Month: gennaio 2012

Jonny

    

La freschissima notizia dell’imminente debutto per la Domino dei Lightships, nuovo progetto collaterale di Gerard Love dei Teenage Fanclub (coadiuvato tra gli altri dal primo batterista del gruppo scozzese, Brendan O’Hare, dal Belle & Sebastian Bobby Kildea e da Tom Crossley dei Pastels), non può che spingermi a rispolverare questo pezzo scritto un annetto fa a proposito dell’omologo esordio dei Jonny, altro side project di un membro della celebre band di Glasgow. Il primo album della nuova incarnazione di Norman Blake e dell’ex Gorky’s Zygotic Mynci Euros Childs ha generalmente raccolto ben pochi consensi, forse perché, visti i nomi, la critica si aspettava non meno che un mezzo capolavoro. Personalmente viene da pensare che sia stata fraintesa proprio l’essenza di una collaborazione immaginata dai due protagonisti come un diversivo spensierato, senza promettere nulla di stratosferico a nessuno. Ascoltando il disco secondo questa prospettiva sarà più difficile sminuirne il senso ed il valore, per quanto marginali possano essere. L’amicizia tra i due frontman, i palchi condivisi in giro per il mondo negli ultimi quindici anni, sono stati una ragione più che sufficiente per spingerli a scrivere e suonare qualche canzone pop insieme, ed è così che vanno inquadrati i dodici brani dell’album. Poi certo si potrebbe contestare che l’amalgama non sia riuscito proprio benissimo, visto che come ho scritto nel pezzo – sfruttando la metafora dei layered drink – i singoli contributi creativi si stagliano un po’ troppo nettamente all’interno dei vari pezzi, lasciando un’impressione di somma delle parti piuttosto che di sintesi. Alcuni episodi richiamano apertamente i Gorky’s, altri sono indiscutibilmente Teenage Fanclub oriented, mentre solo in un paio di casi il mix è davvero sbalorditivo. Il fatto che i riferimenti chiave delle due band britanniche riportino direttamente ai Beatles, ai Kinks e via dicendo, agevola comunque l’uniformità e la coerenza stilistica all’interno delle singole canzoni, evitando un effetto Frankenstein di non facile digeribilità. E poi – ma questo già lo si sapeva – Blake e Childs sono due fuoriclasse e si lasciano ascoltare ed apprezzare anche se non tutto il materiale di ‘Jonny’ può essere considerato proprio imprescindibile. Per avere un’idea della caratura e del potenziale, a parte il singolo ‘Candyfloss’  o un gioiellino come ‘Waiting Around For You’, potrebbe essere esaustivo l’ascolto del bislacco delirio psych-minimale intitolato ‘Cave Dance’: undici minuti che incarnano l’essenza di questo strampalato capriccio come nient’altro.

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Miss Wyoming _Letture

      

Ancora Coupland e ancora un bel libro. So di ripetermi insistendo nel promuovere questo cinquantenne canadese, ma se su cinque romanzi mi sono poi trovato a commentare altrettante soddisfazioni è evidente che non sto parlando di un autore fra i tanti. Non è astruso, non è un intellettualoide da strapazzo e non smercia merdate new age di quelle che cannibalizzano le classifiche di vendita. Eppure è uno scrittore che potrebbe piacere tanto ai più esigenti quanto ai divoratori di bestseller. E’ sempre attualissimo, ha qualità affabulatorie che pescano a piene mani dai meccanismi narrativi del cinema – questo in particolare – non annoia ma è anche bravo a dissimulare certe licenze un po’ troppo iperboliche per quanto riguarda la realtà delle vicende trattate. Soprattutto diverte e commuove in egual misura, senza la pretesa di raccontare verità universali e senza il bieco proposito di lasciare sbalorditi ad ogni pagina, sempre e comunque. Dopo le prime venti o trenta pagine di ‘Miss Wyoming’ ho temuto seriamente di essermi imbattuto nella sua prima vaccata. Troppi luoghi comuni affastellati tutti assieme e troppe formule già viste e metabolizzate sul grande e sul piccolo schermo. Parevano le premesse per una commediola agrodolce alquanto insulsa, ma Coupland non si è smentito. Rimane un romanziere accessibile e mai veramente impegnativo, ma i suoi spunti si confermano intelligenti lasciando margini ampi per una riflessione su questi anni, oltre a quell’inconfondibile retrogusto amaro che tutela il lettore dalle facili consolazioni. Persino in casi come questo in cui si chiude con un lieto fine. La vita non è poi troppo diversa da quella delle figurine nei suoi romanzi, anche quando si raccontano una miss o un produttore caduti in disgrazia.

Volendosi fermare alle sempre accattivanti note di copertina, ‘Miss Wyoming’ sembrerebbe quasi identificarsi con lo scontato plot racchiuso nella premessa, il colpo di fulmine a dir poco cinematografico tra un produttore hollywoodiano di B movie in evidente crisi esistenziale ed una ex reginetta di bellezza che leggiamo esser stata anche ragazzina prodigio in svariate sitcom televisive, moglie di un cantante rock, superstite di un disastro aereo ed “enigma pubblico”. Un banalissimo incontro di solitudini quello tra John Johnson e Susan Colgate, che effettivamente impregna le prime dieci pagine del romanzo di luoghi comuni sulle starlet e sui marpioni degli Studios californiani e pare destinato a gettare le basi per l’ennesima melensa commediola romantica bilanciata da un’altrettanto risaputa critica al bel mondo dei red carpet, dei lustrini e delle feste a base di cocaina e superalcolici. Niente di più lontano in realtà dalle effettive intenzioni dell’autore, come dimostra la scelta di far “recitare” nuovamente assieme i due protagonisti soltanto nelle battute conclusive, quasi trecento pagine dopo. Certo l’idea di mantenere la macchina da presa in maniera costante su personaggi per forza di cose stereotipati ed apparentemente tutt’altro che simpatici sembra penalizzante e l’avvio mette in effetti alla prova il lettore meno indulgente, quello poco propenso a solidarizzare con la rassegnazione al declino di due antieroi così distanti dalla sua realtà. E’ solo un pretesto però. A compensare la scarsa originalità del soggetto pensa infatti il Fattore Coupland, ancora una volta una garanzia nel rendere l’intima umanità e la tristezza di due personaggi accomunati dalla natura di sopravvissuti (ad un’apocalisse aerea come ad un cocktail letale o ad una disastrosa esperienza di vagabondaggio sulla scia di Kerouac) e spogliati poco alla volta dei soliti pregiudizi, di quei cliché letterari adoperati ben oltre il lecito da altri autori (ben più celebrati del canadese e non altrettanto validi).

A lasciare realmente meravigliati in ‘Miss Wyoming’ è l’intreccio, il meccanismo perfetto che porta a svelare poco per volta attraverso flashback rivelatori i trascorsi separati ma affini di queste due anime inquiete, inframmezzandoli ad una narrazione sul presente che assume strada facendo i toni brillanti della commedia gialla. Un romanzo indubbiamente leggero ma non per questo meno intelligente rispetto a opere ritenute cruciali come ‘Generazione X’ o ‘Microservi’. Anche in questo caso non mancano i colpi bassi né quello sguardo unico ed impietoso sulle malattie derivate dal troppo benessere, sul vuoto pneumatico di un mondo corrotto ed immorale e sui troppi alibi dietro lo smarrimento esistenziale e dei sentimenti. Non è un caso che John e Susan siano legati anche da una fallimentare esperienza che vorrebbe profumare di redenzione, il tentativo-illusione di perdersi in una vita ai margini come estrema fuga dai condizionamenti opprimenti della propria vita: il sogno di rigenerazione e ravvedimento di due ingenui romantici, vittime di una solitudine in fondo non così soffocante perché mai veramente disperata, descritto da Coupland con affetto ma senza benevolenza assolutoria.

Nel dissotterrare le radici del malessere di Susan attraverso le istantanee allucinanti di tanti grotteschi concorsi di bellezza, si svela progressivamente il nodo insoluto del legame della protagonista con sua madre Marilyn, donna spregiudicata e insoddisfatta che l’ha costretta per anni a “scuotere il sedere davanti ad una parata infinita di concessionari d’auto e parrucchieri”. Anche questo nuovo repertorio di modelli e formule già ampiamente sviscerati dal cinema e dalla letteratura potrebbe sembrare l’espediente necessario per un’analisi inevitabilmente più facile e tiepida, ma ancora una volta Coupland non è interessato al cinismo di comodo sulle piccole miserie del quotidiano. Più che la critica sociale e di costume sulle deformità morbose di un mondo, di una filosofia di vita ed un credo (profondamente yankee) che non riconosce alcuna dignità agli sconfitti e alla cultura in generale, all’autore preme dare spazio ai personaggi, alla loro umanità vera dietro le maschere meschine e l’avidità spicciola. Così anche per Marilyn ogni tentazione manichea è bandita e la madre di Susan si ritaglia un ruolo da coprotagonista, diviene un nuovo attore cruciale piuttosto che una caricatura agevolmente demonizzata: non semplicemente il Mangiafuoco implacabile delle mille rassegne nazionali, né solo una campionessa in speculazioni emotive (c’è anche la TV del dolore, come potrebbe mancare?), ma piuttosto un mostro a sua volta vittima di mostri, una donna frustrata, feroce e commovente, emersa dalla barbarie col solo desiderio di assicurare a sua figlia un’esistenza meno infelice e tormentata della propria. Nella sapiente demolizione di tanta vacua mitologia moderna in formato tascabile, il romanziere lascia un piccolo spazio al lieto fine. Con buona pace dei detrattori di questo libro, è difficile sostenere che se ne potesse fare a meno.
Grazie al cielo Coupland non è Palahniuk.

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Hotel Shampoo

     

Ha resistito praticamente un intero anno nella zone calde della mia classifica di gradimento, ed era quasi inevitabile che alla fine strappasse un posto sul podio. Gli ascolti lo hanno confermato, ed un inguaribile passatista come il sottoscritto non poteva esimersi dal premiare quello che è un autentico scrigno di primizie soft-pop declinate secondo il verbo dei sixties più solari (Beach Boys e dintorni, per intenderci) ma attualizzate con il gusto per l’arrangiamento e per l’elettronica poco invasiva di questo talentuoso guascone gallese. ‘Hotel Shampoo’ è stato archiviato con critiche quasi unanimemente positive ma anche con la sommaria stringatezza e la transitorietà che si riconosce ai dischi carini “e poco più”, forse anche perché a suggerire e consolidare quest’impressione di gradevole marginalità è stato il carattere stesso di collateralità  che progetti apparentemente secondari come questo (per Rhys si guarda con grande interesse quasi solo ai suoi lavori alla guida dei Super Furry Animals) inevitabilmente si portano dietro. E’ un vero peccato, indipendentemente dall’importanza relativa cheanche  il cantante può aver attribuito a questo suo terzo (e migliore) lavoro solista: ‘Hotel Shampoo’ è infatti un diario sincero e credibile sul mestiere di musicista girovago, ma prima ancora si impone come uno straordinario compendio  su cinquant’anni di musica pop, scritto ed orchestrato con maestria  e senza fare economia di trucchi melodici ed artifici stilistici ormai entrati nel bagaglio di ogni ascoltatore avveduto. Derivativo per vocazione, smaliziato e spregiudicato a fin di bene, quest’album è la dimostrazione che anche oggi con il pop si può meravigliare e si possono scrivere dischi di fattura pregevolissima, sempre che il talento e la consapevolezza siano qualità di cui un artista non difetta. Senza inventare nulla di nuovo (e come si potrebbe in fondo?) ma mossi unicamente dall’entusiasmo fanciullesco per le rielaborazioni, per quelle magiche alchimie che ogni bravo artigiano dell’easy listening dovrebbe sempre portare scolpite nella testa e nel cuore.

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Cults @ HiroshimaMonAmour  10/11/2011          _ Il nostro (altro) concerto

      

Quella dei Cults all’Hiroshima è stata una di quelle giornatine che ogni tanto capitano, quelle che definire telluriche è riduttivo. Tralascio di elencarne i motivi che oggi pure ricordo a malapena e mi limito a scrivere della scoperta del relativo cambio di venue avvenuta solo all’ultimo e solo fortuitamente (nessuno degli amici si era degnato di mandarmi un misero sms per avvisarmi). Avrebbero dovuto segnare l’esordio live di un nuovo locale cittadino, l’Astoria, e, proprio per festeggiare la particolarità della serata, il concerto sarebbe stato ad ingresso libero (a milano la sera seguente costava ben 15 euro). Ritardi nella consegna dei materiali per ultimare la ristrutturazione (a causa dell’alluvione in Liguria e Lunigiana, pare) ha comportato lo spostamento dello show all’Hiroshima con richiesta di un ticket comunque abbordabile (5 euro) per scongiurare la cancellazione e consentire a promoter e gestori (e alla città anche) di salvare la faccia. Questo in soldoni il preambolo, anzi, uno dei preamboli. Il secondo, assai più significativo, riguarda proprio i protagonisti del live di cui riporto qui una traccia sommaria. I Cults, già, una delle rivelazioni assolute dell’anno appena mandato in archivio almeno stando al prestigioso parere di Pitchfork (e di tanta altra critica accreditata): se la popolarissima webzine statunitense ha celebrato il primo passo del duo newyorkese con lodi sperticate ed un lusinghiero 8.5, benedicendo il gruppo con la scintillante qualifica di BNM (Best New Music), il sottoscritto ha trovato ci fosse davvero poco di convincente nel disco eponimo pubblicato nientemeno che per Columbia (cioé Sony), rinunciando alla causa dopo non più di 5 ascolti. Davvero troppo piatto e monocorde come album, non solo o non tanto nelle canzoni (appena discrete) o nell’interpretazione (scialba tutto sommato, specie la vocina da diabete di Madeline Follin) ma proprio a livello di sonorità, con quel noise-pop troppo diligentemente curato (leggi “manierato”) e al contempo troppo blando per impressionare davvero. Un giudizio tanto ingeneroso da parte mia potrebbe indurre chi legge a chiedersi il motivo della mia presenza sotto al palco dell’Hiroshima, ma la risposta è scontata: per verificare all’ultima spiaggia il perché di tanto clamore, semplice.

Giunto dopo tali premesse a parlare finalmente del concerto in sé, sarò brevissimo tagliando all’essenziale i fronzoli: non è stato niente male. Oddìo, adesso non aspettatevi una prova clamorosa, densa di virtuosismi o di chi chissà quali buone vibrazioni. I Cults rimangono una simpatica combriccola di (onesti) mestieranti baciati da successo spropositato e non certo dei fenomeni, però dal vivo hanno reso infinitamente più e meglio che su disco. Non so dire se il merito vada attribuito a quelle melodie sixties più vive e calde che nelle registrazioni di studio, al cantato incredibilmente carico della Follin (grande sorpresa), all’indispensabile supporto ritmico (e non) di ben tre turnisti assoldati per questo tour europeo, alle belle immagini di vecchi film proiettate sullo sfondo (guest stars Robert Mitchum e Richard Widmark) o più prosaicamente della congiuntura favorevole di un’esibizione arrivata con tempismo a sciacquare via timori e tremori di un periodo molto turbolento. Sia quel che sia, lo show è stato molto gradevole e ben più lungo di quanto immaginassi (poco meno di un’ora bis compreso, temevo la metà visto il repertorio esiguo). Tra le note in assoluto più positive citerei il modo di porsi dei due protagonisti, decisamente alla mano nonostante le camionate di hype sotto i loro piedi, ed in particolare di una Follin sufficientemente espansiva e simpatica. Anche molto bella (e in carne) – va detto – nei suoi spensierati balletti attorno al microfono, vero fulcro scenico della band, mentre il suo compagno Brian Oblivion è risultato pressoché invisibile (ed infotografabile) dietro all’enorme synth suonato con estrema parsimonia. In definitiva, qualche bella armonia, qualche graffio ed un’oretta in buona compagnia. Per capire se effettivamente oltre al fumo c’é un po’ di arrosto rimanderei al secondo album, sperando che nel frattempo contattino un produttore migliore di Shane Stoneback.

SETLIST: ‘Abducted’, ‘The Curse’, ‘Never Heal Myself’, ‘Most Wanted’, ‘You Know What I Mean’, ‘Bumper’, ‘Walk at Night’, ‘Never Saw the Point’, ‘Go Outside’, ‘Rave On’; ENCORE: ‘Oh My God’.

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The King is Dead

         

Dal folk espressionista all’Americana impressionista. Il passo compiuto dai Decemberists può sembrare uno scarto di quelli tutto sommato minimi, essendo stato compiuto in seno ad un macrogenere comunque di stampo tradizionalista, eppure per la band di Colin Meloy si è trattato lo stesso di una mezza rivoluzione. La straripante rock-opera ‘Hazard of Love’ aveva segnato una sorta di limite ultimo superando il quale il collettivo di Portland si sarebbe con ogni probabilità condannato a morte certa. Troppo eccentrici, ridondanti e barocchi sin quasi al grottesco per continuare su quella china. Colin deve essersene accorto giusto in tempo perché la risposta è stata un disco assai convincente, semplice e spoglio (ma alla maniera dei Decemberists) e con i piedi, anzi, con le radici, ben piantate sulla terra. Niente più voli pindarici, nessun volteggio da virtuosi in astinenza di colpi ad effetto: nella recensione scritta per Monthlymusic (e qui riproposta dopo un anno esatto di stagionatura) ho fatto ricorso alla facile metafora delle gare di tuffi, lasciando intendere che ‘The King is Dead’ (come pure l’EP successivo ‘Long Live The King’, a dire il vero meno riuscito) si è premurato di dire cose ordinarie e risapute ma in modo eccellente. Così è la scrittura, così gli arrangiamenti, la produzione e lo stesso Colin, ben disposto per una volta a mordere il freno. Non abbastanza scoppiettante per emergere davvero tra i migliori album dell’anno appena concluso, eppure sufficiente per proporsi come un lavoro apprezzabile e rigoroso. In un anno che ha anche visto la fisarmonicista del gruppo Jenny Conlee lottare e vincere (definitivamente, si spera) un cancro al seno, questa piccola raccolta di canzoni può rappresentare un nuovo inizio per quella che resta una delle migliori realtà della scena alternativa, una nuova direzione che potrebbe riservarci gradite sorprese in seguito (se con la buona forma arriveranno anche i grandi brani). I fan più sfegatati non la pensano esattamente così, ma io che rientro piuttosto nel novero degli estimatori sinceri non faccio proprio testo. Spero di essere nel giusto comunque.

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Generazione X                                              _Letture

    

Soltanto due mesi fa annunciavo da queste stesse pagine la mia intenzione di affrontare finalmente il romanzo più noto e celebrato di Douglas Coupland, quel ‘Generazione X’ che è stato spesso chiamato in causa (a sproposito) per vestire gli scomodi panni del documento generazionale. A lettura ultimata posso sostenere con una certa tranquillità che non si tratta di un capolavoro e che in fondo nemmeno aspira ad esserlo, che non è privo di quelle ingenuità tipiche degli esordi e che l’autore canadese ha saputo in seguito essere ancora più visionario, caustico e toccante. Nonostante questo ridimensionamento quasi demitizzante, l’opera prima di Coupland resta una lettura decisamente gradevole oltreché un lavoro di rilievo, per almeno due distinte ragioni. In primo luogo perché esprime già con una certa vivacità il talento di uno dei migliori narratori degli ultimi vent’anni, magari acerbo in qualche passaggio, magari dispersivo o non troppo bene a fuoco come per esempio in ‘Hey Nostradamus’. E poi perché rimane una fotografia impressionante di quello che siamo oggi noi trentenni, impressionante perché scattata nel 1991 eppure specchio fedele di ciò in cui l’occidente senza prospettive si sarebbe lentamente trasformato. Definirlo un romanzo profetico sarà forse banale, ma non vedo termini migliori di questo. Non è un inno generazionale, come si potrebbe immaginare senza averlo letto, perché non parla in positivo ma in negativo, perché da il colpo di grazia al vuoto pneumatico e alla volgarità degli anni ’80 senza avere in realtà alcun nuovo credo da promuovere in cambio. Parla di disorientamento e di disagio senza la pretesa di una verità assoluta da celebrare. Forse proprio in quella che è la migliore delle sue qualità, a più di vent’anni dalla pubblicazione, risiede il segreto di tanta longevità.

Affogati nel deserto di Palm Springs come testimoni silenziosi, apparentemente a loro agio in un transitorio rifugio dalla volgare mediocrità della loro precedente vita metropolitana, Andy, Dag e Claire sono trentenni in fuga da una realtà sempre meno vivibile e sempre più opprimente: da contesti familiari troppo perfetti o troppo imperfetti per essere ragionevolmente tollerati, dallo stress disumano di impieghi insignificanti, svolti di malavoglia e senza riconoscimenti di sorta, ma anche da pulsioni e condizionamenti socioculturali che spingono sempre più a confondere lo shopping con la creatività. L’intelligenza e la fantasia con cui ricamano le “favole della buonanotte” che improvvisano senza sosta sono le sole armi con le quali combattere una battaglia per l’autorealizzazione che non potrà esser vinta se non nella piena emancipazione dal fardello del loro benessere yankee, ovvero con quell’inevitabile esilio messicano che lascia aperto il finale alla speranza. L’esordio letterario del canadese Douglas Coupland rimane ad oggi la sua opera più conosciuta, pur non essendo forse la migliore. Il canto di una gioventù – quella dei shin jin rui, i “nuovi uomini” che mirano deliberatamente a nascondersi e a perdersi – condannata all’incomunicabilità e al disincanto in una società gretta e gerontocratica, dove il più beffardo paradosso è quello degli anziani ricconi californiani che dilapidano fortune in cerca di quella stessa giovinezza a suo tempo sacrificata agli idoli del denaro e del potere. E’ anche una struggente riflessione sulla fine di ogni vera speranza nell’avvenire, emblematicamente illustrata dalla rabbia silenziosa verso i propri genitori nelle parole che l’autore affida ad Andy, il protagonista-narratore: <<Mi viene voglia di dirgli che li invidio a morte per essere cresciuti in un mondo pulito e affrancati dal problema di un futuro senza-futuro. E poi mi verrebbe voglia di stritolarli per la spensieratezza con cui ce l’hanno lasciato nello stesso modo in cui ci avrebbero lasciato in regalo della biancheria sporca>>. Forse proprio per questa sua critica disordinata (ma mai veramente rancorosa) ‘Generazione X’ è stato promosso – suo malgrado, verrebbe da dire – al rango delle opere universali ed appunto generazionali, ma, più che come presunto romanzo-cartolina su una generazione e i suoi cliché, si apprezza soprattutto come testimonianza confusa (e proprio per questo sincera) sullo smarrimento ed il malessere del nuovo ceto medio, quello di cui la storia non patrocinerà mai le cause, quello che ha barattato la gioia vera con l’appagamento ed il conforto dei sentimenti con le comodità silenziose del benessere materiale. Considerazioni – quelle nascoste dallo scrittore canadese nelle divagazioni fantastiche dei suoi eroi come nelle notazioni finto-sociologiche nella cornice del testo – cui mancano grazie al cielo tanto la pretesa di infallibilità quanto il cinismo esilarante (?!) che immancabilmente le note di copertina attribuiscono al libro, ma che hanno avuto in compenso il merito di anticipare molte delle più rilevanti riflessioni delle scienze sociali degli ultimi due decenni, dalla radicale perdita di identità nei nonluoghi descritti da Marc Augé all’imporsi della precarietà come linea guida in ogni ambito dell’esistenza. A livello poetico o prettamente narrativo, Coupland ha saputo migliorarsi affinando la precisione e l’umanità del suo sguardo in alcune delle opere successive. Nelle pagine di ‘Generazione X’ restano comunque memorabili la cronaca impietosa della fine dei miti degli anni ’80 , dell’universo malato degli yuppies (indimenticabile il ritratto del fatuo ed egoista Tobias) ed almeno una delle numerose surreali favole di amore e morte qua e là disseminate, quella dell’astronauta Buck precipitato nell’eterno 1974 del pianeta Texlahoma.

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