piazzerò sicuramente una manciata di album che di innovativo hanno meno di zero ma restano passatempi irresistibili. L’addio dei Bare Wires, ‘Idle Dreams’, veloce e succulento; l’eponimo ‘King Tuff’, da un personaggio maiuscolo che scrive collane di hook pop a dir poco infettivi; il ritorno degli scoppiatissimi Cheater Slicks (‘Reality is a Grape’) in una bomba H da eterni dropout del rock. E poi Ty Segall, che anche se è una volpe non troppo sincera sforna ancora operine godibilissime in rapida sequenza (‘Hair’ e ‘Slaugterhouse’ sugli scudi), il recupero di un’oscura chicca power-pop (‘2006-2008’ dei The Barbaras) e poi… beh, diversi altri. Non mi brucio la sorpresa visto che tanto manca così poco. Resta indelebile questa constatazione: se non siete degli snob del cazzo e amate ancora muovere il culo a suon di rock, questo è proprio il genere che può fare per voi. E sarà paradossale ma il futuro è delle band che guardano al passato.

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Sea+Air @ Circolo Canottieri Esperia   21/11/2012  _Il nostro (altro) concerto

      

Fino a un mese fa nemmeno li conoscevo. Nonostante fossero in pista già da anni, l’occasione per incrociarli discograficamente si è concretizzata solo pochi mesi fa quando il loro album d’esordio, ‘My Heart’s Sick Chord’, ha finalmente visto la luce. Anche così, tuttavia, l’incontro si sarebbe risolto per me in un nulla di fatto, pur con l’importante distribuzione della Rough Trade. A far sì che le cose andassero diversamente ha pensato ancora una volta Roberto “Graficone” Balocco, ovvero colui che è stato in grado di organizzare sei concerti del Canadese Woodpigeon a Torino facendo in modo che risultassero l’uno diverso dall’altro e tutti meritevoli. Intercettato non si sa bene come questo bizzarro duo made in Europe (lei, Eleni, una ex ballerina greca; lui, Daniel, un fustacchione di crucco. Sposati) è stato abilissimo a mediare con l’agenzia che li stava portando in Italia per la seconda volta, in modo da piazzare una data in città con l’impegno di organizzarla al meglio. Ed al meglio, effettivamente, deve essere stata organizzata se i due protagonisti hanno poi ammesso che quello al Circolo Esperia è risultato in assoluto uno dei più bei concerti della loro carriera (non poco per una formazione che ha alle spalle più di 1200 spettacoli dal vivo). Ancora una volta il grosso merito di Balocco è stato quello di conferire una fisionomia ben precisa all’evento, lavorando quindi sull’opportunità di una venue assai più suggestiva dei classici pub e circoli ARCI in cui i Sea+Air si sono fin qui esibiti – tour in corso compreso – soprattutto in piccole o piccolissime località del centro-sud. Il salone sfarzoso e vista Po del club per canottieri che già aveva battezzato l’avventura torinese di Mark Hamilton si è rivelato una volta di più scelta assai azzeccata in termini di atmosfera. La preparazione dell’ideale palco con luminarie, lampade di modernariato e candele varie ha fatto il resto, visivamente parlando, pur penalizzando il cronista addetto ad immortalare la serata con la sua modesta macchina fotografica. Un adeguato battage promozionale ben infiorettato dal corredo grafico del clan Elyron (tra poster e cartoline disegnati apposta per l’occasione) ha fatto sì che la coppia di cantanti/polistrumentisti si trovasse al cospetto di oltre centocinquanta curiosissimi spettatori, me compreso. al resto, ovviamente, hanno pensato loro con quel miracoloso bagaglio di folk contaminato e chamber-pop che è la favolosa dote di cui sono capaci. Per vedere cosa suonino, e come, ci sono numerosi video tedeschi su Youtube che rendono loro giustizia ben più delle riprese amatoriali scarsine della serata torinese. In scena sono dei mezzi fenomeni, e – pur nella stranezza dell’accostamento – non stupisce che Whitney Houston se ne sia (non si sa bene come) innamorata e li abbia fortemente voluti per aprire diverse date del suo ultimo tour europeo, prima che analoghe richieste venissero, tra gli altri, da Sufjan Stevens, White Stripes, Woven Hand, Flaming Lips, Jose Gonzalez e Divine Comedy (questi ultimi forse i più azzeccati, musicalmente parlando). Due cuori intenti a spartirsi grancassa, tamburo, campane, chitarra classica ed elettrica, basso, synth e clavicembalo, soprattutto il clavicembalo, quell’harpsichord il cui nome storpiato ha dato forma al titolo del loro unico disco. Un lavoro che per il sottoscritto si è rivelato un piacevole diversivo in fatto di sonorità e melodia, anche se armeggiati in maniera ancora un po’ scolastica sul piano della produzione. Ad intuito ho colto abbastanza facilmente però che Eleni e Daniel sarebbero stati in grado di dare dal vivo ben altro respiro alle loro canzoni garbate ma calligrafiche. Così è stato e così è sempre, a quanto pare, nelle loro esibizioni. Il folk ordinato e cameristico tende infatti a gonfiarsi e prendere direzioni imprevedibili, come quando una parca elettronica va ad ibridarne il costrutto o derive punkeggianti (quando non marcatamente poppeggianti) spingono la loro verve circense ben oltre le righe del canonico bozzetto easy listening. Una band di due soli elementi, genuini e contagiosi, che letteralmente rapisce lo spettatore traghettandolo verso lidi sorprendenti. Merito anche di quelle due loro voci incantevoli, soprattutto quella della ragazza. Una cantante terrorizzata dai viaggi in aereo almeno quanto il consorte da quelli per mare: da qui la ragione sociale, confezionata come ad esorcizzare paure recondite ed insieme a ricordare nei suoni il modo tedesco per dire “lei e lui’, appunto Sie ed Er. Nella sera dell’Esperia tutti i pezzi migliori del disco e non (‘You Don’t Care about Me’, ‘Take Me For a Ride’ e ‘You Are’  in scioltezza sugli scudi, ma anche i singoli più faciloni ‘Do Animals Cry?’ e ‘The Heart of the Rainbow’), come da scaletta di un Tour che sarà in Italia ancora tutta questa settimana. Se ve li foste persi e vi andasse di rimediare, nessun problema: torneranno in primavera, l’hanno promesso. In fondo amano le cose belle ed hanno imparato che per noi è lo stesso.

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