Month: settembre 2011

Divine Comedy @ Hiroshima                09/12/2010

    

O meglio, “An evening with Neil Hannon”. Ecco il caso di un concerto fuori dall’ordinario e, conseguentemente, di un report non troppo ortodosso. A dire il vero entrambi i momenti mi hanno suggerito una sorta di idea comune, come un filo rosso che li ha legati, ovvero quel senso di comfort che assai di rado capita di respirare nella frenesia del vivere e del raccontare eventi. L’insolita serata con Mr. Divine Comedy si è incanalata prestissimo su questi binari, definendo agevolmente la propria rilassata (ma non svaccata) direzione. Avevo ascoltato i suoi dischi, quindi un’idea abbastanza precisa sul personaggio me l’ero fatta. Eppure l’artista in scena riesce a sorprendere perché stravolge canoni consolidati e sa creare un rapporto speciale con il suo pubblico, sa mettere tutti a proprio agio. In tal senso, probabilmente, andava letto il sottotitolo ufficiale di questo che è stato un vero e proprio spettacolo, con tanto genio tirato a lustro per l’occasione ed una scorta minima di improvvisazione. Per tenere traccia di un concerto elegante e molto particolare come questo di Hannon all’Hiroshima sarebbe stata indicata una forma di cronaca non meno sorprendente, per quanto puntuale e priva di eccessivi ghirigori formali. Fortuna ha voluto che mi godessi l’esibizione del folletto nordirlandese da posizione comoda, privilegiata, una prima fila senza transenne e con il palco ad altezza accettabile per consentirmi di giostrare in perfetta tranquillità tra il ruolo di fotografo, quello di testimone con tanto di blocchetto degli appunti e quello di appassionato di buona musica, placidamente abbandonato ad un metro dal pianoforte e con un bicchiere di vino a portata di mano, gentilmente offerto dall’artista stesso. La recensione di questo bellissimo concerto si è scritta quasi da sola, tratteggiata con la medesima naturalezza dei toni garbati ed ironici del moderno dandy cantastorie in scena, riportando sui tasti del mio portatile le sensazioni grattate a matita sul block notes, arricchite appena da quel minimo di ricamo e spensieratezza.
Andasse sempre in questo modo, la vita sarebbe davvero soffice come un merletto.

0 comment

Il momento giusto

        

“Un saggio una volta disse che la cosa più importante quando si va a una festa è sapere quando è il momento di andare via. Abbiamo costruito qualcosa di straordinario insieme. E ora è tempo di abbandonarla. Spero che i nostri fan capiscano che questa non è stata una decisione facile. Ma tutte le cose hanno una fine e noi abbiamo voluto finire bene, a modo nostro”.

Il momento è arrivato ed è quello giusto, indubbiamente. Le parole sono di Michael Stipe, il suo messaggio di addio ai fan sul sito dei R.E.M., accanto a quelli di Peter e di Mike. Parole semplici, franche, per annunciare lo scioglimento di uno dei più significativi gruppi musicali di sempre. Una comunicazione asciutta e dal taglio friendly che conferma l’unicità di questi artisti, persone normali prima che star. Parole che, nel lasciarmi senza fiato nonostante un esito che avevo facilmente profetizzato, mi hanno ricordato il testo di ‘Camera’, una loro vecchia canzone risalente al 1984: “When the party lulls, if we fall by the side. Will you be remembered?“.
Loro saranno ricordati di certo. Dischi e canzoni provvederanno a lavorare sulla memoria collettiva per tanti anni a venire e per nuove generazioni, come capita a tutti i gruppi o cantanti che sappiano ritagliarsi uno spazio importante anche al di là del tempo effettivamente concesso loro. Ci sono riusciti perché hanno saputo diventare per molti una presenza costante, una compagnia, una colonna sonora tra le poche realmente indelebili, coniugando il successo planetario con un’integrità artistica a dir poco straordinaria. Questo spiega in parte perché godessero ancora oggi di estimatori di lungo corso anche tra i critici e tra gli appassionati di musica indipendente. Quella era la loro provenienza, quello in un certo senso è rimasto il loro DNA fino alla fine, nonostante i contratti milionari con la Warner e le camionate di dischi puntualmente venduti.
Negli ultimi tempi qualcosa non funzionava più come prima. Il recente ‘Collapse Into Now’ è un album abbastanza misero proprio a livello di idee, sconfortante se rapportato al passato (tendenza al declino partita ai tempi di ‘Reveal’, per qualcuno già con l’addio del batterista Bill Berry nel 1997 e con il successivo ‘Up’) ma anche al presente live del gruppo, esaltante fino all’ultimo tour. Probabilmente oltre all’ispirazione si stava perdendo la voglia, e proprio per questo il loro serafico arrivederci impressiona e non può non lasciare con un sorriso. C’é il ringraziamento ai fan, c’é il senso di meraviglia ed appagamento per quanto fatto, non taciuto ma portato in primo piano, sbandierato. E più di tutto il resto c’é la consapevolezza del limite, quella “saggezza” evocata nello stringato ma sincero messaggio di Michael che dovrebbe colpire anche quelli che, a differenza del sottoscritto, non abbiano particolari legami verso la band di Athens. Dignità. Lasciare con dignità, prima di scadere in un circo sempre più fiacco alimentato solo e soltanto dal denaro, dalla propria mercificazione. Un esempio di onestà verso se stessi e verso i propri seguaci che non può lasciare indifferenti, oggi come oggi. Pur avendo abbracciato la fama, i R.E.M. si chiamano fuori con la stessa umiltà con la quale avevano cominciato, avendo poi conquistato un passo alla volta la stima di un così vasto pubblico. Questo loro carattere, anche questa loro esemplare armonia in quanto gruppo, sono gli ingredienti che hanno contribuito in maniera determinante, al pari della loro musica, a renderli così genuini ed ammirevoli, sempre. Una lezione superba, questo scioglimento, per tutti quei colossi ormai vuoti del baraccone musicale che non si schioderebbero dalle scene per nulla al mondo, anche se la loro vena d’oro si è esaurita da quindici, venti o più anni.

La foto in alto l’ho scattata alla fine del concerto di Torino (Palaisozaki) del settembre 2008, l’ultima delle cinque occasioni in cui ho avuto la fortuna di apprezzarli dal vivo (la prima, sempre qui a Torino, nel febbraio del 1995. Ne avevo scritto qui). Credo sia un bel modo per ricordarli, salutarli e ringraziarli. Sinteticamente, perché potendo mi dilungherei e non basterebbe un’intera pagina di questo blog. Quel giorno avevo percepito la loro stanchezza. Erano praticamente alla fine del mostroso tour mondiale di ‘Accelerate’, mancavano giusto un paio di date in Europa e qualcuna in Sud America. Fu un bel concerto, come al solito, anche se loro erano esausti e non lo nascosero dietro la generosità di sempre. Mi erano parsi un po svuotati. Passionali sì, ma quasi per senso del dovere, non più così entusiasti. Uscendo dal palazzetto pensai che quella sarebbe stata l’ultima volta. Mi sentii anche fortunato comunque: averli visti e rivisti lungo quasi quindici anni di viaggio, aver cantato con loro sotto il palco, un po’ come entrare a far parte di un mito e conservarne il lato più umano, l’amicizia.
E’ stato un vero privilegio, ragazzi. Grazie per tutto quello che siete stati, che siete e che sarete.

1 Comment

E la dieta continua…

          

Senza troppa cura per le mode o le strizzatine d’occhio ruffiane a questo o quell’hype, i Fruit Bats proseguono nella loro inclinazione omeopatica offrendo ai fan un nuovo gradevolissimo capitolo della loro ormai ricca discografia. Guardando all’interlocutorio predecessore ‘The Ruminant Band’, tassello di apertura per questa originale e radicale tendenza alla semplificazione, si sarebbe anche indotti a parlare di felice approdo, visto che – anche senza lasciare tracce straordinarie – il nuovo ‘Tripper’ ha in sé una compiutezza che al traballante (ma non malvagio) quarto episodio mancava per più di una ragione. Ha senso descrivere il gruppo di Seattle come felicemente assestato sulle nuove posizioni, anche se il titolo stesso di questa nuova fatica non consente di sciogliere tutte le riserve e lascia intuire che la band sia ancora in viaggio, alla ricerca di una sua identità più definita e limpida. Un passo avanti comunque Eric Johnson e soci sembrano averlo compiuto, e poco importa se non siamo proprio sui livelli di ‘Mouthful’ o ‘Spelled In Bones’: forse la vena non è più esaltante come una manciata di anni fa, forse semplicemente questi ragazzi non hanno più molto da dimostrare in un ambito espressivo nel quale sembrano aver già detto e fatto il possibile, preferendo ora far slittare la loro inconfondibile arte verso territori paralleli, non distanti ma nemmeno così accessibili (e prevedibili, in fondo).

Almeno in parte ideato come un concept, il disco scopre le carte nell’eloquente brano d’apertura ‘Tony The Tripper’, introduzione per l’eroe ed ispiratore della vicenda (personaggio reale incontrato da Johnson) ma anche passaggio emblematico per una cifra espressiva ormai disinvolta e consapevole. La linea è quella di una continuità marcata con le tonalità flou del precedente lavoro, con il profilo pacato, i toni soffusi e trattenuti da tenue acquerello che pure non soffocano il calore un tempo coltivato con vivo entusiasmo. Ancora una volta il senso di meraviglia traspare, parco ma genuino, in questi motivetti semplici semplici, apparentemente senza troppe pretese eppure gentilmente insinuanti nel loro candore easy mai banale, con la voce inconfondibile di Eric (di quelle che, a seconda dei gusti, risultano deliziose o fastidiosissime) ad imprimersi come più rilevante dei tratti anche quando la veste è disadorna, sfuggente (‘Wild Honey’, molto bella). Si confermano e si affinano il retrogusto nostalgico (‘Shivering Fawn’) e quel piacere nell’estetizzazione non di maniera, le melodie congelate in un passato elegante illuminato da un sole bianco e freddino, terso (‘So Long’, sorta di manifesto dei nuovi Fruit Bats).

Al di là di un impianto ormai consolidato, l’estrosa squadriglia Bats mostra comunque di voler tentare soluzioni diverse e nella parte centrale del disco infila una tripletta di titoli in parte anomali: la frivola (ma ironica) ‘You’re Too Weird’, illuminata dal falsetto e da un assolo di chitarra che non si potrebbe immaginare più sobrio, la vivace ‘Heart Like an Orange’, movimentata dalle spruzzate di synth, da un sottile tappeto percussivo e da una scorta corale radiosa, ed il gioiellino pop minimale di ‘Dolly’, ancora oltremodo asciutto ma impreziosito da un refrain di quelli contagiosi sul serio (con effluvio di tastierine). Trova anche il tempo per chiudere i giochi con una canzone troppo vecchio stile per non far palpitare gli estimatori della prima ora, estroversa ma quieta, in acustico. Questo in sintesi il quinto album di una band destinata a non scalare vette e a non pubblicare capolavori assoluti, ma onesta e tutto sommato libera dai condizionamenti dell’industria più cinica e spregiudicata. Un piccolo disco, con canzoni poco appariscenti, che riesce senza troppa fatica a farsi ricordare grazie al suo garbo d’altri tempi, molto piacevole. Oggi come oggi, un risultato da non disprezzare.

0 comment

False Priest

         

C’é stato un periodo lungo nel mio recente passato durante il quale ho amato abbastanza intensamente Kevin Barnes e gli Of Montreal. Quella fase si è conclusa, e non certo perché siano nel frattempo cambiati i miei gusti (cosa pure vera ma nello specifico non determinante). E’ la band di Athens ad aver definito una sterzata tutto sommato radicale, e coraggiosa, rimescolando quindi le carte ed influenzando di conseguenza le mie opinioni. Dopo l’ottimo ‘Hissing Fauna’, già un lavoro di svolta tra gli eredi dei loro migliori titoli (dal beatlesiano ‘Cherry Peel’ a ‘The Gay Parade’ e ‘Satanic Panic in the Attic’), con il pasticciatissimo ‘Skeletal Lamping’ li ho persi. Avevo ipotizzato si trattasse semplicemente di una boiata passeggera, della classica buccia di banana, e in tal senso ‘False Priest’ ha rappresentato la speranza di una rinnovata infatuazione. Speranza vana però, nonostante molte premesse fossero lusinghiere. Intanto per il ritorno in scena delle chitarre, cooptate senza troppe complicazioni virtuosistiche in un quadro power-pop assai marcato e dalla curiosa vena modernista. La partenza del disco è apprezzabile e tutto sommato contagiosa, merito anche della presenza magnetica di un ospite straordinario come Janelle Monáe. Certo ci sono gli eccessi, le ibridazioni sfrontate, il doping di saccarosio e la consueta guazza kitsch di un autore per forza di cose fuori dal comune. Il lato B tradisce però anche quanto di buono suggerito in precedenza, lasciando Barnes libero di accatastare i suoi paradossi dance-glam senza più alcun criterio, frastornando l’ascoltatore con un mix di fracassi, barocchismi senz’arte né parte e melassa pop sintetica davvero indigesto. Non ci si salva. Ci si rattrista semmai, perché la band è chiaramente arrivata al capolinea delle idee e nuota beata in una maniera che non si potrebbe immaginare più scadente. Da poco è uscito un nuovo EP intitolato ‘The Controller Sphere’ che in parte sembrerebbe in grado di invertire il corso di questa rovinosa involuzione. Non abbastanza per farmi cambiare opinione un’altra volta. Un segno dei tempi? Domani il carrozzone variopinto di Barnes e soci farà tappa a Milano. So che dal vivo rendono molto e non posso nascondere che in passato stavano nelle posizioni di vertice della mia wishlist per i live ancora non visti. Ma la mia passione per loro è sbiadita. Nelle stesse ore sarò al cortile della Farmacia per i Sic Alps o alla Sala Espace per i deliri siriani di Omar Souleyman, il nuovo cocco di Bjork. E tanti saluti.

0 comment