Month: marzo 2011

Cabot Wright Ci Riprova    _letture

 

Ed ecco appunto Cabot Wright. Di nuovo, come in 'Malcolm', un personaggio ideato per restare nella memoria eppure astratto, vaporoso, eternamente sfuggente. Di nuovo una figura che è un concentrato di allusioni, un assortimento di sirene simboliche, e che si conferma alla prova dei fatti non troppo agevole da decifrare. E' sicuramente d'aiuto un finale in cui è resa evidente, nel protagonista di questo romanzo del 1965, la voce quasi da profeta di un James Purdy di molto in anticipo sui tempi nella tabella del disincanto. Proprio come era stato in 'Malcolm', raccontando per iperboli grottesche l'anticonformismo destinato a rivelarsi esplosivo solo qualche anno più tardi. Rispetto all'esordio tuttavia qui c'é molta più consapevolezza, un controllo della materia narrata – decisamente autobiografica visto il ruolo centrale del mondo editoriale e letterario di quegli anni – sufficente a preservarlo dal rischio di scivoloni nel grossolano e nel semplicistico. Non di una banale burla si tratta, ma di un affondo feroce nei confronti di una controcultura emersa con il trionfo del capitalismo e dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Più freddezza asettica, meno cuore rispetto ad un testo toccante come 'Il nipote', ma non meno sincerità dietro questo grido di dolore di un americano colto e disorientato. Gustoso per certi memorabili e spietati ritratti, convincente come analisi originale su temi spesso banalizzati quali l'identità, la parzialità di ogni prospettiva soggettiva, il ruolo dell'intellettuale nella società. Anche il titolo italiano è prezioso, racconta la volontà di riscatto di un personaggio in cerca di se stesso attraverso il giusto autore (decisamente meglio di quello della prima pubblicazione Einaudi, 'Un Ignobile Individuo', del tutto inopportuno). Ancora una volta, come negli altri due libri di Purdy che ho qui citato, risulta cruciale il ruolo dello scrivere, del fissare la (propria) verità su carta, del tramandarla. Intento vano, forse, in anni in cui la dimensione visuale ha preso il sopravvento su quella verbale – così come la televisione sulla radio o sulla stampa – e l'apparire ha schiantato la sostanza dell'essere. Vano, dicevo, ma pur sempre nobile ed in fondo benefico, soprattutto per chi scrive: per Malcolm, che vuole regalare alle proprie avventure il giusto spazio perché vengano ricordate; per Alma, alle prese con il memoriale del nipote per affrontare il dolore di una perdita e lasciarselo alle spalle; per Cabot, intento a definire una volta per tutte il proprio passato per potersi riscrivere un domani; ed anche per Purdy, che evidentemente amava così tanto la letteratura da metterla in discussione, per salvarla. 

Bernie Gladhart, omuncolo iper-nostalgico ritratto dal suo autore con delizioso accanimento, è un aspirante scrittore ambizioso quanto mediocre e di eloquenza “piuttosto limitata”. Per la moglie Carrie, porta dentro di sé un grande libro destinato al grande pubblico, ma a mancargli è l’argomento. E’ proprio lei a fornirgli un soggetto valido in Cabot Wright, eroe della cronaca nera di qualche anno prima, condannato alla galera per centinaia di stupri e da poco rilasciato dopo aver scontato la propria condanna. Incoraggiato dalla donna che ha già pronto un valido rimpiazzo amatorio, Bernie si trasferisce a Brooklyn – l’”ano del cosmo” – sulle tracce di Wright, lo incontra addirittura nei panni del tranquillo vicino di casa e scrive un ampio manoscritto rifacendosi agli articoli sulle riviste e alle cronache giudiziarie. Assunta dallo stesso editore di Gladhart e con il medesimo incarico, la sua conoscente Zoe Bickle propone all’ex maniaco di rielaborare a quattro mani il testo di Bernie. Lei mira a trarne un prodotto vendibile, mentre per lui è l’occasione buona e forse definitiva per fare chiarezza nel proprio nebuloso passato e ritrovarcisi, alla fine (“Ho sentito raccontare la mia vita tante di quelle volte che mi pare la storia di un altro”). Attraverso le interazioni di questi improvvisati collaboratori, veniamo a conoscenza delle incredibili vicende della vita di Cabot: un matrimonio fallimentare, la stanchezza cronica, il misterioso trattamento medico/psichiatrico intrapreso, la sua repentina metamorfosi in criminale dai modi garbati e poi un autentico tourbillon di avvenimenti tanto assurdi quanto sconvolgenti, vissuti dal protagonista con impressionante distacco. Nei resoconti Wright pare davvero aver condotto la propria esistenza sotto anestesia, privato sempre più di ogni interesse proprio come tutti gli altri rispettabili cittadini americani, uomini e donne che “odono, ma non intendono” e “vedono, ma l’immagine è sfocata”, mentre la pioggia “cade sugli schermi delle loro TV”. L’incontro tra i due sembra dare comunque buoni frutti. Insieme romanzano in maniera febbrile il materiale raccolto da un Bernie ormai sempre più disperato ed avulso dalla realtà. Zoe si esalta scoprendosi romanziera ed aggiunge colore alla fredda cronaca, Cabot ritrova smalto poco per volta vedendo prendere forma una versione dei fatti autentica dietro il proprio mito: “un sedimento finissimo delle vaghe, assurde, frustranti, incongruenti minuzie di una vita”. Il re degli editori di New York, da sempre più che entusiasta del progetto, boccia però senza appelli ‘Macchia Indelebile’ dopo averlo proposto preventivamente al gotha della critica. Un responso negativo dovuto non tanto al tema della violenza carnale (considerato addirittura fuori moda) bensì al fatto che nel racconto il protagonista si imbatta solo ed esclusivamente nei rappresentanti di un’America poco edificante – ad esser generosi – e si venga imbottiti di “anormalità e pensieri corrosivi”. Fantastica la giustificazione di Purdy a proposito di questo fallimento: il libro è definito oscuro, scoraggiante, inquietante, sordido ed assolutamente privo di qualsivoglia richiamo per il lettore in quanto non soltanto sporco ma anche troppo ben scritto, quindi difficile, senza la minima traccia di una comoda attrattiva. Nonostante il rifiuto o forse proprio grazie ad esso, alla fine Cabot Wright si dice guarito dalla stanchezza, dalla noia e dall’assenza di emotività. Dopo aver solamente ridacchiato per anni, ha imparato a ridere. Dopo aver raccontato a Zoe la propria storia, è finalmente libero di dimenticarsela, di dimenticare se stesso e di iniziare una nuova avventura ai margini della società, da homeless.

Colpisce come nell’amarissimo finale, dove si sostiene per bocca di Zoe che “non vale la pena essere uno scrittore in un posto e in un’epoca come questi”, lo stupratore seriale Cabot wright appaia nella sua purezza priva di cattiveria o cinismo quasi alla stregua di un gentiluomo vecchio stampo, che fa simpatia perché non agisce per secondi fini e diventa suo malgrado oggetto delle attenzioni ben più morbose di una società nuova ed ipocrita, di una borghesia spietata, ignorante ed arrivista che non ha costruito la propria fortuna ma si è limitata ad ereditarla. E così il libro di Purdy diventa un pamphlet feroce sull’inutilità dello scrivere, della letteratura, in un contesto in cui falsità e mediocrità propinate a tutto campo soprattutto dal mezzo televisivo definiscono l’agenda culturale e condizionano nel profondo il modo di pensare (e di essere) di un’intera nazione. E’ questo nuovo grande spaccato sull’insensibilità della sazia ed annoiata America alto borghese degli anni sessanta a colpire nel segno: il necrologio prematuro di una “nazione di meduse congelate”, dove “a nessuno piace più nulla”, dove si violenta per noia, dove conta solo fare soldi ed apparire eternamente belli e giovani (memorabile nella sua miseria il personaggio della vacua Goldie). Che i limitati riscontri di critica e commerciali dei suoi primi romanzi abbiano accentuato la piega pessimista dello sguardo di Purdy è cosa pressoché certa, ma in ‘Cabot Wright ci riprova’ il disincanto appare comunque totale: lo si intuisce dall’alone quasi terapeutico con cui vengono presentati per il protagonista i “Sermoni” del vecchio Warburton, deliri xenofobi ma anche canto del cigno di una classe sociale autoritaria eppure rigorosa, fondata su solidi valori. Emerge qui il senso di disorientamento in cui è facile riconoscere la modernità di un romanzo che Purdy scrisse in anni di cambiamenti cruciali, non solo sul piano sociale e culturale ma anche in termini di dinamiche della comunicazione, nella trasformazione dei cittadini in consumatori, nella radicale falsificazione e nella mercificazione di realtà dolosamente artefatte, gli albori della cosiddetta fiction descritti con impressionante e profetica visionarietà. L’elite letteraria newyorkese non gradì l’attacco, forse perché fu costretta ad identificarsi nel grande editore senza scrupoli Princeton Keith e nel suo inesorabile fallimento. Anche lui, comunque, almeno una perla la regala: “la maggior parte dei libri viene al mondo facendo meno rumore di un bambino nato morto”. Una critica che non si può certo rivolgere a Purdy ed alla prosa cordialmente spietata di un romanzo attualissimo come ‘Cabot Wright ci riprova’.

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Wrought Iron

 

Decisamente interessante ma non per tutti i gusti questo album di Nancy Elizabeth Cunliff, raccontato in una delle mie ultime recensioni per Indie-rock.it anche se uscito ormai quasi un anno e mezzo fa. Astenersi irriducibili perditempo ed amanti irrequieti del rock più pestone. Questo sophomore della cantante di Wigan richiede orecchie sensibili e soprattutto pazienti, di quelle che non si sentano irrimediabilmente perdute al cospetto del silenzio, riuscendo invece ad apprezzarne la qualità purificante in contesti sonori idonei come appunto il folk minimal di produzione inglese. In un certo senso un'opera così parca, così elegantemente sobria, così attenta a far risaltare il dettaglio proprio in un elaborato ma sottilissimo gioco di contrasti, di "vuoti e pieni" come ho scritto, di arrangiamenti creati quasi "in sottrazione", questo particolare gusto – dicevo – si è rivelato una bella scoperta, andando a ritagliarsi dal primo momento una comoda nicchia solitaria per i miei ascolti più quieti, per colmare il desiderio di radicale economia sonora sposata alla qualità del tocco (scandinavo più che inglese, ma a ben vedere nell'albero genealogico della Cunliffe compaiono avi non lontani nati e vissuti nelle isole Fær Øer, proprio come Teitur). Scritto e registrato in posti remoti come la campagna dell'Aragona, le già citate Fær Øer ed il nord del Galles, questo 'Wrought Iron' ("Ferro battuto", titolo coerente ed evocativo: forza, semplicità ed eleganza insieme) è il classico album da scoprire, di quelli che si svelano poco alla volta come elogi del particolare. Riflette eccome le grandi potenzialità della quiete e del rigore in cui è nato, ma al tempo stesso può regalare all'ascoltatore più attento (e meglio disposto) anche un'impensabile varietà di soluzioni. Nancy Elizabeth fa oggi parte di quel gruppo di musicisti che accompagna James Yorkston, uno dei migliori autori folk degli ultimi anni, in studio come dal vivo. Lei stessa si sta affermando con sempre maggior autorevolezza in una scena ricca e particolarmente viva come quella inglese, e con questa seconda fatica ha anche saputo ampliare il proprio spettro di ricerca andando a contaminare il folk della tradizione con un minimalismo "da camera" che evidentemente era nelle sue corde. Ad uno stand di dischi durante lo Spaziale Fest dello scorso anno ho trovato ed acquistato per la cifra ridicola di un euro (1!) il CD del suo primo lavoro, 'Battle and Victory', positivamente accolto dalla critica, più vivace e ricco ma forse anche un po' meno personale di questo secondo LP. Disco etereo e prezioso 'Wrought Iron', spoglio ed accogliente insieme: rischiava di rimanere un mondo a parte nella mia raccolta di dischi, poi un'anima pia mi ha consigliato di ascoltare 'The Woody Nightshade' della connazionale Sharron Kraus e ho realizzato che anche in questo campo era possibile fare di meglio. Senza nulla togliere con questo a Nancy Elizabeth ed al suo pregevolissimo secondo album, una raccolta di canzoni che, anzi, nei miei giorni no può anche vincere il confronto diretto: il fascino oscuro della Kraus nulla può quando è di assoluta leggerezza folk che vado in cerca, magari per addormentarmi e sognare.

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Inchiuvatu @ Padiglione14
21/01/2011 _ Il nostro (altro) concerto

 

E’ stata indubbiamente una buona idea per Michele Agghiastru quella di rispolverare la sua più vecchia creatura musicale, gli Inchiuvatu, presentandoli in una originalissima combinata con quella che è la sua attuale incarnazione, frutto di orientamenti e di una sensibilità nuovi per quanto indubbiamente ancora legati al passato dalla potente (ed anche esaltante, dai) anima sicula che caratterizza nel profondo entrambi i progetti. Per Torino ed il Piemonte è stata la prima volta dal vivo di questo che è un nome storico del black metal italiano, seppur sviluppatosi indiscutibilmente (ed orgogliosamente) ai margini, con una forte identità peculiare al di fuori delle rigide e scomode etichette di genere. Il pregio assoluto di quella band e del suo disco più apprezzato (‘Addisiu’ del 1997, riproposto integralmente per la gioia dei numerosi fan accorsi al Padiglione 14 di Collegno anche da fuori Piemonte), risiedeva proprio nell’originalità di una proposta coraggiosissima perché tesa a mescolare i riferimenti in maniera alquanto radicale: metal come vestito, la robusta tradizione rock progressiva italiana anni ’70 come cuore pulsante e sangue, oltre ai sempre vitalissimi richiami folklorici siculi, vera grande anima di questa curiosa ibridazione rock. Agghiastru è molto legato ad Inchiuvatu per tutto ciò che quel nome ha rappresentato e rappresenta. In più di un’occasione mi ha confessato di patire un po’ oggi come oggi il dover tornare all’esperienza metal, di non riconoscersi più come un tempo per il fatto di essere cambiato, di aver scoperto interessi musicali nuovi, anche se non lontani come si sarebbe portati a pensare. Sicuramente è vero, perché questa rivendicazione è più che comprensibile: impossibile amare allo stesso modo a trentacinque anni ciò che facevi a venti. E tuttavia, tralasciando queste sue legittime rimostranze, mi è bastato vederlo in azione su quel palco, elegantemente vestito, luciferino più che mai e con una chitarra elettrica (finalmente) tra le mani, per rendermi conto che una parte di lui non potrà mai fare a meno di amare Inchiuvatu ed il relativo corredo di simboli. Semplicemente perché Inchiuvatu rappresenta in maniera mirabile il fatalismo irriducibile della sua terra, filtro tramite il quale la realtà è osservata e misurata. I tratti cardine della cultura siciliana trovano echi preziosi in un album incontenibile come ‘Addisiu’, per cui è inevitabile che il buon Michele non possa smettere di identificarcisi, anche con un certo (necessario) orgoglio. Un viaggio continuo tra sacro e profano condotto con la sola grande arma che contraddistingue da sempre tutti i siciliani: un’ironia fuori dal comune. E poi meraviglie e miserie, magnificenza e decadenza, cultura ed ignoranza, estro ardito e rassegnazione. Ed in fondo a tutto questo l’”addisiu”, il desiderio di ambire, di trovare un senso, di dare una risposta alle solite grandi domande della vita. Condizione atavica di ogni siciliano: “Domandare sempre, agire mai” direbbe lui, che non a caso nei panni riesumati di Inchiuvatu è stato assolutamente grandioso, godibile anche per quei pochi tra i presenti (mi ci metto) che hanno poca dimistichezza con il genere. Il fatto che, come detto, si sia trattato di qualcosa di molto particolare anche in ambito metal non può non aver pesato (molto melodiosi certi pezzi pur tiratissimi, grazie alle irresistibili nenie sicule sparate a palla – solo basi, ma di grande effetto – in accompagnamento alle chitarre), ma è indubbio che l’energia di Michele e del fidato Franco Barbata abbiano avuto la loro parte nel decretare il successo del concerto. Pubblico festoso e convintissimo, vendite notevoli al banchetto del merchandising, circa centocinquanta presenti: insomma, un successone. E non certo di minor spessore si è rivelata la seconda parte del set, quella dedicata ad un rapido excursus nell’avventura Agghiastru. Davvero apprezzabile la volontà di proporre ad un pubblico più legato al passato dell’artista anche pagine più recenti delle sue esplorazioni musicali, nella fattispecie quelle che hanno certificato la sua maturazione in cantautore di stampo folk desertico, sempre indissolubilmente legato alla matrice sicula ma per molti versi più moderno, di più ampio respiro. E’ l’Agghiastru che conosco meglio, senza dubbio, ma la scelta di arrangiamenti nuovi ed ancora più ruvidi, secchi ed elettrici (vedi in 'Tintu' e 'Amorte') oltre ad un accompagnamento ritmico migliorato (Franco aveva un basso vero e Natascia è cresciuta moltissimo alla batteria) e al minor spazio riservato ai comunque godibili intermezzi teatral-surreali hanno reso particolarmente asciutta e pregevole anche questa seconda porzione di show. Nell’insieme quindi, nonostante le limitazioni inevitabili dovute alla difficoltosa conciliabilità dei due distinti momenti sonori, l’esibizione si è rivelata di alto profilo dall’inizio alla fine. Encomiabile il pubblico, elemento a proposito del quale erano legati i miei soli dubbi della vigilia: in tanti hanno seguito anche lo show di Agghiastru, continuando ad incitare l’ex ragazzo di Sciacca con entusiasmo intatto. Una bella prova di sensibilità e riguardo, per una volta anche al di sotto del palco (ripeto: non era affatto scontato). Molto soddisfatto Michele a fine concerto, vista la riuscita di una proposta insieme retrospettiva e progressiva. Ed intanto il viaggio e l’addisiu continuano: tra non molto il terzo disco di Agghiastru vedrà la luce e si preannuncia almeno in parte diverso dai suoi predecessori. Garantito che ve lo racconteremo…  
 
SETLIST INCHIUVATU: 'Cu Sangu a L'Occhi', 'Nenia', 'Nenia II', 'Pecura Niura', 'Aciddazzu', 'Castiu di Diu', 'Lu Jocu di Li Spiddi', 'Ave Matri', 'Trinaka', 'La Cruci', 'Cristu Crastu', '33', 'Luciferu'; SETLIST AGGHIASTRU: ‘La Morti’, ‘Veni’, ‘Addisiu’, ‘Unia’, ‘Curù’, ‘Jaddinu’, ‘Quiete Morente’, ‘Viogna’, ‘Nichea’, ‘Fui'’, ‘Ferru e Focu’, ‘L'Incantu’, ‘Stravia’, ‘Amorte’, ‘Tintu’, ‘Sangu’, ‘Tintatu’.

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Soffocare                        _letture

 

Finalmente Palahniuk, finalmente all'altezza della sua fama. Dell'idolatrato autore di 'Fight Club' avevo letto sino ad oggi solo 'Rabbia' e 'Ninna Nanna', libri deludenti per più di una ragione. In entrambi i casi l'impressione era stata quella di un pugno di idee grandiose portate avanti anche egregiamente sino ad un certo punto (davvero ottima ad esempio tutta la prima parte di 'Rabbia', come pure l'espediente stesso del romanzo/inchiesta), e poi irrimediabilmente affogate in un gorgo di pasticciate assurdità, tradotte senza grande convinzione in fantafumetti deliranti ed anche un po' irritanti. Con 'Soffocare', al contrario, Palahniuk riesce ad essere concreto anche distribuendo iperboli come suo solito, maneggia una materia meno instabile ed esplosiva ma senza voler strafare a tutti i costi, quindi conducendo in porto la nave. Lettura leggera senza essere banale, dissacrante nell'affrontare vecchi tabù con sguardo maligno ma legittimo e soprattutto spassosissima. Ci sono stati passaggi in cui mi sono trovato a ridere da solo come un idiota, tanto era vivo il sarcasmo del racconto. Cinismo amichevole quello di 'Choke', duro e crudo ma intelligente e mai gratuito. Non un capolavoro – a questo punto dubito che l'autore ne abbia scritti, 'Fight Club' è in attesa anche se la lettura partirà condizionata dall'inevitabile fardello dei rimandi al film di Fincher – ma comunque un'opera capace di parlare dell'oggi senza giocare ad imitarlo, senza trincerarsi dietro facili trucchetti gergali o modaioli. Il sesso resta il coprotagonista del libro: franco, per nulla scabroso, narrato quasi con gli occhi di un maturo adolescente. Sarà forse per merito di questa prospettiva giovanile (ma non giovanilistica), oppure per via dello stupefacente disincanto che anima tutte le fasi cruciali nella narrazione, di certo 'Soffocare' riesce a catturare dalla prima all'ultima riga e non stanca. Impresa ardua per un vero amante delle reiterazioni e dei refrain killer come Palahniuk.

Il roboante viaggio nella progressiva alienazione di Victor Mancini, figlio paranoico e mai abbastanza amato di una madre decisamente fuori dal comune, figurante in un finto villaggio coloniale per turisti e scolaresche, truffatore con anima da samaritano e ricca inventiva, sessodipendente in cura ma senza significativi margini di miglioramento.  Difficile dire quale di queste quattro dimensioni sia quella sviluppata con maggior acume da un Palahniuk davvero cattivo ed irriverente. Di certo la gustosa miscela dei tanti spunti azzardati risulta brillante e consente di mettere a fuoco riflessioni non banali sugli squilibri di una contemporaneità allucinata e priva di grandi speranze, in barba al progresso sempre celebrato come idolo. Memorabili in tal senso alcune battute lapidarie messe in bocca al protagonista, specchio fedele di un’America emotivamente anestetizzata, incapace di affrontare e sanare i propri conflitti irrisolti e regno di una omologazione sempre più feroce: <<la mia vita sta prendendo una piega tale che mi sembra di recitare in una soap opera guardata dai protagonisti di una soap opera guardata da gente reale in un luogo imprecisato>> o, anche, <<più vado avanti, più mi sembra di vivere facendo una pessima imitazione di me stesso>>. Il rapporto di Victor con la madre è assolutamente cruciale, come evidente dal montaggio alternato di un presente di miserie (emblematici i rituali jamais vu nella casa di cura, dove il nostro si spaccia ora per questo ora per quell’ex avvocato della donna) ai frammenti di un passato tutto sconquassi per via del tormentato legame con la genitrice, scriteriata anarcoide esponente di un non meglio precisato “terrorismo cosmetico”.  Meno rilevanti (e poco raccontati, nonostante il richiamo nel titolo), ma pur sempre indispensabili per rendere la complessa interiorità del licenzioso antieroe, i suoi espedienti per far soldi e pagare le cure alla madre: un breve quanto maniacale affresco, utile a cogliere il senso di implicita sudditanza di Victor nei confronti degli altri (e sorta di emblema degli squilibri insiti in ogni relazione sociale). In un romanzo che parla di pazzia in termini di ossessione e dipendenza, anche la soggezione verso l’altro gioca un ruolo di primo piano: per sentirsi buoni, degni, “divini” quasi. E così Victor Mancini simula soffocamenti in pubblico e, facendosi salvare dall’improvvisato eroe di turno, gioca a dare un senso alla vita altrui, oltre che alla propria: <<questa persona sarà fiera di te perché tu l’hai fatta sentire fiera di se stessa>>. E ancora, con ironia nera e cinismo d’alta scuola: <<potresti addirittura essere la buona azione di una vita, il ricordo che in punto di morte giustifica un’intera esistenza>>. Inevitabile che, proprio come il sesso e come la madre, anche questo gioco diventi una droga e, in quanto tale, presenti alla fine il suo conto al protagonista. Per una volta Palahniuk sa essere concreto anche senza rinunciare alla sua classica vena surreale, al suo inconfondibile stile pop-noir eccentrico ed iperrealista. Di più, riesce veramente spassoso, impietoso, amaro ma divertentissimo (esemplari le pagine dedicate alle pazienti della casa di riposo, con la sentenza fenomenale: “tanto varrebbe tentare di ridipingere una casa in fiamme”). Soprattutto, per una volta, si dimostra capace di confermarsi su alti livelli senza mai sbracare, specie per merito del ribaltamento finale della prospettiva. Anche in ‘Soffocare’ non mancano richiami messianici e viaggi nel tempo, ma l’autore se ne serve come pretesto per esplicitare il tema sempre più inesorabile della follia. Il delirio abbracciato in chiusura da Victor, dall’amico Danny, dalla sbiadita Beth e dalla misteriosa Paige Marshall, diventa l’unica possibile via di salvezza in un mondo che sembra aver smarrito ogni significato insieme al senso del limite. Lo dimostra chiaramente la madre del protagonista, altro personaggio che in questa realtà alla rovescia parrebbe vaneggiare ed invece si dimostra l’inossidabile baluardo di una ragione altrimenti perduta: <<L’America ha uno slogan: “Mai abbastanza”.  Niente è mai abbastanza veloce. Abbastanza grande. Non siamo mai contenti. Cerchiamo sempre di migliorare>>, anche se questa è una triste chimera. Solo una delle tante illusioni di cui è infarcito il romanzo, la più riuscita delle quali rimane forse il passato fasullo – per metà Disneyland, per metà Alcatraz – di Colonial Dunsboro. Veramente irresistibile.

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A Place To Bury Strangers @ Spaziale Fest
24-07-2010

 

Ecco un altro di quei concerti di cui posto una recensione scritta da altri, in questo caso quella divertentissima dell'amico Paolo 'Hagazussa' Coccettini relativa al live milanese degli A Place To Bury Strangers, identico in tutto e per tutto a quello di due giorni dopo sul palco dello Spaziale Festival 2010. Cosa aggiungere a quanto già scritto dal "collega"? Da parte mia sostanzialmente niente altro. Già esaustiva e colorata la sua cronaca, per cui mi limiterò a qualche spunto. Un'esibizione questa dei maestri siderurghi newyorkesi interessante più che altro per la resa sonora estrema, in un contesto noise particolarmente acido ed esasperato, festa di riverberi che i più potrebbero considerare atroci ma che non ha lasciato danni significativi al mio udito neanche nel breve periodo (se il tutto si fosse svolto al chiuso, in un piccolo club, temo che l'esito non sarebbe stato altrettanto benevolo, vabbé). Ecco quindi che, se dal punto di vista squisitamente musicale sarebbe anche possibile avanzare delle riserve su spettacoli di questo tipo, a livello formale lo show degli A Place To Bury Strangers è risultato sì ostico ma anche alquanto godibile, nella sua furibonda e sfontata naturalezza post-rock. Avessi dovuto scriverne io il report avrei incontrato più di una difficoltà nella ricostruzione della relativa scaletta: non che non mi fossi preparato a riguardo, anzi, lo faccio sempre e questa circostanza non ha fatto eccezione. Solo che è stata veramente impresa ardua riconoscere le canzoni in quella guazza rumorosa e schizzatissima, motoristica verrebbe da dire. Mi hanno aiutato persin di più le parti ritmiche che non la chitarra del buon Oliver Ackermann, indubbiamente il cuore spettacolare e carismatico di una band comunque democratica anche da questo punto di vista. Solo così sono riuscito a identificare titoli quali 'In Your Heart', 'To Fix The Gash in Your Head' e soprattutto l'apocalittica 'I Lived My Life To Stand in the Shadow of Your Heart' che ha chiuso la serata nel modo più devastante possibile, tra rantoli di chitarra ed ampli al collasso. Non proprio quello che definirei il mio genere preferito, ma comunque una discreta goduria in termini di fracasso e disimpegno: ogni tanto eventi del genere ci vogliono. Piacevole tra le altre cose anche far foto al gruppo illuminato ad intermittenza da fari stroboscopici pazzeschi: non mi era ancora capitata una cosa del genere ma devo ammettere che per uno come me che non usa mai il flash è stata un'agevolazione preziosa o un gradito inconveniente, ché suona pure meglio. Profili ben stagliati, ombre gagliardissime, taglio espressionista. Rimango un purista contrario alle luci sparate ma per una volta i risultati mi hanno lasciato piacevolmente soddisfatto. Come il delirio programmato di un Ackermann che ha fatto volteggiare il suo strumento con cattiveria inaudita e indomita noncuranza, ma senza fare il minimo danno a cose e/o persone. Sempre per la serie "ogni tanto ci sta".

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Il mio pezzo dello scorso aprile su Monthlymusic.it è stato qualcosa più che una semplice recensione. E' valso come riabilitazione ufficiale nei confronti di un intero ambito musicale, il garage. Confessione doverosa e per nulla dolorosa, arrivata tardivamente ma espressa con la massima sincerità possibile. E con scanzonatura anche, come il genere di riferimento sembrerebbe richiedere quasi per necessità mimetica o aderenza semantica. A ripensarci, meno la musica che si analizza è intellettualistica o gravata da odiose sovrastrutture è più divertente è scriverne. It's automatic! Volendo fare un altro esempio relativo a questa mia impressione potrei citare il disco più affine al sophomore solista griffato Mark Sultan, ovvero il più recente passaggio dello stesso Sultan in abbinamento al suo sgraziatissimo sodale abituale, King Khan (pezzo di cui si è già scritto anche qui). Come nell'esibizione dal vivo a Spazio di inizio 2010 (quando mi sarò occupato delle relative foto, ne scriverò) il divertimento si è rivelato incluso nel prezzo. Come per 'Invisible Girl', non meno revivalista di questo '$', viaggiare a ruota libera sul filo delle associazioni mi ha portato a evidenziare improbabili quanto gustose affinità cinematografiche: se un richiamo al più tossico dei film di Terry Gilliam ('Tideland') si era insinuato tra le righe di quel pezzo a livello prettamente simbolico, la citazione di due classici del cinema dei reietti come 'Bride of the Monster' e 'Plan 9 From Outer Space', entrambi opera di quel sublime maestro dei B movie che fu Edward D. Wood Jr, è stata quanto mai scoperta e consapevole. Il garage passatista screziato psychobilly come quello di Sultan non può che suscitare simpatia come certe muffite pellicole di horror o fantascienza, così naif da lasciare nel cultore smaliziato di oggi un senso di tenera inadeguatezza al cinismo imperante. Arte povera e scalcagnata partorita per amore, non per calcolo. Ecco perché tutto ciò che nasce dalla fantasia pur scoppiata e derivativa di Mark Sultan oggi entra agevolmente nelle mie corde. E' solo una delle tante ragioni (aggiungerei comunque la fattura pregevole dei suoi bozzetti, l'energia grezza, un intuito da filologo e l'indifferenza alle mode, tutti parametri indispensabili per aggraziarsi il gusto del sottoscritto), forse la più importante. Detestavo il garage, da bravo ignorante in materia. Oggi non posso che riconoscere che mi somiglia dannatamente. 

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Disturbing the peace      _letture

 

OK, mi tocca fare ammenda per esserci arrivato tardi. E facciamo ammenda. Come scritto con l'avvio di questa nuova rubrica, ho ricominciato solo da poco e Yates, beh, proprio non lo conoscevo. Avevo sentito parlare di lui quando uscì l'adattamento cinematografico di 'Revolutionary Road' con relativa schiera di scintillanti star hollywoodiane, ed è a quel punto che mi sono annotato il nome. Ovviamente ignoravo del tutto che Yates fosse morto da quasi vent'anni, né potevo anche soltanto immaginare i dettagli della rocambolesca vita dello scrittore di Yonkers. Ne ho letto la biografia solo dopo aver consumato, letteralmente, il romanzo in questione, trovandovi come ovvio una serie impressionante di parallelismi. Curioso come l'intesa con Yates sia stata subito perfetta, nonostante 'Disturbo della quiete pubblica' venga ancora considerato da molti il suo peggior lavoro. Non avendo letto altro di Yates non ho modo di fare confronti, ma che questo sia il peggio mi sembra quantomeno difficile da credere. Più probabile che rientri nello standard dell'autore, essendo per il sottoscritto decisamente elevato. Un romanzo che scorre fluido pur svelando un po' per volta scorie di pessimismo radicale senza valide consolazioni. Un romanzo lucidissimo, a differenza del suo protagonista, impietoso più che verso di lui nei riguardi dell'intera società americana degli anni di Kennedy. Yates obbliga il lettore a fare i conti con lo sgradevole John Wilder, ad immedesimarsi in lui riconoscendovi le proprie peggiori ossessioni, i propri sogni più biechi e le aspirazioni di ogni perdente che speri di non essere tale. In questo senso Wilder non può essere antipatico, anche se diventa insostenibile fare il tifo per un genitore e marito scriteriato come lui. Ci si aggrappa ai suoi sogni di meschino per forza di cose, forse ben sapendo che le cose non andranno comunque a finire come lui avrebbe voluto. E' forse la sua follia, proprio lei alla fine, a definire i cortocircuiti necessari a preservarci dall'immedesimazione piena, a ridestarci quasi mentre il protagonista pare cedere al sonno della ragione. Una precauzione sufficiente a lasciare tra le pagine un'angoscia che nelle intenzioni di Yates andava forse estesa a tutto il contesto e a tutta un'epoca: quella della fine delle illusioni. Un libro eccezionale.

Una "vita d'ordinaria follia" quella di John C. Wilder. Follia pura, perché tesa ad assumere i contorni di una progressiva condanna, perché germogliata inesorabile dai semi dell'autodistruzione; ed ordinaria anche, riflesso di un personaggio tetro quanto si vuole ma spaventosamente autentico, genuino nella sua irriducibile ed umanissima mediocrità.
Il romanzo di Yates, da molti considerato a torto uno dei suoi lavori minori, è tutto racchiuso nel suo straordinario protagonista: venditore di successo eternamente insoddisfatto, attore e bugiardo per indole, razionale sino al paradosso, camaleontico come un novello Zelig, opportunista e cialtrone capace però anche di grande umanità. Un borghese terra terra che sembrerebbe in grado di poter dire la sua, che vorrebbe trovare a tutti i costi l'ordine dal caos ma alla fine è travolto dai propri limiti e deve arrendersi. Yates fotografa ad un tempo gli anni del suo crepuscolo e di quello parallelo di un'America bruscamente ridestatasi dal sogno dell'era Kennedy. Lo stile è secco, incredibilmente asciutto, senza forzature teatrali, senza compiacimento, con un distacco calibrato che non esclude forti richiami autobiografici e soprattutto non giudica il suo antieroe. Un personaggio sgradevole questo Wilder, ma in fin dei conti non così antipatico da negare una qualche identificazione nei suoi confronti o la partecipazione sincera alle sue tristi vicende. Nell'alcool ha i propri demoni, quelli che annientano maschere e facciate per ripiombarlo alla fine in un baratro di gelosie, volgarità, vili meschinità ma anche umanità, in fondo, pure nella pazzia. Il colpo di genio sta in quella sorta di meccanismo meta-narrativo architettato dall'autore grazie allo stratagemma del film sulla prima esperienza di Wilder in manicomio. In questo modo leggiamo di John non solo in cronaca diretta ma anche attraverso la proposta di un oscuro sceneggiatore chiamato a dire la sua per rendere meglio vendibile la storia di Wilder al Bellevue di New York: un abbozzo di copione che si rivelerà quanto mai profetico.
Un grande ed impietoso romanzo che può ricordare vagamente 'Corri Coniglio' di Updike: con meno dissertazioni esistenzialistiche, maggior concretezza ed una critica più puntuale alla società americana. 

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Swans @ Sala Espace 03/12/2010     _Il nostro (altro) concerto

        

Ovvero per la serie “eventi speciali”. Volendo ragionare a mente lucida, limitandosi alla sfera squisitamente musicale, sarebbe difficile negare agli Swans ammirati nel dicembre scorso alla Sala Espace di Torino la palma per il miglior concerto del 2010. Certo per farlo occorre vestire i panni dei critici asettici, imperturbabili alle ventate emotive che spesso fanno la differenza in ambito live, per guardare unicamente alla resa pratica di un’esibizione, all’aderenza di un artista agli standard e cliché del suo genere musicale di riferimento, tagliando fuori tutto ciò che non è misurabile secondo questi freddi parametri. Occorre anche una buona dose di tolleranza nei confronti di una musica decisamente non accostabile a concetti quali “easy listening”, “catchy” o “accessibile”, occorre una certa predisposizione se così si può dire. Definita questa semplice premessa, certificata la disponibilità a rinunciare a quel quid emozionale in più, il ritorno in pista dei rinati Swans merita davvero ogni sorta di encomio. Incoraggiato dal più che lusinghiero nuovo esordio discografico di ‘My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky’, mi sono presentato all’Espace con un livello di aspettative decisamente rimarchevole, soglia poi confermata in pieno dalla qualità di un concerto che è forse riduttivo definire sconvolgente. Da Michael Gira lo si doveva e poteva immaginare. Dal vivo, un paio di anni fa, era parso molto meno tormentato, molto più ortodosso rispetto ai suoi furibondi anni d’oro, pur rivelando ancora su disco scintille del suo nerissimo ed irriducibile genio di sperimentatore. Ma quelli erano gli Angels of Light, tutt’altra cosa rispetto agli Swans, e non deve trarre in errore la realtà di una reunion dopo quindici lunghi anni: contrariamente a quanto sosteneva il titolo di un doppio live pubblicato nel ’98 a mo’ di canto dei cigni (chiedo venia per questa metafora fin troppo ovvia), gli Swans non sono mai morti davvero, semplicemente perché la loro anima e padre padrone non ha mai smesso di fare musica. C’é stata una pausa, significativa, nelle attività (ostilità) della band ma la battaglia è ripresa a tutti gli effetti con il convincente ritorno dell’album sopra citato. Questo per sgombrare subito il campo dalle facili conclusioni legate all’idea, ormai sempre automaticamente negativa, di ‘Reunion’. Non sono tornati insieme per soldi, anche perché è fuori luogo proprio l’idea di “tornare insieme”. Michael deve aver sentito di nuovo il fuoco dentro di sé e ha radunato un po’ di bella gente: ha girato l’invito a buona parte delle (eccelse) maestranze del progetto Angels of Light (il chitarrista Christoph Hahn, il batterista Phil Puleo, il percussionista e vibrafonista Thor Harris, titolare negli Shearwater), ha tirato fuori dalla polvere per l’occasione il chitarrista storico Norman Westberg, assoldando un bassista nuovo di zecca, il giovane Chris Pravdica. Un gruppo di sei elementi tostissimi quindi, cattivi al punto giusto nel suonare e con facce grottesche al punto giusto. Che la potenza di fuoco dei nuovi Swans fosse elevatissima, con un simile arsenale umano a disposizione, non era quindi difficile da immaginare, ma il livello dei feedback sparatici addosso da questa squadriglia di americani pazzoidi è andato ben al di là delle attese, riuscendo nella non semplice impresa di devastare l’udito dei tanti presenti e di colmarli nel contempo di soddisfazione. La prima impressione della serata legata al guru del post-punk, va detto, non era stato proprio dei migliori. Giunto sul posto con la mia proverbiale buona dose di anticipo, ho fatto in tempo ad assistere ad una scena curiosa quanto antipatica: seccato dall’apertura del locale agli spettatori, un Gira con grosso cappello da texano in testa negava con estrema scortesia l’autografo ad un paio di giovani fan che gli avevano presentato un CD apposta per quello, chiudendo il suo notebook e lasciando indispettito la piccola area bar dell’Espace davanti a pochi testimoni esterrefatti. Non proprio edificante come aneddoto ma, si sa, ogni star che si rispetti (quelle alternative evidentemente non fanno eccezione) non sarebbe tale se non fosse lunatica ad un buon livello. Ancora prima dell’inizio Gira continuava a dare segni di insofferenza a differenza di tutti i suoi tranquillissimi colleghi (fenomenale Hahn, con la sua aria da professore di storia dell’arte e occhialini da lettura perennemente sul naso), arrivando a fare una piazzata monumentale ad una giovane donna del suo staff – con ogni probabilità la sua compagna – durante l’esibizione/antipasto del fenomenale ma scazzatissimo James Blackshaw.

      

Proprio il trentenne londinese in forza alla label di Michael Gira è riuscito a stemperare l’implicita tensione causata dall’intrattabile leader grazie alle meraviglie del suo breve set introduttivo, una mezzoretta a base di privitivismo folk strumentale e virtuosismi fingerpicking semplicemente pazzeschi: mai visto suonare con una simile velocità e con tanta leggiadria una dodici corde, e mai viste unghie lunghe come quelle della sua mano destra. Monstre! Chiusa la parentesi ed iniziato il concerto vero, tutte le cattive sensazioni sono state spazzate via come da una mareggiata, per quanto il cantante non abbia smesso fino alla fine di cazziare ora un compagno ora l’altro, perché qualche dettaglio non era di suo gradimento. Partenza lentissima: una lunga introduzione con gli strumenti avviati uno per volta, progressivamente, a creare uno scenario sonoro maestoso ma incombente con tanto di sonagli e reminescenze neanche troppo vaghe alla musica tibetana, oltre al sibilo mugghiante della pedal steel distorta di Hahn. Ultimi a salire sul palco (solo dopo diversi minuti) gli altri due chitarristi, con licenza ufficiale di appiccare il fuoco e assortimento di pose da invasato per il maturo frontman. Di qui in avanti, quasi due ore di spettacolo. Davvero devastante l’esordio di ‘No Words/No Thoughts’, con la sezione ritmica a fare da supercompressore e il resto della banda a imperversare in un marasma di riverberi, con Gira intento dapprima a schitarrare in ginocchio quindi a cantare tenebroso ma inespressivo sovrastato da un muro di feedback e infine lanciato in una sorta di predicazione mistica nel silenzio più totale. Un quadro quest’ultimo replicato con enfasi anche maggiore poco più tardi nella memorabile ‘Sex, God, Sex’, una delle rarissime concessioni al passato remoto del gruppo in barba ai consueti standard da greatest hits che ogni reunion che si rispetti porta inevitabilmente con sé. Questa non è stata proprio la classica rimpatriata per nostalgici, ormai è chiaro. Il recupero dal leggendario ‘Children of God’ resta un caso unico assieme a quelli delle più datate ‘Your Property’ (da ‘Cop’, 1984) e ‘I Crawled’ (dal primo EP): classici ostili fatti di granito, con splendido campionario di ossessioni giriane, chitarre elettriche suonate come grattugie ed una band assestata come una macchina da guerra magistralmente rodata; per il resto solo pezzi dall’ultimo disco più un paio di inediti promettenti – sempre tra math ciclico e post-rock senza il minimo svolazzo estetizzante – e tutti a casa ugualmente contenti. Proprio il principio della reiterazione si è imposto come sacra legge del songwriting del vecchio leone: tra impennate, rallentamenti, dilatazioni cadenzate e crescendo marziali, gli Swans si sono mossi come onde su una scogliera, con la sola eccezione dell’apparentemente più canonica ‘Avatar’ (uno dei titoli nuovi), crepuscolare e dominata da basso e percussioni. A tratti il gruppo ha giocato a illudere il pubblico, fingendo di spezzare questo schema consolidato avvicinandosi ora al psych-folk di marca Angels of Light (‘Jim’), ora ad una forma di cantautorato più ortodosso à la Nick Cave (‘Eden Prison’), salvo poi sconfessare tali premesse con nuove bordate di radicalismo sonico. Da bravi terroristi gli Swans non hanno badato ai convenevoli avendo cura di attaccare, sempre e comunque. Tra le cose migliori va menzionato un inedito senza titolo della durata di una quindicina di minuti (il video è raggiungibile dalla foto qui sopra), tetro ed incendiario ma allucinato dai sonagli impazziti di Thor Harris, con eccelso dialogo ritmico Puleo/Pravdica, cartavetro e detriti vari portati in dote dal canuto Westberg (“Un uomo di 365 anni”, così l’ha definito Michael) ed il frontman ad interpretare come al solito la parte più umorale ed imprevedibile, regalando al macilento finale noise una serie di strascicati deliri elettrici oltre ad un sinistro lamento d’armonica. E ancora lui, vero protagonista, a improvvisare uno sgradevole siparietto durante la non meno minacciosa ‘I Crawled’, strizzandosi più volte le parti basse e ravanando come un ossesso nei pantaloni, prima di lanciarsi in completo delirio da una parte all’altra del palco violentando la sua Gibson Lucille (con sottofondo western-tibetano). Uno spasso. Visto il tenore della performance, prima dell’unico bis (‘Little Mouth’, scaracchio noise con coda recitativa nel silenzio) qualche spettatore ha rilanciato in maniera non meno assurda i saluti del cantante a Ennio Morricone (!) e Fabrizio Modonese Palumbo (dei Larsen, torinese), aggiungendo alla lista i nomi di Roberto Maroni e di Mara Carfagna. A quel punto però, dopo circa due ore di pura razzia sonora, l’affidabilità delle mie orecchie lasciava sicuramente a desiderare per cui non sono sicuro di quest’ultima cosa e potrei anche essermela sognata. Come quelle precedenti, forse. Quando sono tornato in me c’era ancora sul palco Michael Gira che salutava sbandierando un fazzoletto con un sorriso largo così, felice come una pasqua ed affabile come il migliore dei cristiani. Sì, ripensandoci tutto il resto doveva proprio essere un sogno. O un incubo, fate voi.

SETLIST: ‘Intro’, ‘No Words/No Thoughts’, ‘Your Property’, ‘Sex, God, Sex’, ‘Jim’, ‘Untitled Song’, ‘I Crawled’, ‘Eden Prison’, ‘Avatar’; ENCORE: ‘Little Mouth’.

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The Brutalist Bricks

 

E' invecchiato bene questo più recente lavoro a marchio Ted Leo & The Pharmacists, un po' come i suoi predecessori. Innegabile che sia proprio la matrice power-pop nello stile di questo instancabile quarantenne americano a nascere con i crismi di una musica in fondo adatta a questi tempi, come agli anni zero o ai novanta. Nella recensione mi sono divertito ad enfatizzare questo suo carattere di college rock un tantino fuori tempo massimo, ma sarebbe ingiusto liquidare dischi comunque preziosi come 'The Brutalist Bricks' sostenendo che partano con l'handicap di un debito invalidante verso il pop-rock di quindici anni fa. Lo ribadisco ora con la convinzione che di album così, leggeri ma mai banali, c'é sempre più dannatamente bisogno, in un periodo di ristagno generalizzato e in una scena asfittica dove tutti sembrano fare a gara per stabilire chi si prenda più sul serio. E poi c'é l'anno di stagionatura a confortarmi in questa sensazione: ascoltate oggi queste canzoni suonano fresche come la prima volta, alla stessa maniera di quelle di 'Hearts of Oak' o 'The Tyranny of Distance' – tanto per citare due tra i suoi lavori più riusciti – a riprova che la qualità compositiva e l'immediatezza del songwriting di Leo non hanno mai subito cali veri e propri. Uno dei pregi di questo artista è proprio l'affidabilità della sua proposta: mai davvero trascendentale ma sempre gradevolissima, facilmente riconoscibile all'interno dei propri standard e refrattaria all'accomodamento borghese. Mai veramente "apocalittico" Ted Leo, di certo lontano da ogni "tentazione integrativa", per dirla con Umberto Eco. Nel descrivere la sua eclettica propensione da giostraio del pop poco incline alle mode del momento mi sono sbilanciato promuovendo l'accostamento con un altro autore "sopra media" del sottobosco alternativo statunitense, quel Ben Folds che non ha mai smesso di esplorare territori simili servendosi del pianoforte invece che della chitarra. Proprio come Ben anche Ted riesce miracolosamente bene come creatore di easy listening adrenalinico, di soft-rock invero alquanto lenitivo. Come cura contro la banalità musicale funziona discretamente anche senza promettere il paradiso. Con me è servito. Nei giorni in cui ho scritto la recensione si era già manifestata una tosse odiosa poi rivelatasi pleurite. Un fastidio mica da ridere. Inutile dire che dischi come questo mi hanno aiutato a trascorrere il tempo, nella scomoda prigione domestica, molto più piacevolmente.

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