Month: luglio 2012

Mockingbird Time

       

Ecco un album che ho aspettato con trepidazione vera. Un regalo atteso sin da quando tutto pareva orientato a raccontare ben altro finale. I Jayhawks sono una delle pochissime band per le quali sento di potermi dichiarare fan in tutta tranquillità, considerato un apprezzamento devoto nei suoi confronti che ha superato anno dopo anno l’etichetta fragile delle infatuazioni passeggere. Li ho amati prima dei Wilco e continuo ad amarli anche adesso che quell’altra passione, per Tweedy e i suoi cavalieri, ha già imboccato il sentiero della discesa. Con i Jayhawks questo lento disamorarsi non si è mai palesato, forse anche perché il gruppo di Minneapolis è rimasto a motori spenti per otto lunghissimi anni. Nemmeno per quello, in realtà. Gary Louris e Mark Olson non si sono mai realmente fermati: tante cose in proprio o dentro altri progetti, quindi quel disco elettracustico a quattro mani che per il sottoscritto doveva per forza valere come una promessa (‘Ready For The Flood’ del 2008, ne avevo parlato qui). Non ho mai smesso di credere che questo nuovo inizio per loro due, insieme nei Jayhawks, sarebbe arrivato. Solo questione di tempo, di fiducia, e nessuna vera sorpresa a parte il pieno conforto di ritrovarli in uno stato di forma incoraggiante. Forse un tantino troppo olsoniano per lasciarmi davvero liberare l’applauso ma, come ho scritto nell’affettuosissima recensione per MM, che la bilancia pendesse dalla parte del figliol prodigo, o dell’amico ritrovato, era facilmente pronosticabile. Tra due personaggi del rock alternativo che amo alla follia come loro penso di preferire ancora di qualche decimale l’inclinazione al folk-pop versatile di Louris, piuttosto che l’ortodossia alt-country (suona come una contraddizione ma chi lo conosce sa che non lo è) di quella che è stata la vera anima del gruppo dall’esordio alla diaspora, Mark Olson. Poco male comunque. Non mi aspettavo certo un album à la Golden Smog, il side project di Louris e del bassista Mark Perlman (con Tweedy, Dan Murphy dei Soul asylum e Craig Johnson dei Run Westy Run, lui pure ex-Jayhawks) che io venero dal primo giorno come uno dei veri, grandi gioielli nascosti del rock americano. Pronosticavo, e in fondo volevo, un disco dei Jayhawks nel senso più classico del termine, e sono stato esaudito non solo per la piega traditional della confezione (per lo più ‘Tomorrow The Green Grass’, ma ci si sente anche l’inarrivabile ‘Hollywood Town hall’) ma anche per il ritorno in pista della rediviva Karen Grotberg, una che negli anni del massimo successo contribuì alla grande con il pianoforte e i cori). Non tutto è perfettamente a fuoco, non tutto suona indimenticabile e più di un automatismo rivela ancora quel po’ di ruggine. Ma il senso d’incantesimo, di tempo che sembra non essere trascorso affatto, è un’impressione preziosa per chi è legato a questo gruppo straordinario. L’unico vero rammarico riguarda più la sfera promozionale che non il disco in sé: avrei davvero fatto carte false per rivederli dal vivo ma in Italia non sono tornati. Troppo scottante il poco pubblico e lo scarso rispetto del promoter quel 10 settembre 2003, quando al Transilvania di Milano assistei incredulo ad uno dei cinque concerti più belli di tutta la mia vita. Personalmente non perdo la speranza di ritrovarli da queste parti al prossimo giro, convinto che una nuova occasione non mancherà. Più che altro mi preme appurare se, nonostante quel matrimonio andato così miseramente a puttane, ‘Miss Williams Guitar’ la suonano ancora.

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Nada Surf @ Bloom, Mezzago (MB)   23/02/2012  _ Il nostro (altro) concerto

      

Non saranno una di quelle band che portano molti punti ai curricula intellettual-alternativi dei frequentatori assidui dei piccoli live club, eppure i Nada Surf stazionavano da tempo immemore nelle posizioni calde della mia personale wishlist. Una decina di anni buoni, da quando andai in brodo di giuggiole per il loro ‘Let Go’, e nemmeno saprei dire per quale strana ragione me li persi giusto in quel tour quando passarono da me a domicilio in data unica italiana, 5 euro 5 per un posto alla transenna sul prato di Spaziale. L’occasione per rimediare è arrivata solo adesso, dopo un paio di album non proprio indimenticabili e ad un costo d’ingresso moltiplicato più di tre volte (ma comunque accettabile) nel remoto salone del Bloom di Mezzago, locale da veri reduci noto più che altro perché ventuno anni fa i Nirvana appena esplosi lo stiparono all’inverosimile. Non è andata allo stesso modo per Matthew Caws e soci in questo nuovo appuntamento unico per il Belpaese, ma il Bloom è parso comunque pieno per oltre i due terzi, animato da un pubblico caloroso che sarebbe stato anche più numeroso se il programma non avesse previsto il via alle 23.50 (n.b.: di un giovedì sera, a 190 km da casa mia) dopo corposo set del gruppo spalla.
In realtà non è andata malaccio nemmeno sotto questo aspetto: chi temeva l’ennesima spropositata opportunità concessa a qualche anonima band locale di dubbio valore è stato smentito dai piacevoli quaranta minuti appaltati agli sconosciuti Waters, nuovo progetto dell’ex frontman dei discreti Port O’Brien, Van Pierszalowski. Un indie-rock felicemente indeciso tra acustico ed elettrico, ruspante il giusto nonostante qualche non entusiasmante posa à la Dave Pirner del cantante. Abbastanza lungo da scaldare i presenti nell’attesa, opportunamente breve così da non causare noia. Certo la comparsa in scena dei tre paladini, per l’occasione scortati da due ospiti extralusso come Doug Gillard dei Guided By Voices e Martin Wenk dei Calexico, ha aiutato a resettare in un amen la parentesi del quartetto californiano. L’avvio, con diversi pezzi dal recente ‘The Stars Are Indifferent To Astronomy’, non è stato esattamente da spellarsi le mani per gli applausi. Inevitabili pecche nel suono unite ad episodi non certo tra i migliori del repertorio, ma la ripresa è stata pronta e soprattutto costante: già ‘Happy Kid’ ha infervorato il pubblico delle prime file come da previsioni. Mattoncino dopo mattoncino la formazione newyorkese ha saputo conquistarsi anche il più scettico degli spettatori, con esecuzioni precise ed immancabilmente coinvolgenti. Il segno del successo l’ho percepito con l’ottima versione di ‘When I Was Young’, uno dei tanti pezzi rock FM eccessivamente garbati ed insipidi su(l nuovo) disco. Al di là della notevole resa musicale, a fare la differenza sono stati però proprio i tre protagonisti in scena. Convincenti, spigliati, molto alla mano: non divi su un altare ma persone in fondo comuni, con una gran voglia di comunicare, scherzare assieme ai fan e suonare per puro piacere, senza le tipiche pose odiose che molte band “arrivate” sembrano portarsi dietro con gli altri bagagli nel tourbus. Se Matthew ed il batterista Ira Elliot sono quelli che hanno raccolto più apprezzamenti dalla parte femminile del loro pubblico (nota di colore: 60 a 40 per le ragazze al di sotto del palco, che per un concerto indie è comunque una bella eccezione), le simpatie di tutti i presenti sono andate senza troppa fatica allo sbalestrato bassista Daniel Lorca, inconfondibile per acconciatura, mimica, spirito e vocione. Archiviata la pratica dei pezzi nuovi, i Nada Surf hanno badato a confezionare per i loro aficionados un concerto-festa a base di greatest hits, senza particolari sorprese ma con le giuste dosi di energia ed ironia. Il meglio è arrivato verso fine set, quando la band statunitense ha optato per una decisa sterzata verso lidi rock (la terna ‘The Way You Wear Your Head’, ‘Hi-speed Soul’ e ‘See These Bones’, tra l’altro vera crema di tutta la loro produzione) efficacemente supportata dalla verve elettrica di un chitarrista eccellente come Gillard. Per i bis, ovviamente numerosi, Caws e compagni hanno svelato la loro anima più arditamente populista, sparando tutti assieme i loro due più grandi successi “romantici” (per ‘Inside of Love’ Matt si è improvvisato coreografo pilotando il dondolio di tutti i presenti nel salone), il pezzone che li lanciò in heavy rotation su MTV ormai diciassette anni fa (‘Popular’, la conoscete no?) e quello cui sono forse in assoluto più legati, una versione elettrizzante ed interminabile di ‘Blankest Year’ resa imperdibile dalla tromba di Wenk. Dopo una simile piena di singoloni irresistibili, un discreto fan come il sottoscritto non ha potuto che congedarsi dalla notte brianzola con la piacevole sensazione del cuor satollo. Quelli del ritorno sono stati in assoluto i 190 km (e anche più, considerata l’ennesima chiusura notturna di un tratto di A4) meno faticosi che la mia auto abbia mai macinato.

SETLIST: ‘Clear Eye Clouded Mind’, ‘Waiting for Something’, ‘Happy Kid’, ‘Whose Authority’, ‘Teenage Dreams’, ‘Weightless’, ‘Killian’s Red’, ‘Jules and Jim’, ’80 Windows’, ‘When I Was Young’, ‘The Way You Wear Your Head’, ‘Hi-Speed Soul’, ‘See These Bones’; ENCORE: ‘Inside of Love’, ‘Always Love’, ‘Popular’, ‘Blankest Year’.

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Balladeer

       

Il mio amico Roberto Balocco mi ha confessato qualche tempo fa che Mark ‘Woodpigeon’ Hamilton ha storto il naso leggendo la mia recensione di questo suo disco. “Leggendo” che è poi una parola usata a sproposito, visto che il cantante canadese avrà al massimo schiaffato il mio pezzo dentro al form di google translate, e arrivederci. Ha avuto da ridire sul voto più che altro, un 7 ben pesato e che ad un anno e mezzo di distanza continuo a considerare più che giusto per questo sincero ma fragile concept sui passati amori omosessuali di Hamilton. Pare che la voce dei Woodpigeon lo consideri il suo lavoro migliore, anche se questa non è certo il tipo di affermazione che mi senta di accreditare. Di sicuro è l’album sul quale ha lavorato di più in prima persona, curando quasi per intero anche la parte produttiva. E’ acclarato che sia il suo disco più personale, autobiografico, franco, magari anche sofferto, e quindi quello nel quale abbia investito maggiormente in termini emotivi e di onestà intellettuale. Ci sta che lo abbia particolarmente a cuore, come un diario intimo al quale si racconta tutto. Personalmente, tuttavia, pur avendo individuato e ribadito alcune positive costanti a livello di songwriting, continuo a preferire i suoi album più ricchi e “partecipati”: l’epifania ‘Treasury Library Canada’, l’esordio ingenuo ma folgorante di ‘Songbook’ e quel ‘Die Stadt Muzikanten’ che col tempo ho saputo rivalutare al punto da considerarlo (forse) la cosa migliore del gruppo di Calgary. ‘Balladeer: To All The Guys I’ve Loved Before’ resta un gradevolissimo diversivo. In attesa dei più volte promessi ma ancora inediti tre dischi che il Nostro avrebbe belli e pronti da tempo immemore (il primo dei quali, ‘Thumbtacks + Glue’, vanamente annunciato per giugno), spiace considerare che la veste acustica disadorna del folk gentile e malinconico di ‘Balladeer’ sembra diventata la bandiera unica dei (meglio, di) Woodpigeon dal vivo: in tour in Europa ormai da un anno e mezzo e quasi sempre da solo, con canzoni un po’ disinnescate in questi abiti di solipsismo povero. Il desiderio di apprezzare la band tutta assieme rimane valido e sentitissimo anche se, dopo tutto questo tempo (e ben 5 show torinesi), non è che ci si speri più molto.

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La vita dopo Dio  _Letture

      

Era quasi inevitabile che, gira e rigira, mi capitasse per le mani un libro non troppo convincente di Douglas Coupland. Stupisce che l’opera in questione sia una di quelle più amate dal popolo dei suoi più affezionati lettori, quel ‘La vita dopo Dio’ che sin dal titolo pareva promettere spunti e considerazioni illuminanti come da bagaglio del romanziere canadese. La forma agile del diario con illustrazioni, tutto stream of consciousness e brucianti riflessioni, sembrava in effetti la più adatta a lasciare qua e là perle di cui far tesoro, un po’ come nello stile di ‘Generazione X’ ma con un taglio ancora più diretto, franco, lapidario. Effettivamente le pagine folgoranti non mancano, come il bel finale romantico à la ‘Into The Wild’ o alcuni passaggi sulla morte, sullo sgretolarsi dei legami affettivi e familiari, sulla solitudine. Però a prevalere, per una volta, è uno sconforto senza confini, una prospettiva molto meno “umanistica” rispetto agli standard di Coupland e quasi rassegnata ad un cinismo evidentemente non troppo nelle sue corde. Pur ben scritto, questo romanzo non mi ha conquistato. Anzi, mi ha lasciato un senso di vuoto impietoso e di tristezza che anche le sue opere meno ottimiste riuscivano sempre a scansare con lo humor gentile o l’empatia. Qui prevale piuttosto l’ironia incattivita dei senza speranza, uno sguardo più che legittimo sulla contemporaneità che non riesce a farsi amare fino in fondo. 

Quella dopo Dio è una vita senza più utopie e sogni bigger than life. Un’esistenza fatta di solitudini irriducibili, legami sfilacciati, giornate lente ed individui invariabilmente lontani dalla grazia, sempre sul punto di sbocciare tra i protagonisti di una storia fantastica eppure destinati a perdersi molto blandamente per strada, come gli animaletti raccontati alla figlia bambina nel viaggio delle prime pagine. E’ una vita scandita dallo scorrere inesorabile di un tempo che non porta mai con sé quanto promesso, che non si può fermare quando tutto diventa irreparabile e ci si è arresi alla propria incapacità di meravigliarsi, di emozionarsi, di elevarsi al di sopra della soglia dei comuni incubi condivisi e perfino di raccontare favole. Non c’è fatalismo questa volta, non ci sono consolazioni di sorta, nemmeno l’inferno. C’è spazio unicamente per la rassegnazione, laica ed estenuata, che può avere come unica catartica via d’uscita il ritorno alla beatitudine onesta, silenziosa e placentare della natura. Nella rinuncia a relazioni ormai svuotate di qualsiasi residua traccia di senso e bellezza, descritta dall’autore in questa sorta di breve diario della sconfitta, o album di istantanee bloccate nella mediocrità insipida di un eterno presente, si assiste senza troppo pathos ad un raffreddarsi delle speranze che lo scrittore canadese aveva lasciato in dote ai tre antieroi di ‘Generazione X’, al loro completo fallimento e alla deriva grottesca di idoli ormai vuoti come l’amore, l’amicizia, la famiglia, la solidarietà tra esseri umani. La struttura leggera di questi brevi racconti (con le loro illuminanti illustrazioni) contribuisce a rendere digeribile il libro in assoluto più triste e pessimista di Coupland, anche se la prospettiva volatile, inevitabilmente discontinua ed un po’ fumosa della narrazione non aiuta il lettore nelle sue riflessioni, finendo col togliere forza a quello che rimane così, nel migliore dei casi, solo un curioso mosaico di folgoranti bozzetti sul male di vivere contemporaneo. Certo lo humor non manca, si conferma anzi una componente chiave, ma non può da solo annullare quella netta sensazione di amarezza imperante che anima la soggettiva pensierosa di Scout su di sé e sugli altri. Emblematiche le sue parole, verso la fine: <<Forse abbiamo dovuto pagare un prezzo per la nostra vita scintillante, e il prezzo è stato l’incapacità di credere totalmente nell’amore. Al suo posto abbiamo ricevuto in dono una particolare forma di ironia che ha bruciato tutto quello con cui entravamo in contatto>>. E’ così anche per ‘La vita dopo Dio’: feroce a tratti, pungente, eppure troppo debole e disincantato. Apprezzabile, ma non certo il miglior Coupland.

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