Month: ottobre 2011

Laetitia Sadier + Silje Nes + Mice Parade @Spazio211 21/10/2010 _Il nostro (altro) concerto

    

Ventuno di ottobre del 2010, un anno fa su per giù, momento propizio per una piccola toppa nel mio curriculum di affamato spettatore di concerti. Finalmente Laetitia Sadier a portata di occhi, anche se solo per un piccolo live solista. La parola “toppa” non l’ho usata per caso, essendosi manifestati ben due strapponi in un passato ormai remoto (ma nemmeno troppo) cui porre rimedio oggi con la pur insoddisfacente riparazione raccontata nelle poche righe che seguono. Non si trattava infatti dell’esordio cittadino per la cantante francese, passata da queste parti assieme a Tim Gane ed al resto della favolosa pattuglia Stereolab (c’era anche la compianta Mary Hansen) in due distinte occasioni, entrambe nel mitico (compianto anch’esso) Barrumba di via San Massimo e curiosamente nello stesso periodo dell’anno in cui è andato in scena questo ritorno un po’ misero: 22 ottobre del ’95 e 20 ottobre del ’97, per la precisione. Dove mi trovassi in quelle due serate autunnali, non ho modo di saperlo. A casa, probabilmente, oppure in giro con amici ma non certo ad un concerto. Gli Stereolab li avrei conosciuti di lì a breve, nel 1998 se non sbaglio (primo anno di università), per poi aspettarli invano una dozzina di anni fino alla relativa sospensione delle attività. L’occasione di questo insperato rendez-vous si è rivelata ghiotta più per il contorno che non per la portata attesa con trepidazione, visto che il set della Sadier è stato compresso a sandwich tra l’esibizione della sconosciuta nordica Silje Nes e quella dell’arrembante truppa Mice Parade: tre artisti internazionali al modico prezzo di euro 8, roba da saldi di fine stagione. A conti fatti, sorprendentemente, proprio il ridotto show della cantante degli Stereolab ha finito col rappresentare il momento più debole dell’intera serata. Otto canzoni appena, tra pezzi nuovi dell’album solista ‘The Trip’ e qualche cover non proprio indimenticabile, con il solo accompagnamento della propria chitarra elettrica. Brava ed incantevole come da previsioni, per carità, ma da una cantante con il suo repertorio era lecito attendersi qualcosa di più (e soprattutto di più movimentato). Da rivedere quindi, sperando che la sbornia solista passi presto e torni la voglia di esibirsi con il gruppo: dando un’occhiata alla scaletta dello show torinese del ’95 (‘Transona Five’‘Ping Pong’‘Percolator’ e ‘Metronomic Underground’, tra le altre) c’é da star male, ogni possibile confronto con le tristi e spoglie canzoni fatte allo Spazio è semplicemente impietoso. Davvero niente male invece l’apertura “atmosferica” dell’amena folksinger norvegese Silje Nes, venuta in Italia quasi sotto traccia a presentare i brani del suo secondo disco, ‘Opticks’ (uscito per Fat Cat giusto un anno fa), ed abilissima a stregare un pubblico che di certo non si trovava lì allo Spazio per lei. Trame notturne, sofisticate quanto eteree, jazzate e screziate elegantemente di elettronica e rumorismi vari in una miscela decisamente convincente. Una vera bomba, infine, il calorosissimo set degli statunitensi Mice Parade, capaci di riscaldare un pubblico prossimo all’assideramento con le versioni rock oriented dei titoli della loro più recente fatica, ‘What It Means To Be Left-Handed’. Se il disco mi aveva lasciato alquanto perplesso per l’uso spregiudicato e ridondante di pop progressivo, contaminazioni elettroniche ed esotismi vari, le versioni più tirate e rumorose suonate allo spazio mi hanno strappato più di un applauso convinto. Energia senza cali, una presenza ritmica straordinaria, virtuosismi a profusione senza ombra di autocompiacimento ed un ospite extralusso (nelle morbide decorazioni glitch) come Gunnar dei Mùm. E poi, beh, una vocalist potente e delicata come Caroline Lufkin, che da sola ha conquistato la mia attenzione quasi per l’intera durata del concerto. Nel mio vocabolario la sua fotografia non potrebbe che stare accanto alla voce “bellezza”.

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Fatalists

         

Non assurgerà mai al rango di mostro sacro, non potrà vantare il tocco magico dei Guy Kyser, degli Howe Gelb, dei Tim Rutili, degli Edwards e dei Lanegan, eppure nessuno può negare a Hugo Race di essere un autore di talento, uno che ha saputo smarcarsi dalle ombre troppo ingombranti di un passato da gregario per maturare negli anni un proprio linguaggio personale, sofferto, incisivo, credibile. ‘Fatalists’ è un piccolo album senza particolari pretese, ma può vantare almeno una significativa nota di merito: la sincerità. Uno di quei lavori polverosi, sporchi senza essere ruffiani, senza inseguire pose maudit e senza affogare nei cliché di genere. Certo non aggiunge nulla ad una formula espressiva – il desert folk di marca yankee – che è già stata esplorata in lungo e in largo da autori giganteschi, a parte forse le angosce dei propri avventurosi trascorsi australiani sotto l’ala di un giovane Nick Cave. Race è un cantautore che non si è mai adagiato sui pur limitati allori, ma ha sempre voluto mettersi in gioco ed esplorare, genere dopo genere, le proprie potenzialità nei tanti ambiti della musica popolare. Per quanto non sia stato certo realizzato per conquistare chissà quale pubblico, registrato per giunta in condizioni precarie dall’artista stesso, ‘Fatalists’ è una fotografia fedele di Race sulla soglia dei cinquanta. Un buon consuntivo autoriale in attesa di nuove svolte e nuove ricerche nella tradizione. Anche se a qualcuno potrà apparire la copia spompata e noiosa del miglior Lanegan e di chissà quanti altri folksinger di razza, posso testimoniare che dal vivo è uno di quei cantautori che sorprendono positivamente e si lasciano apprezzare anche da chi non abbia particolare passione per il genere di riferimento: bella voce cupa e profonda, chitarra scarna ma attenta alla melodia, essenzialità luminosa. Nei prossimi giorni sarà nuovamente in giro per l’Italia ed è sicuro che su queste pagine saremo attenti a raccontarne le gesta.

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Denti Bianchi                                                 _Letture

     

E’ stato indiscutibilmente un caso letterario quello dell’esordio di Zadie Smith, ormai più di dieci anni fa. Arrivatoci con immancabile ritardo, mi vedo qui costretto a ridimensionarne la portata pur omologandomi alla critica nel sottoscrivere gli attestati di stima e simpatia per la giovane autrice londinese. Il romanzo è carino, corposo ma fluido, piacevole come passatempo non troppo impegnativo ma nemmeno banale. Certo non è un capolavoro, come qualcuno ha avuto l’ardore di definirlo. Zadie è tutto sommato brillante, riesce a tenere vivo l’interesse del lettore dalla prima all’ultima pagina dando forma ad una narrazione a incastri, fatta di diversivi anche senza risultare cervellotica o spocchiosa. Certo è pur sempre l’opera di una ventenne (la prima versione è di metà anni ’90) per quanto promettente, con tutte le ingenuità del caso ma anche col la sostanziale baldanza di chi è troppo genuinamente impulsivo per cedere all’arma (a doppio taglio) del cinismo e del calcolo. Apprezzabile, pur senza entusiasmare.

C’è Archie, aspirante suicida che riesce a dare un senso alla propria grigia esistenza solo ad un passo dalla resa, ma non sa sconfessare per questo la propria patologica ritrosia a schierarsi e prendere decisioni definitive. C’è Clara, sfuggita per un soffio alla follia confessionale della predestinata nella fede, solo per votarsi con rassegnata devozione al culto degli ignavi celebrato dal marito. C’è Samad, immigrato bengalese drammaticamente ancorato ad una personale visione dell’Islam e ad un orgoglioso passato di prostrazione che non ammette i compromessi e le comode seduzioni dell’integrazione. C’è Alsana, che rappresenta una versione più materna e leggermente meno inflessibile del medesimo retroterra culturale.

E poi ci sono i loro figli. Irie, adolescente alla ricerca di una difficile identità meticcia. Millat, bastiancontrario e seduttore sedotto da troppi cattivi maestri. E Magid, talento zen splendidamente sopravvissuto ad ogni tentativo di indirizzarne le sorti.

Il libro vive di questa irriducibile dialettica tra due universi impermeabili l’un l’altro e l’incomunicabilità si impone come vero nodo cruciale, nonostante la marea di parole mandate a schiantarsi da questa e da quella parte senza che nulla di concreto possa essere costruito al di là di un blando amore.

Da un lato appare emblematica la prospettiva di Samad, con il senso di frustrazione e smarrimento di chi, sradicato, non è più stato in grado di mettere radici: <<Quando si entra in questo paese si fa un patto con il diavolo. Si consegna il passaporto, si riceve un timbro, si vuole guadagnare qualcosa… si comincia… ma allo stesso tempo si vuole tornare indietro! E chi vorrebbe mai restare? Freddo, umido, miseria, cibo orribile, giornali spaventosi… E chi vorrebbe mai restare? In un posto dove non si è mai benaccetti, ma solo tollerati. Appena tollerati. Come se si fosse degli animali diventati finalmente domestici. Chi vorrebbe mai restare? Ma si è stretto un patto con il diavolo… ti trascina dentro e all’improvviso non sei più adatto al ritorno, i tuoi figli diventano irriconoscibili, non appartieni più a nessun posto>>. Dall’altro resta indelebile lo sfogo finale di Irie contro la trappola inaccettabile dei particolarismi meschini, del passato ereditato a forza, della tradizione subita come qualcosa di inevitabile: <<Non questo interminabile labirinto di stanze presenti e stanze passate e le cose dette dentro quelle stanze dieci anni fa, e la merda storica di ognuno spiaccicata ovunque. Loro non continuano a ripetere regolarmente i vecchi errori. Non ascoltano sempre vecchie puttanate. Non si preoccupano di ciò che fanno i loro figli, finché si comportano in modo, sapete, ragionevolmente sano. Felice. E ogni singolo giorno del cazzo non è un’enorme battaglia tra chi sono e chi dovrebbero essere, ciò che erano e ciò che saranno>>.

Inutile dire come dal perenne confronto tra queste due filosofie di vita i primi (e soprattutto il vecchio Samad Iqbal) siano destinati ad uscire perdenti e feriti. Le simpatie della giovane autrice sono ovviamente rivolte ai secondi, all’insopprimibile bisogno di libertà nel proprio percorso esistenziale che solo questi ultimi (cui si può aggiungere l’altro ribelle – in fuga dalle storture dell’altrettanto rigido razionalismo scentista genitoriale – Joshua Chalfen) sanno rivendicare con furore autentico. Irie in particolare, vero alter ego della Smith, pare l’unico personaggio realmente dotato di buon senso e di una visione lucida sulle mille contraddizioni del presente. La grettezza e l’ottusità degli adulti sono comunque stemperate dal taglio bonario e dallo stile agile, umoristico anche, dall’intrecciarsi di storie e di istantanee scattate nel passato dei protagonisti ed utili ad umanizzarne le asprezze caratteriali, i difetti. Zadie ama i suoi personaggi e li rende caricature inoffensive nei loro sbagli, mai odiose, anche se questo instancabile ricorso all’affabulazione finisce con l’appesantire il romanzo forse più del dovuto facendogli pagare qualcosa in termini di incisività.

‘Denti Bianchi’ racconta una realtà già ampiamente trattata e lo fa senza particolari virtuosismi letterari, anche se la viva passione dell’autrice, l’entusiasmo e la partecipazione trattenuti a stento riescono in parte a riscattarlo e a renderlo se non altro gradevole. In tal senso funziona discretamente come affresco corale sulle moderne classi medio-basse della società inglese, su gioie e dolori del melting-pot, sull’integrazione e la (in)tolleranza, perché diverte con garbo senza voler imporre verità definitive e perché non rinuncia a lasciar trasparire quel sottile velo di amarezza che ne conferma lo spirito genuino.

Non entusiasmante, si può leggere, nonostante la messe di refusi ed errori della versione italiana.

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Melissa Auf der Maur @ Spazio211      10/12/2010

    

Capita che di un artista ci si possa fare un’idea che non corrisponde neanche lontanamente alla realtà. Nella società della comunicazione iperframmentata e dell’immagine sovrana, i facili pregiudizi rientrano nel ristretto novero delle creazioni umane che non conoscono trend negativo, anzi. E’ inevitabile che ci si caschi un po’ tutti quanti, specie quando ci si trova a vivisezionare senza il benché minimo fondamento la carriera di una star bella ed osannata come la statuaria rocker Melissa Auf der Maur, faticando a tenere a freno le inevitabili fastidiose tentazioni snob da paladini dell’indipendenza e dell’integrità in ambito musicale. La recensione del suo concerto a Spazio di fine 2010 penso la ripaghi di tutto il male che posso aver pensato di lei nel corso degli anni, quando capitava di vederla tutta in tiro nei suoi leccatissimi videoclip sulle reti nazionali, antipatica e boriosa senza attenuanti generiche. E’ stata la curiosità a spingermi ad andare al live di cui sopra, la voglia di scoprire come una vera diva del circuito potesse porsi nei confronti dei fan senza il filtro degli schermi e senza barriere o transenne a preservarla nel guscio dorato della propria olimpica condizione. Ovviamente mi sbagliavo di grosso ed uno show cui sulla carta guardavo con un certo disprezzo si è rivelato una discreta sorpresa, con la celebrità canadese precipitata sulla terra dei comuni sfigati per sua stessa volontà. Una persona dolce, spiritosa, affabile e sinceramente intrigante. Non diventerò mai un appassionato del suo rock enfatico ed alquanto scolastico ma è certo che d’ora in poi non avrò problemi a difendere la natura genuina dell’avvenente ragazzona non appena l’intransigente purista di turno ne parli male con me senza cognizione di causa. Se le mie foto sono in questo caso un po’ più belle del solito, il merito è tutto suo e della generosità di madre natura. La galleria in slideshow si raggiunge dalla seconda foto in alto. 

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Un’altra promessa…

         

…non proprio mantenuta.
Non può che partire così il mio pezzo sul sophomore dei Ganglians. Ci eravamo lasciati con la speranza di un futuro di grandi conferme, in coda alla recensione di ‘Monster Head Room’ scritta proprio nei giorni di quel notevolissimo esordio sulla lunga distanza (si veda il tag ‘Ganglians’ qui a lato, per chi volesse recuperarla). La band di Sacramento ha colmato questi due annetti di spazio vuoto dandosi da fare: si è imbarcata in un tour mondiale che l’ha portata anche in Italia nella primavera del 2010, quindi ha raccolto gli spunti necessari per l’ideazione del capitolo secondo, sempre tenendo fuori dal computo il lungo EP eponimo uscito per Woodsist prima di ogni altra cosa a suo nome. ‘Still Living’ è stato licenziato lo scorso agosto con la fretta e l’entusiasmo dei gruppi ancora giovani ed impazienti, un po’ come l’album d’esordio ma senza lo stesso smalto e la stessa prorompente vena genuina. Non che suoni come un lavoro ruffiano o troppo studiato a tavolino, tutt’altro. Solo si presenta come un’opera non bene a fuoco, incapace di chiarire con decisione quale strada intenda percorrere e, forse proprio per questo, non facile da apprezzare nel suo insieme.
Nel brano d’apertura Ryan Grubbs e compagnia sembrano palesare una sorta di timore, un blocco, un freno che impedisca loro di azzardare soluzioni diverse rispetto a quelle proposte con profitto nel loro primo disco. Gli ingredienti sono i medesimi, riconoscibilissimi, enfatizzati nella più comoda delle stilizzazioni: spensieratezza, chitarre squillanti e melodiose, coretti a profusione, grande attitudine easy e produzione apparentemente non troppo curata. Il risultato è gradevole, fluido, amabilmente disimpegnato, anche se la mancanza di effetto sorpresa costringe questa ‘Call Me’ in una posizione di assoluto svantaggio. Hanno lavorato senz’altro sugli automatismi i nuovi Ganglians, impressione che avevo percepito anche in occasione del loro live torinese di un annetto e mezzo fa (ne scriverò prima o poi). Hanno sfrondato con il piglio giusto quel fondo di asperità e sporcature soniche pure così caratteristico in ‘Monster Head Room’ ma che, replicato pari pari alla seconda prova, avrebbe potuto valere come una squalifica senza appelli. Il problema qui, suono alla mano, è che sembrano aver anche banalizzato un po’ troppo la formula.
I primi rischi arrivano con i due episodi successivi e non sono esattamente azzardi granché riusciti. Il ritmo si fa più blando, le sonorità virano verso il sepolcrale con un effetto darkwave non proprio dei più entusiasmanti. Il fantasma degli ’80 stende un velo sull’immancabile euforia wilsoniana, con esiti dissonanti ed in fondo un po’ inquietanti, e solo qua e là le chitarre riescono a tenere in piedi la baracca con invenzioni degne d’interesse.

      

E’ a questo punto però che i Ganglians provano a rimescolare le carte, ibridando i propri cliché in maniera curiosa ed abbastanza personale. ‘Jungle’ e ‘My House’ amalgamano opportunamente elettrico ed acustico in bozzetti power-pop sbrindellati e confusi ma a loro modo ironici ed orgogliosi. Anche in omaggio al suo titolo, la bella ‘Sleep’ svela echi dreamy non troppo nascosti (tra organetti e fumose atmosfere) che riportano alle suggestioni e all’arte povera dei primi Beach House con una certa credibilità. ‘Good Times’ torna agli eighties per ostentare l’espansività fiorita dei Cure di ‘Disintegration’, rasentando il plagio ma senza dispiacere: un altro tentativo di smarcamento sulla fascia per i fluidificanti passatisti californiani. Non è poi malvagia la trasandatezza elegante di ‘Bradley’, passaggio “atmosferico” decadente e polveroso, lo-fi per indole, ma assai meno acido di certe stranianti bischerate cui i Ganglians ci avevano abituato. La fiamma naif non si è comunque spenta e Grubbs tiene particolarmente a dimostrarlo. Pezzi come ‘Things To Know’ e ‘The Toad’ sono ancora sufficientemente folli da scongiurare lo spettro dell’omologazione, limitandosi a confinarlo nella buffa copertina. Incrociando soul pop datato e consueti vezzi freak, oppure aprendo squarci radiosi (harpsicord?) quando non ballabili su una trama di tetre ossessioni sotterranee, la compagine di Sacramento si conferma farraginosa e pasticciona ma strappa un sorriso per la sua beata inconcludenza. Le si perdona allora anche il prescindibile indie-rock di ‘Faster’ (qualcuno ha scomodato il garage solo perché sporcizia e velocità sono appena appena più pronunciate), perché in un simile calderone è evidente che anche un dado modesto faccia brodo.
Alla fine della corsa, però, i conti non tornano. Stilisticamente manca un’identità e il disco è forse frenato anche dall’eccessiva attenzione riservata alla forma, più che alla sostanza. Cosa che capitava anche con l’esordio, dove però l’ingenuità rappresentava la spunta in più tra le voci positive. I ragazzi confermano personalità e idee: un vasto potenziale che non basta a salvare ‘Still Living’ da quella classica sensazione di (non disprezzabile) medietà, ma vale comunque come rinnovo tacito della promessa.
In attesa che i Ganglians riescano finalmente ad esprimersi in tutta la loro arrembante vitalità.

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