Month: aprile 2012

Thee Oh Sees @ Spazio 211   19/05/2011

    

Stanno tornando, non vedo l’ora. OK, precisiamo. Mi lamento spesso che a Torino ci sono pochi concerti significativi di valide band alternative e che, di questi, una bella fetta è rappresentata da gruppi che tornano magari dopo intervalli brevissimi a calcare gli stessi palchi. Non smentisco il concetto, tanto più vero in questa primavera a base di repliche e con ben poche sorprese degne di nota (tipo i Flaming Lips, che atterreranno ad un km da casa mia a Luglio e sono un inedito assoluto in città). In periodi di vacche magrissime come questi, tagliare in maniera corposa il budget per i concerti è una scelta dolorosa ma necessaria (ci sono tagli e problemi ben peggiori, intendiamoci), resa un po’ più lieve dalla consapevolezza che molto di ciò cui si rinuncia in fin dei conti lo si è già visto. Dubito – per dire – che tornerò a vedere gli Sleepy Sun. Per gente come i Lower Dens o la Jon Spencer Blues Explosion vivo una sorta di microdilemma. Non nutro invece il benché minimo dubbio riguardo ai Thee Oh Sees, una di quelle formazioni fuori catalogo che rivedrei sempre e comunque. Non perché possano offrire chissà quale variazione sul tema: il canovaccio, a grandi linee, lo si è colto con buona approssimazione nello show del maggio scorso a Spazio, e dubito ci siano elementi in grado di far pensare a stravolgimenti di massima. Ad esempio perché il tour che approderà in italia a metà giugno presenterà le canzoni del recente ‘Carrion Crawler/The Dream’, le stesse già riservate ai pochi fan in occasione della visita precedente, quella (in teoria) riservata alla promozione di ‘Castlemania’. Anche sullo stile non c’é molto da vagheggiare: il gruppo di San Francisco si produce in una miscela di grezzissimo garage revival, con sessione ritmica preminente e carta bianca alla scarduffata e vitale isteria del suo capitano, John Dwyer. Davvero improbabili ripensamenti in corsa o ritorni alla più educata forma retrò di qualche annetto fa, quando la dolce Brigid Dawson sapeva tener testa al suo partner artistico in protagonismo. Nonostante le presunte conferme sulla proposta, lo spettacolo di questi quattro californiani imbizzarriti sarà senz’altro garantito: come ho scritto nel report del live precedente, è alquanto difficile trovare in circolazione band capaci della stessa purezza dei Thee Oh Sees. Incontenibili e rumorosissimi, barbari ma nel contempo raffinati citazionisti, sono quasi un genere a parte oltre che un bel manipolo di musicisti talentuosi. Se ve li foste persi e quanto scritto su indie-rock.it (link dalla prima foto in alto) vi incuriosisse, non passerà molto tempo perché possiate rifarvi. 

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Se i teschi non bastano

        

Se solo fosse sufficiente un nome, crudo e rabbioso, per dare credito alle squillanti sirene della critica marchettara in fissa per le paper press promozionali. Bastassero i chiodi neri, i riffoni, gli sporchi clangori metallici ed un passaparola ben orchestrato, allora i Band of Skulls da Southampton sarebbero davvero un gruppo garage come narrano in fotocopia tutte le webzine di questo mondo, e noi potremmo addirittura gioirne. Eh sì. Il secondo lavoro di questa giovane band inglese è tra i più promossi e chiacchierati in ambito rock alternativo di questo primo quadrimestre 2012, ma ancora una volta le etichette scelte non possono non destare perplessità. Tralasciando un terzetto di episodi particolarmente bruttini (l’insipida ‘Close To Nowhere’ e le prevedibili ‘Devil Takes Care of His Own’ e ‘Lies’, inutili, quadrate, scolastiche), il disco tende a non deviare da una norma fatta di ammiccamenti, buoni automatismi ed un costante e discreto compromesso tra muscolarità ed accessibilità.

Pezzi come ‘Bruises’ e ‘You’re Not Pretty But You Got It Going On’ mostrano i denti di metallo e al tempo stesso non tralasciano l’aspetto emotivo. Un colpo al cerchio ed uno alla botte che non possono tuttavia evitare quella sensazione di didascalico, di schematismo rock granitico che è sempre ben presente e non si può certo dire desti chissà quale impressione, pur lasciandosi seguire. Non lesinano sull’elettricità i ragazzi. In brani dal sicuro appeal radiofonico come la title track o ‘Wanderluster’ appaiono solidi, sfacciati, poderosi e competenti, felicemente ed intelligentemente ruffiani, anche se il garage è davvero tutto un altro paio di maniche. E’ insomma un album ben prodotto e di facile presa questo loro sophomore, e c’é da scommettere che garantirà loro riscontri ragguardevoli non solo in patria. Eppure al di là dell’attenzione alla forma, innegabile, a quel suono sempre troppo giusto, ad una scrittura eccessivamente soppesata per convincere davvero (vedi gli assoli un tanto al chilo e sempre quando ce li si aspetta), non si può dire ci sia poi moltissima sostanza. Forse il rock dovrebbe essere sempre così scevro da sovrastrutture, ma un po’ più di impulso e sentimento non credo guasterebbero.

Svuotata la borsa delle recriminazioni, restano da menzionare i punti di forza effettivi su cui la Band of Skulls avrebbe buon gioco ad insistere. Il dischetto gira meglio, molto meglio, quando la sensuale bassista Emma Richardson si ritaglia un ruolo da protagonista indiscussa ed i ritmi rallentano. E’ il caso di una canzone bella, semplice e delicata come ‘Lay My Head Down’, che ricorda (per restare a questi anni e saltare a piè pari il revival) gli Sleepy Sun in cui cantava Rachel Fannan, quelli più posati e dilatati nella contemplazione elegiaca. Non male poi quel paio di passaggi curiosi in cui il terzetto inglese si discosta dallo stereotipo più strombazzato e finisce col somigliare ad altri anomali connazionali: i primi Turin Brakes nel delicato duetto con chitarra di ‘Hometowns’, oppure quello che ha tutto l’aspetto di un accorato omaggio ai Delgados (‘Navigate’), che sa essere incisivo senza forzare. Non certo i cavalli su cui hanno puntato il maggior numero di fiches, ma in fondo chi potrebbe dire dove si nasconda realmente l’anima di questo gruppo? Forse puntano ad un successo più rapido e convenzionale, forse sono semplicemente artisti indipendenti consigliati male (o bene, a seconda dei punti di vista). L’impressione è che un talento ci sia anche se non è quello che le logiche promozionali tendono a decantare. E che vada coltivato con un pizzico di passione in più. Va beh, mi sa che questo l’ho già detto.

      

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Rock’n’roll Submarine

       

Una recensione affettuosa, all’improvviso. Il pezzo scritto per Monthlymusic lo scorso maggio non può che rientrare nella striminzita categoria delle critiche composte più con il cuore che con la testa, e quasi inevitabilmente edulcorate da una sincera partigianeria. Non si spiega altrimenti la mia incapacità di approdare ad una stroncatura piena, nei confronti del classico disco senza valide idee e con troppa pancetta stilistica quale è a tutti gli effetti questo ritorno in scena degli Urge Overkill dopo tempo immemore. La verità è che non me la sono sentita. Troppo affetto per questi rocker spesso bistrattati ed ormai invecchiati, ancora capaci a ben sentire di una purezza intatta e commovente. Per riuscire a raccontare nel modo più completo possibile (ovvero con tutte le attenuanti del caso) la genesi di questo faticoso nuovo album, ho dovuto affidarmi all’artificio di una doppia recensione che gettasse un ponte ideale tra il nuovo lavoro e quello precedente, ‘Exit The Dragon’ del 1995, da me e da pochi altri considerato il capolavoro del gruppo. Sul filo di un confronto per forza di cose impietoso, non ho potuto che aggrapparmi all’unico aspetto realmente positivo di questo rientro in pista per enfatizzarne con sguardo bonario i pregi: l’onestà delle nuove canzoni. ‘Rock’n’roll Submarine’ sarebbe parso vecchiotto anche diciassette anni fa: un po’ anabolizzato, un po’ hard rock, e senza lo smalto gradito di una produzione decente, un po’ come erano stati tutti i dischi degli UO prima del pur modesto successo commerciale di ‘Saturation’. Con questa costanza nel replicare senza distinzioni meriti ed ingenuità del proprio passato, Nash Kato e King Roeser mi hanno strappato un sorriso di quelli buoni. L’orgogliosa indifferenza alle mode è di fatto uno degli aspetti che più amo in un artista, anche quando questo comporti opere difficilmente difendibili come quella che qui ripresento. Nello scrivere il pezzo il mio intento era quello di fare luce su una band a suo modo unica nel parallelo tra il dignitoso anonimato di oggi e quel lampo fortunato risalente a quasi venti anni fa. Di fatto doveva trattarsi di una reclame per il loro miglior lavoro, proprio quello cui vorrei rimandare anche in questa occasione. Quel che dovevano dare gli Urge Overkill lo hanno dato. Per loro sfortuna saranno ricordati quasi esclusivamente per una cover prestata ad una colonna sonora, una vera beffa considerando che di belle canzoni ne hanno scritte. Cercatele in ‘Exit The Dragon’ allora, o nel lato A di ‘Saturation’. Questo ‘R&R Submarine’ lasciatelo invece ai dinosauri come il sottoscritto, gli unici capaci di trovarvi almeno un barlume di senso.

La frenesia dell’era del download un disco del genere lo fa a brandelli senza pietà. Anche una band del genere, rimasta ferma ad un’epoca in cui internet esisteva ma non era ancora il nostro mostro quotidiano. Per me che vivo bene oggi come vivevo bene ieri, gli Urge Overkill rimangono una delle figurine più luccicanti nell’album dell’adolescenza. Li ho anche visti live qualche mese fa, non mancherò di parlarne più avanti. Per ora dirò solo che, a molti giovani gruppi oggi sulla cresta dell’onda, di merda ne danno ancora tanta.

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