Month: luglio 2011

Woodpigeon Secret Concert @ Aré di Caluso (TO) 24/07/2011   _Il nostro (altro) concerto

       

Per una volta giocare d’anticipo è doveroso. Non solo in via generale, parlando di un live di appena cinque sere fa, ma anche nello specifico dell’artista in questione, il sempre più adorabile Mark Hamilton aka Woodpigeon. Avrei dovuto scrivere del suo meraviglioso concerto in solitaria al Circolo Esperia di Torino, giusto pochi mesi fa, ed è certo che dopo le ferie non mancherò di farlo. Quella serata magica, tirata su come dal nulla dalla disponibilità del cantante canadese ma soprattutto dal superbo lavoro organizzativo di uno straordinario ragazzo mio concittadino, Roberto Balocco, resta per il sottoscritto tra i ricordi musicali più felici e preziosi degli ultimi anni, non solo per la qualità della performance ma proprio per l’unicità della sua atmosfera intima e festosa al tempo stesso, in una venue insolita e con un pubblico finalmente all’altezza. Brucio le tappe recuperando invece questo concerto “segreto” della scorsa domenica, in cui il cast si è confermato il medesimo così come i piacevoli risvolti, a riprova che gli house concert possono essere incredibilmente belli e coinvolgenti (a patto che passione ed amicizia vengano prima di tutto il resto). Mark è pazzo di Torino. Ci si è trovato benissimo nel marzo scorso ed ora è tornato da turista portandosi dietro i genitori. Nonostante il clima molto più rilassato che nel recente tour europeo, Mr. Woodpigeon non ha comunque rinunciato ad offrire ai suoi fan italiani un nuovo evento speciale. Roberto Balocco did it again, ebbene sì! Il grafico di casa Elyron che già si era speso così tanto e che aveva lavorato per Woodpigeon curando la copertina del mini-album ‘Fra Le Nuvole’, ha organizzato in brevissimo tempo una seconda serata aggregativa per Hamilton, che si è svolta in provincia questa volta, in un piccolo ed accogliente caseggiato nelle campagne di Caluso, la città dell’Erbaluce. Inutile rimarcare che tutto è andato al di là delle più rosee previsioni, l’avrete già intuito. Cornice rustica e calorosa, tanta gente alla mano, un aperitivo gargantuesco per ingolosire e viziare i presenti e poi la chitarra e la voce di Mark, solo per noi. In previsione di un pubblico per buona parte già presente nel salone dell’Esperia, il buon Roberto deve aver “stressato” Hamilton a sufficienza pregandolo di non replicare il pur avvincente spettacolo della volta scorsa. Preghiere soddisfatte, perché Woodpigeon ha stravolto la scaletta torinese (ed anche quella di pochi giorni fa a Friburgo, che a giudicare dal suo quaderno doveva essere molto simile) recuperando brani eseguiti assai di rado ma assolutamente straordinari (come una delle sue canzoni che preferisco, ‘Anna, Girl in the Clocktower’, o ‘My Denial in Argyle’) e regalando la bellezza di cinque inediti di prossima pubblicazione, molto diversi tra loro. Davvero niente male il pezzo più spigliato (indicato sul quadernetto come ‘Edimburgh’), quello dal titolo stranissimo che racconta di laghi, tuoni e corvi (‘Ohkoonii’), e la splendida, delicatissima ninnananna che ha chiuso il set. Bis a parte (dove Roberto Necco ha nuovamente affiancato Mark con il banjo), solo una conferma rispetto al precedente live, ma di quelle eccelse: ‘Entanglement of Weeds’, l’episodio più bello e toccante di ‘Balladeer’, al solito vivacizzato dai virtuosismi ritmici creati ad hoc da Mark giocando con il pedale del delay. Finale entusiasmante con la dylaniana poesia di ‘Rambler, Gambler’, poi tutti in coda per una stretta di mano o una dedica sul poster omaggio della serata. Un nuovo incontro speciale che non resterà ancora a lungo l’ultimo della serie. Il rossobarbuto ha già annunciato un’ulteriore visita da queste parti a metà settembre, forse in compagnia della violinista del gruppo, Foon Yap. Garantito al limone che grazie all’infaticabile “Graficone” la regola del “non c’é due senza tre” sarà favolosamente onorata.

SETLIST: ‘Woodpigeon vs Eagleowl (Strength in Numbers)’, ‘My Denial in Argyle’, ‘Anna, Girl in the Clocktower’, ‘Empty-Hall Sing-Along’, ‘Still in Love With You’, ‘Piano Pieces for Adult Beginners’, ‘Pine Bluff’, ‘Ohkoonii’, ‘Entanglement of Weeds’, ‘Edimburgh’, ‘Lullaby (Asleep & Dreaming)’; ENCORE: ‘Enchantee Janvier’, ‘Spirehouse’, ‘Rambler, Gambler’.

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New Raytheonport

         

Per quanto io non vada pazzo per le generalizzazioni, credo di poter affermare che quanto scritto a proposito di questa prima raccolta di canzoni a firma Greg Dalton, aka Gary War, possa valere a grandi linee per l’intero movimento chill-wave, almeno nella sua fase iniziale. Preparando il pezzo ho provato ad ascoltare anche brani di altri autori generalmente incasellati nella medesima scena, senza restarne chissà quanto impressionato, tutt’altro. Certa critica è andata in solluccheri per i vari Neon Indian o Memory Tapes, riuscendo nell’impresa di dare il peggio di sé con le etichette, arrivando a battezzare questa limitata corrente musicale con formule quanto meno ardite tipo “pop ipnagogico” o “gli-fi”. La moda è durata però assai meno del previsto, anche se sono convinto che gli avveduti scribacchini d’oltreoceano sapranno tuffarsi a pesce su qualcosa di simile ed inedito nei prossimi mesi. Mentre gli ultimi fortunati strascichi vengono regalati dal più recente Toro Y Moi, il discreto ‘Underneath The Pine’, e dal celebrato esordio dell’ennesimo micromessia, Ernest Greene aka Washed Out, il giocattolo probabilmente si è già inceppato e la noia comincia a contagiare anche i più frizzanti “integrati” di ieri. Venendo allo specifico di ‘New Raytheonport’ non credo ci sia nulla di sostanziale da aggiungere rispetto a quanto scritto nella recensione: a quasi due anni di distanza non mi è rimasto praticamente nulla. C’erano alcune buone intuizioni, sia chiaro, ma il fatto di averle sistematicamente deviate con espedienti stilistici sempre alquanto posticci credo abbia indebolito le canzoni anziché enfatizzarne i pregi. Come sempre quando si puntano tutte le fiches sulla forma più che sulla sostanza, il senso di artificio calcolato mi risulta alquanto indigesto. Tra noise e bassa fedeltà, paccottiglia sintetica ed astrazioni space, rancidume psych ed elettronica povera, resta il fascino pallido di qualche passaggio riuscito ma anche una generale impressione di elusiva fumisteria. E’ significativa anche la tentazione per una deriva sperimentale giocata sulle dilatazioni reiterate, come già negli Swans o nei Six Organs of Admittance, anche se all’avveduto Dalton manca il genio dei Gira e dei Chasny. Il risultato è un lavoro informe, sfuggente e volutamente contraddittorio, mai davvero brutto e mai davvero convincente. Un po’ come l’intero movimento, per quanto mi riguarda. Una scuola – se proprio ci vogliamo sforzare a definirla così – che forse arriverà a chiudere i battenti senza che io abbia avuto modo di capire cosa diavolo significa la parola “ipnagogico”.

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La fine della strada                                        _Letture

       

Sentimenti contrastanti dalla lettura di questo romanzo dello statunitense John Barth, uno dei più apprezzati autori del genere postmoderno tra anni sessanta e settanta, qui ancora (per la seconda ed ultima volta) alle prese con un registro narrativo equilibrato e per così dire “realista”, nel racconto del più classico dei triangoli amorosi. Per quanto scritto in maniera notevole, ‘The End of the Road’ si fa ricordare più per il suo carattere discontinuo e per i troppi sofismi (oggi, forse, davvero fuori tempo massimo) che non per la reale efficacia del racconto. Il protagonista è indubbiamente di quelli memorabili. Dalla prima pagina siamo spinti a vivere e pensare con lui, a patire le sue umorali ossessioni, anche se una piena condivisione è volutamente impossibile: è brutale nella sua logica iperbolica Jacob Horner, ma anche eccessivamente insofferente a tutto, spietato e sgradevole per suscitare vera simpatia, fino in fondo. Proprio in lui comunque risiede la modernità di un libro che per altri aspetti si porta molto male i suoi cinquanta e passa anni, che convince solo quando sterza bruscamente o comunque quando sembra assumere una posizione definitiva, in un senso o nell’altro, proprio come il letargico Jacob. Le incertezze, le acque stagnanti nella narrazione, potevano essere una cifra interessante quando il romanzo uscì (1958) ma oggi credo rendano davvero troppo difficoltosa la lettura. Col senno di poi, meglio forse dedicare quel poco tempo a ‘Giles Ragazzo-Capra’ o ‘Lost in the Funhouse’, due romanzi dello stesso autore che hanno profondamente influenzato, tra gli altri, un giovane di nome David Foster Wallace.

Trentenne senza grandi titoli o particolari esperienze alle spalle, Jacob Horner è l’oscuro protagonista di questa lunga parabola sullo stallo esistenziale e sulla mania, uno sgradevole e memorabile antieroe la cui unica vera scelta, per quanto non pienamente consapevole o comunque non motivata, segnerà amaramente il destino delle due persone a lui più legate. Contraddistinto da una tendenza all’immobilismo decisionale prossima al patologico, per la quale è in cura presso uno strano medico (un po’ psicanalista e un po’ guaritore, sospetto ciarlatano), è lui stesso a confessare al lettore come tra le sue qualità “meno fortunate” vi siano la timidezza, la paura del ridicolo, l’inclinazione per le sciocchezze di ogni genere ed un’incoerenza quasi completa. Facile immaginare da questi pochi dettagli come il taglio conferito da Barth ai resoconti scritti del giovane Horner sia prevalentemente comico: al di là dei momenti di calma piatta, le allucinanti giornate “senza umore”, senza personalità e con la mente vuota “quanto uno spazio infrastellare” (o occupata solo dallo slogan di una vecchia reclame della Pepsi, il “monoscopio della mia coscienza”), Jacob rivolge gli strali della sua feroce ma lucidissima ironia non solo verso i propri sbalzi emotivi ma anche e soprattutto verso il prossimo, senza mai celare l’insofferenza per l’anonima vita nella provincia del Maryland, dove si è trasferito per insegnare grammatica prescrittiva e trovare una soluzione ai propri problemi. Mentre ogni tentativo di socializzazione nella piccola comunità di Wicomico sembra destinato a naufragare a causa della sua inossidabile ritrosia (emblematico il rapporto con la professoressa frustrata), per contrasto Jacob intreccia un legame sempre più intimo ed ambiguo con il collega Joe Morgan e con la moglie di questi, Rennie, andando a scardinare quasi a cuor leggero nella donna gli equilibri delicatissimi di una implicita quanto assoluta sottomissione psicologica nei confronti del marito. Al culmine dei reiterati frangenti descrittivi che tengono traccia di questa progressiva complicità, penalizzati forse dall’eccessiva pesantezza “strutturale” di un racconto che sembra per lunghi tratti girare a vuoto, l’adulterio è narrato senza enfasi e senza morbosità come in campo lungo, ed è a quel punto qualcosa di atteso ed inesorabile: uno degli anelli di una catena che non potrà non condurre al dramma finale, anch’esso preventivato ma ugualmente scioccante. Quelle della seconda parte sono forse le uniche pagine realmente avvincenti di tutto il romanzo, con la stabilità emotiva certosinamente costruita nei primi capitoli stravolta a più riprese in un vortice di reazioni via via più fosche (dalla coscienza avvelenata di Rennie ai rimorsi fin grotteschi di Jacob e l’affascinato disgusto di Joe), ed il protagonista finalmente spinto all’azione in un’imprevedibile maratona di menzogne ed espedienti disperati, come a volersi finalmente meritare quella dignità esistenziale che Barth, sistematicamente, si premura di negargli. Il finale è crudele perché svela come questa illusione sia in fondo ineluttabile, lasciando Horner tristemente irrisolto e rifiutando al lettore il comodo appiglio di un’identificazione in qualche modo consolatoria o positiva. Nonostante lo stile asciutto e numerosi spunti anche divertenti (su tutti l’esilarante e amara farsa nelle prime lezioni di Jacob come insegnante di liceo), il romanzo non riesce a superare il precedente (e per molti versi analogo) ‘L’Opera Galleggiante’, che era senz’altro più autentico e sanguigno, finendo qua e là con l’arrancare: una raccolta di elaborate elucubrazioni di taglio filosofico, psicologico e sociologico, ma in fin dei conti anche un prolungato (e mai davvero appassionante) esercizio teorico, una riflessione scritta benissimo ma eccessivamente studiata a tavolino, inutilmente sofistica, troppo rigorosa ed asettica per emozionare.

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Woven Hand  @ Spazio211      01-12-2010

 

E' stato uno dei più bei concerti cui ho avuto la fortuna di assistere negli ultimi anni, e in fondo non poteva essere altrimenti. La prima volta con David Eugene Edwards, artista assoluto, è stato un evento atteso veramente a lungo, diciamo da quando uscì 'Secret South' dei Sixteen Horsepower e fu subito colpo di fulmine. Nonostante gli anni trascorsi, nonostante il cambio di ragione sociale, pare davvero difficile che i primi live del cantautore-predicatore del Colorado potessero essere più incendiari di quello che ha fatto tuonare le misere pareti di Spazio quella sera di inizio dicembre. Un concerto magnetico, come prevedibile tenendo conto della vibrante natura del personaggio. Con meno misticismi esotici che tra le pieghe della sua più recente fatica, il notevole 'The Threshingfloor', ma con quella sua titanica verve da asceta a tutto tondo che con gli anni sembra non solo non essere sbiadita ma, se possibile, aver corroborato la propria fibra. Canzoni potenti suonate con piglio viscerale, trasfigurate nell'interpretazione tellurica di un maestro lontano dalle pose e dalle mode, autentico nella sua devozione e nel suo credo ferreo, ma anche straordinario musicista tra folklorismi acustici ed elettricità rock desertica. Ho amato il Cave più arido e pungente ed il Lanegan torrido delle 'Field Songs', non mi perdo un passaggio di Howe Gelb e dei suoi Giant Sand perché sono una benedizione in musica. Ma in questo stesso terreno Edwards è superiore a tutti loro perché – davvero – sul palco porta semplicemente se stesso ed è spettacolo puro. Un po' pastore infervorato, un po' nativo americano in continua trance, musicalmente lucido ed inesorabile. Il suo stile riconoscibilissimo si è imposto al di là di una performance perennemente sopra le righe ma al tempo stesso asciutta, anti-macchiettistica, e ha travolto tutto ciò che ha incontrato: le nostre potenziali resistenze in primis, ma anche l'altro da sé, cannibalizzato ed assimilato con strabiliante naturalezza. Penso alla fantasmagorica cover dei Joy Division che ha aperto le danze e poteva tranquillamente essere scambiata per un pezzo scritto da lui nel pomeriggio, un lampo espressionista in perfetto Gotico Americano. La grandezza di un artista la si intuisce anche da dettagli del genere. In abbinata, l'ottimo lavoro della band – la stessa che lo accompagnava ai tempi dei 16Horsepower, immaginatevi l'intesa – ed il pregevole contributo del set introduttivo di un paio di musicisti folk greci, decisamente a loro agio nel clima sonoro delle canzoni più recenti a marchio Woven Hand. Serata di quelle indimenticabili quindi, per approfondire la quale rimando al live report e alla galleria di immagini raggiungibili dalle foto in alto.

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Write About Love

 

Il pezzo dello scorso ottobre per Monthlymusic è stato un esperimento. Ero partito ovviamente con le migliori intenzioni e avrei scritto la solita mezza paginetta ad ampio raggio, anche retrospettivo, non mi fossi imbattuto in un disco invero deludente come questo. Arrivavo da un trimestre di recensioni per forza di cose orientate al passato e non troppo lusinghiere, per cui un'alternativa mi è parsa necessaria. La soluzione è arrivata dal titolo stesso di questo settimo LP della band scozzese, traducibile senza separazioni con la frasetta "I Belle and Sebastian scrivono a proposito dell'amore". Ho recuperato tutti i testi delle canzoni pubblicate dal gruppo di Glasgow tra il 1996 ed il 2007. Ho estrapolato qualche succoso stralcio sul tema, anche solo un'istantanea suggestiva, e con un minimo di ardito taglia&incolla ho plasmato una sorta di vaporosa polifonia – in realtà un dialogo – con le loro stesse parole. Da un lato l'anima romantica, dall'altro quella nihilista ('I Don't Love anyone' il paradigma), come facce contrapposte della stessa medaglia. Il risultato, me ne rendo conto, si è rivelato molto meno soddisfacente della preparazione e del giochino in sé, ma d'altro canto ridurmi ad analizzare 'Belle & Sebastian Write About Love' con gli strumenti soliti sarebbe stato anche meno edificante. Per parlare di loro guardando indietro, spiegando magari come e perché ne sia uscito così influenzato, c'é sempre la possibilità di una scheda appositamente dedicata su questo blog: riascoltare i loro vecchi dischi è sempre una piacevolissima attività, per cui non escludo di farlo, magari anche in tempi brevi. Per l'album in questione è invece più che sufficiente questo post. Anche a diversi mesi dall'uscita c'é ben poco che mi senta di salvare. La copertina per esempio, ennesima fotografia di ragazza pensosa in seducente tinta monocroma (rosa a questo giro, ma quella in bianco nero, poi scartata, mi piaceva decisamente di più). Tra le canzoni qui raccolte un paio sono buone: la graziosa title track, la cui freschezza suona ancora sincera, poco artificiosa, e l'ordinaria amministrazione gradevolissima di 'Ghost of Rockschool', dalle melodie in realtà risapute ma premiate nella loro pacatezza dopo la pacchiana frenesia di 'I'm Not Living in the Real World'. Ecco, quest'ultima è realmente terribile, mi lascia indeciso tra il "deprimente" e l'"irritante", coi suoi coretti osceni, la sua odiosa melassa e quella overproduzione che da ai nervi. Il resto si colloca tra i due estremi: troppo poco considerando che gli up sono in realtà passaggi di medio livello. Discreto mestiere e buone sfumature quando Sarah Martin convince ('I Can See Your Future') o tono umilissimo da riempitivo quando non entusiasma ('I Didn't See It Coming'); il decente compromesso tra vecchio e nuovo stile, con veste maliziosa ma un po' stucchevole ('I Want The World To Stop'), essenzialità che affascina ma senza che ci si strappi le vesti ('Calculating Bimbo'), il manierato synthpop iperglassato di 'Come On Sister' – non particolarmente indicato per quelli che come me non abbiano amato lavori tipo 'The Life Pursuit' o 'God Help The Girl' – e poi ancora un duetto con Norah Jones a dir poco inutile (in 'Little Lou, Ugly Jack, Prophet John', esangue) ed un paio di altre insipide minestre riscaldate. Che sia abbastanza per scrivere che i ragazzi sono bravi, ma non si applicano, pare evidente. Raccontare i Belle & Sebastian oggi, in fondo, non è meno facile di quando non si poteva che magnificarli. Forse però le sbrodolate erano meglio delle tirate: non si correva il rischio di passare per snob, o antipatici, e poi c'era tanta buona musica di cui parlare. Altri tempi.

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L'uomo che cade               _letture

 

Devo ammettere che non ho avuto troppa fortuna approcciando DeLillo con il suo penultimo romanzo. Chi ha magnificato l'autore americano sicuramente biasimerebbe la mia scelta, ma io ho voluto saggiare con un'opera recente quanto il famosissimo scrittore possa essere indispensabile anche alle prese con la cronaca più cruda ed attuale. Impresa impervia la sua e tentativo che non convince. Dopo le prime trenta o quaranta pagine ero conquistato. Che non si tratti di uno scribacchino senza ragion d'essere, a differenza di tanti altri osannati romanzieri, mi è parso evidente. Ma questo 'Uomo che cade' ha dimostrato molto presto di non sapere – forse addirittura di non potere – mantenere le promesse. Ha iniziato a ripetersi, ad accartocciarsi su se stesso e, cosa peggiore, a lasciarmi via via sempre più freddo e distante. C'era la curiosità di vedere come sarebbero andate a finire certe vicende, ma la loro prevedibilità ha fatto sì che ad un certo punto non vedessi l'ora di arrivare all'ultima pagina. Non proprio edificante come sensazione, quando un romanzo è anche scritto molto bene. A questo punto servirà far passare solo un po' di tempo, poi vedremo come stiamo messi con 'Underworld', 'Rumore Bianco' o 'Libra'.

 Chi è l’uomo che cade? Solo un artista performativo dalla “franchezza terribile”, appeso a testa in giù per mezzo di un imbragatura ed ispirato allo sfortunato soggetto della più celebre fotografia dell’undici settembre, intento a rinnovare la messinscena dell’umana disperazione trattenendo “lo sguardo del mondo”, trascinando con sé un “terrore collettivo”, come immagina Lianne, protagonista del libro, dopo averlo incrociato in un paio di occasioni? O è più plausibile che l’appellativo vada riferito al marito di Lianne, Keith, scampato per un soffio alla tragedia delle Twin Towers e dopo quel giorno precipitato in un buco nero dei sentimenti, completamente svuotato e alla deriva. ‘Falling Man’ è di fatto un romanzo sulla perdita. Non tanto o non soltanto sulla morte, quanto piuttosto sulla fine delle certezze, sulla privazione di ogni orientamento, e non c’è dubbio che nella sua parabola discendente Keith abbia una valenza simbolica fin troppo facile. Anche Lianne è vittima della stessa angoscia e dello spaesamento dovuti ad una frattura epocale, che è psicologica oltre che storica e politica: “Che cosa ci riserva il futuro?”. “Non ci riserva niente, il futuro c’è appena stato”, chiosa sua madre. Uno smarrimento non dissimile rispetto a quello dei pazienti malati di Alzheimer da lei frequentati nella sua attività di volontariato, condannati dall’incedere progressivo ed inesorabile dell’oblio e del male, in cui Lianne rivive lo stesso dramma vissuto dal padre alcuni anni prima.
Inchiodato dalla cruda realtà della cronaca, DeLillo scrive forse l’opera più distante dalle fascinazioni del postmoderno non riuscendo ad evitare a vicende e personaggi di cadere in qualche luogo comune di troppo legato alla più grande tragedia americana, ancora troppo recente – forse – per essere affrontata a mente fredda e senza alcun condizionamento. Non era facile, gli va dato atto, ma forse non era nemmeno necessario. L’avvio è notevole. DeLillo dosa meravigliosamente pause e tempi morti, arricchendo la narrazione con dettagli di realismo marginale, facendo assaporare i dialoghi affilatissimi tra i protagonisti (compresi Nina e Martin, rappresentanti di un’altra generazione) e tratteggiando al meglio le vite “in transizione” dei due coniugi nella loro ricerca di segni, della possibilità di sprofondare nelle proprie nuove piccole vite senza più conflitti, senza più gli attriti quotidiani dietro ogni parola o ogni respiro. Sono resi benissimo sia la riservata conflittualità interiore di Lianne, nel suo disperato bisogno di essere con tutti all’altezza della situazione, sia l’inespressivo sconcerto del marito nelle pagine magistrali del ritorno all’appartamento in cui abitava e giocava a poker con i colleghi. E’ il racconto di un’illusione chiamata a rimpiazzare sogni più classici spazzati via dal presente e destinata a durare anch’essa molto poco. Mentre sembra poter concretizzare il silenzioso miracolo di un matrimonio risorto dalle ceneri fumanti del World Trade Center, Keith si scontra con un’altra solitudine rischiarata dal medesimo dramma, Florence, ed instaura una relazione extraconiugale (“ciò che le serviva di lui era la parvenza di calma, la capacità di monitorare il livello della sua angoscia”) la cui fine è comunque annunciata da un nuovo e più oscuro baratro. Dopo la promettente partenza l’azione viene congelata, le riflessioni ristagnano e si impone l’inerzia di una rinnovata routine emotiva. Con essa a farla da padrona è la noia e nemmeno la qualità di DeLillo può riscattare il romanzo dalle secche di un rigido inverno americano, dal suo girare a vuoto come nelle invettive sempre più opache di Martin, uomo scolpito nel rimpianto, individuo fuori posto, confuso, “smarrito nel tempo” come una cattiva coscienza critica ormai inappropriata (un po’ come, nell’economia del libro, le velleitarie istantanee dell’apprendistato jihadista e del martirio di Hammad, risvolto della medaglia della follia contemporanea). Quella impersonata da Keith, attore cruciale per la rovinosa assenza di reazioni, è in fin dei conti un’umanità svuotata, insensata, che nella tragedia non ha trovato né forza, né orgoglio, né (a differenza di Lianne, unico personaggio almeno in parte positivo) quel bisogno di conferme o sicurezza, ed ha raccolto al contrario lo spunto per inabissarsi in un’alienazione fredda e del tutto priva di scopi. Anche per questo ‘Falling Man’ è un romanzo realmente pessimista, disperato quasi, e non lascia spazio ad alcuna consolazione.

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Badly Drawn Boy  @ HMA      10-11-2010

 

Ecco, la serata con Damon Gough e le sue canzoni non era esattamente tra quelle per cui avrei perso il sonno, non negli ultimi anni almeno, ma l'esito del suo concerto all'Hiroshima Mon Amour è stato comunque dei più felici e devo confessare che ne ricordo i dettagli con una certa vividezza, segno che nel suo lungo evolversi si è trattato senza dubbio di uno show apprezzabile. Il "ragazzo mal disegnato" aveva rappresentato una alternativa molto carina nell'ambito folk-pop britannico quando uscì 'The Hour of the Bewilderbeast', ormai un secolo fa, e sull'onda lunga di quel pregevole primo album ho comprato qualunque cosa Gough pubblicasse nel lustro seguente. Poi la ripetitività della formula, unita ad un certo appannamento (non grave comunque), mi hanno stancato e allontanato da lui, anche se quella generica simpatia di fondo non è mai venuta meno. L'ascolto del disco nuovo, celebrato in questo suo tour del decennale, non è stato proprio dei più entusiasmanti, anche se alcune delle qualità del Badly Drawn Boy classico si sono evidentemente rinnovate anche nelle più recenti registrazioni. In nome dei generosi ascolti dei vecchi tempi ho scelto comunque di non mancare, conscio – come nel caso dei Turin Brakes – che Gough appartiene a quella schiera di artisti osannati dalla critica il primo giorno e poi rapidamente ripudiati (si vedano certi votacci – a dir poco ridicoli – su Pitchfork), in entrambi i casi molto sommariamente: anche questo particolare ha contribuito ad alimentare in me una sorta di solidarietà (non pelosa) nei confronti del cantante inglese convincendomi a non mancare. In tanti lo davano per finito da un pezzo: argomento sufficiente per verificare di persona. Non avevo la minima idea del suo caratteraccio, più che altro della sua luna inquieta in sede di concerti. Aver letto qualche live report sul suo conto con alcuni anni di ritardo, scoprendo di certe scenate, di canzoni interrotte di brutto o eseguite in maniera terrificante, un minimo di preoccupazione me l'ha trasmessa. E l'avvio della sua esibizione, effettivamente, pareva orientare l'intera serata in quella direzione anche se…beh, per la cronaca dell'evento c'é il mio report su indie-rock.it, raggiungibile come sempre dalla prima foto in alto. In aggiunta ad esso posso solo concedermi una chiosa, confessando che da quasi otto mesi il mug del ragazzo mal disegnato mi fa compagnia tutte le mattine, a colazione. Non so se dipenda o meno da esso, ma l'umore si mantiene sempre generalmente buono.

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