Month: febbraio 2012

Omar Souleyman @ Sala Espace   09/09/2011    _ Il nostro (altro) concerto

      

Omar Souleyman finalmente in Italia. Finalmente e, con ogni probabilità, mai più. Come una febbre arrivata improvvisa e repentina, anche la moda di questo eccentrico personaggio della scena indipendente (più che della world music tout court) sembra destinata a svanire senza particolari strascichi e senza il rischio di ricadute. Possono sembrare parole ingenerose queste, ma vi assicuro che non è così. Non potrei mai spendermi davvero in critiche malevole nei confronti di un artista al cui concerto, in fin dei conti, mi sono divertito e non poco. Certo andrebbero anche chiariti i termini di quella contenuta ma genuina euforia, e per farlo mi preme svelare un piccolo retroscena dell’evento che qui sommariamente racconto. La cosa in assoluto più spassosa riguardo al passaggio cittadino del cantante siriano è stato l’equivoco di fondo che si è venuto a determinare a causa della fuorviante collocazione di tale live nel quadro della ben più “alta” rassegna di MiTo 2011, con inevitabile presenza di un pubblico di abbonati maturo e curioso, interessato alle suggestioni “esotiche” dei folklorismi musicali arabi e del tutto ignaro di quanto lo aspettasse in realtà. Pensavo di aver sbagliato serata trovandomi in coda con un bel manipolo di attempati spettatori, signore ultrasessantenni ingioiellate e ben vestite con il voluminoso programma di MiTo in mano e, accanto a loro, i rispettivi annoiati consorti. Proprio una rapida verifica sul libretto della manifestazione mi ha svelato la stranezza, preparando le prime risate: la presentazione da copione sembrava raccontare uno spettacolo ben diverso rispetto a quello intercettato in un paio di filmati in Polonia su Youtube. Qualcosa di posatissimo e magari anche un po’ noiosetto dal misterioso oriente… Un altro sorriso quando la signora di turno ha sbirciato furtiva dietro la tenda che dava sul salone, borbottando preoccupata al barista che non vedeva poltrone, ottenendo in cambio la sgarbata risposta: “A lato sala ci sono delle sedie di plastica. Ne prenda una e la metta dove le pare più comodo, se ritiene che in questo modo si godrà il concerto. Io ne dubito sinceramente, vedrà che divertimento”. Così è andata di fatto, in linea di massima: ancora ignari dell’imminente guazzabuglio elettronico, questi maturi spettatori hanno preso ciascuno una sedia collocandola sotto al palco, persistendo poi nel lanciarsi in fantasiose e sballatissime previsioni sul live di Souleyman. Le ultime parole famose, più o meno: “Al limite, dovessimo vedere che è una pizza, ci alziamo senza disturbare nessuno e ce ne andiamo”.

Al secondo brano tutto questo parterre de rois era stato cancellato dalla Sala Espace come se una bufera lo avesse sradicato, rimpiazzandolo con una masnada di giovanotti in perfetta trance danzereccia nello spazio vuoto un attimo prima occupato dai coetanei dei miei genitori e dalle loro belle sedie di plastica. Non che Souleyman possa essere paragonato ad un ciclone, visto che in scena ha meno verve di un orchestrale alla fiera provinciale del liscio, magari playback incluso. Non un animale da palco quindi, ma comunque da vedere: lunghissima tunica color topo, kefiah biancorossa, occhiali scuri di un modello tristemente vintage, scarpe di vernice nera ed orologiazzo d’oro, come se ne vedono fino alla nausea nei paesi arabi (in abbinata alle Mercedes, naturalmente). Spostamenti rituali da destra a sinistra, immancabili battiti di mano al cloroformio (con il microfono sotto l’ascella) e rinnovati gesti di incitamento, anch’essi alla moviola, al suo pubblico. Senza dubbio poco, ma ai suddetti giovanotti e alle tante signorine presenti deve essere bastato, perché le ovazioni per questo bizzarro cantante di matrimoni baciato dal successo (dalla scoperta ai festival inglesi ai remix richiestigli nientemeno che da Bjork per alcuni pezzi dell’ultimo ‘Biophilia’) non si sono contate. E dire che il Nostro si è presentato a Torino a ranghi ridottissimi: senza il formidabile saz elettrico di Bahjat Ali, senza gli intermezzi del poeta-suggeritore di turno, e con il sostegno del solo Rizan Said, vero mago ed autentica macchina da guerra dietro gli enormi congegni votati al ritmo ossessivo della serata, drum machine, synth feroci e svariate altre diavolerie elettroniche. Il risultato è stato l’atteso forsennato pastiche sintetico di Dabke siriano, Choubi irakeno ed altre indistinguibili influenze sonore (curde, a quanto scrivono) da bazar mediorientale, più votate ad un trash da battaglia (ma confezionato dalla precisione impressionante della mano di Said) che non alla bella forma per le platee sofisticate. Tutto come da copione quindi, esageratamente kitsch ma di fatto divertente almeno fino al quinto o sesto brano. Poi il profano cronachista ha dovuto alzare bandiera bianca, spossato, mentre attorno a lui nessuno pareva volerne sapere di fermarsi, con Omar là sul palco intento a tenere in caldo la stessa identica pietanza di tre quarti d’ora prima e a riservare al sottoscritto un sorriso intelligente e beffardo. Forse lui per primo sa che la sua moda sta passando rapida, così come la si è lanciata all’ATP e su tanti altri palchi trionfanti per la comunità indie (orrore), in Europa e non. Forse era un cenno d’intesa, un “grazie di esserci stato e di aver documentato”. Di niente Omar, se era solo per questa volta. Come diversivo di una sera hai funzionato alla grande e adesso hai un posto anche tu nel mio album dei ricordi.

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Per sempre giovani con il power-pop (?)

      

E’ arrivato davvero sotto traccia a fine gennaio il nuovo disco di una piccola band statunitense che in pochi, senza dubbio, avranno mai sentito nominare: gli Imperial Teen. Carneadi della scena power-pop che con i primi lavori si segnalarono comunque come una delle realtà più promettenti in un contesto all’epoca (seconda metà dei novanta, primi anni zero) assai nutrito e vivace. Se l’impressione avuta quando usci il penultimo disco con quella ragione sociale, ‘The Air, The TV, The Baby and The Band’, era stata sostanzialmente sconfortante per gli affezionati della prima ora, può suonare ora come ulteriore campanello di allarme il fatto che tra i due album menzionati – quello ed il recentissimo quinto capitolo di una discografia altrimenti avvincente, ‘Feel The Sound’ – siano trascorsi addirittura altri cinque anni. Aspettative quindi molto basse per questo quartetto “doppia coppia” di San Francisco, in cui uno dei vertici maschili – è bene specificarlo – è nientemeno che il tastierista dei Faith No More, Roddy Bottum. Nomi anche questi che ai più sapranno inevitabilmente di altre stagioni, va bene, e in fondo proprio in una diversa fase va ricercato il meglio di questo prezioso progetto collaterale. Un esordio realmente straordinario quello di ‘Seasick’, piccola gemma scoppiettante lontana ormai la bellezza di sedici anni, quindi due seguiti più smaccatamente pop per quanto approntati con uno smalto scintillante, da vecchia scuola (soprattutto ‘On’, del 2002), e poi appunto la precoce senescenza del disco precedente. L’inatteso (a questo punto sì) ritorno in campo riesce se non altro nell’impresa di attestare per questa band californiana un livello di vitalità ancora soddisfacente. Il singolone ‘Runaway’ lo dice apertis verbis: il recupero di forma è incoraggiante, l’andatura pimpante, una grinta insperata ancora degna di questo nome nonostante l’impronta easy listening si confermi forse troppo marcata, sulla falsariga delle ultime cose.

Divorando un album non certo impegnativo per l’ascoltatore, si può comunque appurare come una certa banalità ipercatchy sul piano della scrittura e dell’arrangiamento rientri in realtà in una più generale, precisa e coerente scelta stilistica: suoni più morbidi, impasti vocali a rinforzo alquanto omogenei, chitarre regolarissime tenute però sempre a freno, pochi guizzi e nessuna sbavatura evidente per un bubblegum forse scolastico ma ancora (o nuovamente) abbastanza godibile. Per raccontare il parziale recupero di ispirazione basterebbero un paio di titoli dal lato A: ‘Over His Head’ riporta agevolmente dalle parti di ‘What Is Not To Love’, il sophomore del ’99 che conteneva autentici pezzi assassini come ‘Yoo Hoo’, capolavoro assoluto nel suo genere: è assai convincente nella sua inesorabile regolarità metronomica e nel suo scontroso appeal radiofonico anni ’80, come pure l’umbratile ‘Hanging About’, sottilmente contaminata dall’elettronica e solida anche senza voler strafare. Non è certo un capolavoro quindi questo ‘Feel The Sound’, ma un album schietto e compatto in cui si apprezzano gli scarti minimi (i diversivi twee di ‘The Hibernates’, le parche tastierine di ‘Out From Inside’, la chitarra dei bei tempi andati in ‘It’s You’). Certo la blindatura power-pop rischia di ridursi ad una mera gabbia sonora senza la cattiveria ed il fantastico retrogusto acidognolo (e vagamente obliquo) che rese di fatto irresistibile un disco come ‘Seasick’. Prendere o lasciare, insomma: fermandosi ai confronti obbligati con il passato remoto o cercando spunti alti è bene tenersi a debita distanza, mentre se si guarda con curiosità ed indulgenza al quartetto capitanato da Bottum si possono comunque raccogliere alcune soddisfazioni. La nostalgia non melensa di ‘Don’t Know How You Do It’ ed il sottilissimo velo di amarezza à la Flaming Lips nella conclusiva ‘Overtaken’ certificano che anche oggi gli Imperial Teen sono qualcosa più di una band (insulsamente) spensierata tra le tante.

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Chain & The Gang @ La Suoneria, Settimo T.se 28/05/2011

    

E’ proprio di questi giorni la notizia della reunion di un’inarrivabile garage band come i Make-Up, annunciati per maggio nel cast del prossimo festival All Tomorrow’s Parties a Londra. Ora, non so cosa ne pensiate voi di questa inflazionatissima operazione recupero, del vento del revival che negli ultimi tempi sembra aver saputo resuscitare anche i morti scaraventandoli sui palchi di mezzo mondo per la gioia di chi nei settanta, negli ottanta o nei novanta era troppo giovane (o non c’era proprio) per spendere i suoi soldini al cospetto di questo o quel gruppo. In genere i casi di ritrovata armonia tra musicisti che fino a qualche anno prima si sarebbero volentieri augurati reciprocamente tutto il male di questo mondo mi lasciano perplesso, e non poco. E’ vero però che anche questa pratica lucrosa e perversa abbia talvolta le sue eccezioni, e il nome dei Make-Up dovrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) rientrare tra queste. Ian Svenonius, il frontman, non ha mai smesso di portare in scena la sua idea irriverente e sagace di musica alternativa. Chiusa l’esperienza del suo gruppo ad oggi più apprezzato, ha continuato a scrivere folgoranti bozzetti blues, soul e rock’n’roll, facendosi assistere ora da questo ora da quell’ex compagno di squadra. La conturbante Michelle Mae e il chitarrista Alex Minoff nei progetti Weird War e Scene Creamers, il bassista Steve Gamboa nell’avventura solista a nome David Candy ed il tuttofare James Canty nell’astruso capriccio denominato Chain & The Gang, che qui colgo l’occasione di menzionare a qualche mese di distanza da un’irresistibile performance in un piccolo locale dell’hinterland torinese. Proprio come Jon Spencer, Svenonius è il classico instancabile mostro da palcoscenico un po’ folle che disegna le band a propria immagine e somiglianza e se ne sbarazza con la stessa schizofrenia con cui le fashion victim cambiano abito. Non mi stupirei di ritrovarlo in giro con i corrosivi Nation of Ulysses – peraltro assai appropriati in questi anni di recessione a tutto campo – come non resterei sorpreso se il leader della Blues Explosion liberasse dalla naftalina la sua prima creatura, i Pussy Galore. Sia come sia, uno come Svenonius resta uno spettacolo a prescindere dal repertorio rispolverato di volta in volta o dalle figurine di contorno: se la speranza di sentirgli gridare ‘The Choice’, ‘Save Yourself’ o ‘Joy of Sound’ rimane un sogno che il probabile imminente tour europeo potrebbe veder realizzato, tocca ammettere che anche l’eccentrico “gospel yeh-yeh” della sua più recente incarnazione live vale assolutamente il prezzo del biglietto. Belle canzoni che odorano di modernariato, tirate politiche travestite da sermoni funk-soul ed un’inarrestabile verve da teatrante predicatore, la stessa anima punk intellettualoide che vent’anni fa si traduceva nelle brucianti fiammate post-hardcore dei Nation of Ulysses. Nel report accessibile dalla prima foto in alto c’é tutto della serata alla Suoneria di Settimo, dalle canzoni strascicate sul pavimento del locale o in cima al mio tavolino, ai goal di Messi al Manchester United. Eh sì, era serata di finale per la Champions League. Certe esibizioni però, revival o meno, rimangono di gran lunga più appassionanti.

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Music sounds better with you

      

Altra strepitosa gemma indie-pop della passata stagione questa dei redivivi Acid House Kings, ed altro pezzo scritto a commento dal sottoscritto con la maggior leggerezza possibile, prendendo le mosse dagli ormai immancabili rimandi calcistici e chiudendo allo stesso modo con una metafora dall’universo pallonaro. ‘Music Sounds Better With You’ è uno di quei dischi che portano quasi automaticamente il buon umore, gratificando nel contempo il palato fine in cerca di soluzioni melodiche sfiziose e mai stucchevoli. Non tutti la vedono in questo modo, sia chiaro. Chi con ogni probabilità detesta il genere ma fa fatica ad ammetterlo ha bollato da più parti l’album come un lavoro insipido, scolastico e monocorde, quando non “troppo pettinato”. Brutta bestia la miopia, ed inesorabilmente deleteria la regola del download rapace – ascolto distratto – cestino fulmineo. Inconvenienti da bulimia musicale, probabilmente, quasi necessari per fare filtro alla valanga di immondizia che entra ed esce a velocità supersonica nei nostri Ipod ma alquanto impietosi anche in casi come questo, in cui la qualità dell’artigianato easy listening è realmente sbalorditiva. Non una sorpresa in fondo per un gruppo dalla carriera ventennale che in passato (‘Sing Along With The Acid House Kings’) o per vie collaterali (‘The Boy Who Couldn’t Stop Dreaming’ della band sorella Club8) ha se possibile fatto anche meglio. Ad ogni buon conto, se certe sonorità rientrano agevolmente nelle vostre corde e ve lo foste imperdonabilmente lasciato sfuggire, è bene che recuperiate questo stringato bignami dell’arte soft pop e vi ci dediachiate con moderazione (alto rischio di diabete sonoro) ma regolarità. Come comprova la soddisfazione del sottoscritto a circa un anno di distanza dal primo assaggio, non sarà facile restarne delusi. L’equilibrio dei tanti elementi chiamati in causa – a volte apparentemente inconciliabili – rimane di fatto un mistero gioioso, assieme alla perfezione svizzera degli arrangiamenti e alla giustezza dei tanti dettagli (acustici, elettrici, vocali). Quando è davvero arduo stilare una graduatoria dei brani preferiti vista la sostanziale equità di pregio tra le canzoni in gara, non si può far altro che constatare che si è in presenza di un grande album, e di una notevole congrega di artisti.

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The Babies @ BlahBlah  02/12/2011                    _ Il nostro (altro) concerto

      

Sembrava destinato a rientrare nell’ampia categoria degli eventi prescindibili il concerto dei The Babies che ha chiuso per il sottoscritto l’anno passato, nonostante i nomi dei due protagonisti sul palco lasciassero intuire una pur marginale fisionomia da supergruppo (per quanto di nicchia, si intende). Troppo fragile ed indeciso il loro album d’esordio, eponimo, per alzare in maniera significativa l’asticella delle aspettative, e troppo ordinaria in fondo l’avvenenza della stellina Cassie Ramone, leader delle Vivian Girls, per eguagliare quella ben più notevole delle Melissa Auf der Maur o delle Juliette Lewis (tra le altre) con cui da un buon lustro mi ero ben abituato per l’ultimo appuntamento live dell’anno. Basso profilo insomma in termini di attese, e curiosità assai moderata, giusto per capire come potesse funzionare l’alchimia tra due piccole celebrità del circuito indipendente quali appunto la chitarra delle Vivian Girls ed il bassista dei Woods Kevin Morby, oltre ad una sezione ritmica di perfetti sconosciuti (anche se il batterista Justin Sullivan è già noto alle cronache come membro di un altro side project di Cassie, i Bossy). Come talvolta capita quando non ci si aspetta nulla di formidabile, per quanto raramente, gli spunti sorprendenti sono stati tali e tanti da far schizzare l’apprezzamento di chi scrive oltre i livelli di guardia. Evito le sbrodolature in fondo nemmeno così appropriate per una band pur sempre collaterale come i Babies, ma il piccolo concerto regalato all’esiguo pubblico del BlahBlah all’inizio del dicembre scorso merita di essere ricordato tra i dieci più convincenti tra quelli cui mi è capitato di assistere in tutto il 2011. A sorprendermi è stato soprattutto l’amalgama perfetto tra i quattro musicisti, senza pose o divismo d’accatto da parte dei due membri più conosciuti e con un affiatamento tangibile e realmente produttivo. Come già scritto a proposito dei Cults, quello dei Babies è stato il caso tipico – eclatante – di un gruppo molto più convincente sul palco piuttosto che in studio. Le canzoni grezze e trottanti del disco hanno assunto ben altro spessore, i momenti contagiosi (le due ‘Wild’ e ‘Breakin’ The Law’ sugli scudi) si sono presentati a ripetizione ed il simpatico quartetto statunitense ha suonato magnificamente (nota di merito per il robusto bassista, a quanto pare un rincalzo). Tra il power pop di ‘Sunset’ ed i passaggi surf psichedelici di marca Woods, i Babies hanno variato la proposta di quel tanto da renderla appetibile, pur senza rinnegare la loro predilezione per un garage pop divertente ed inoffensivo. Brava anche Cassie Ramone, sorprendentemente somigliante a Jeanne Moreau da giovane, che come detto ha fatto di tutto per evitare di svettare sui compagni e si è meritata la simpatia e gli applausi degli spettatori alla vigilia più scettici, come il sottoscritto. Da rivedere, comunque, e da risentire (un minialbum intitolato ‘Cry Along with the Babies’ è uscito meno di un mese fa), per appurare se il margine per una crescita sia effettivamente corposo come questo concerto ha lasciato intendere.

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