Month: febbraio 2011

Malcolm                        _letture

 

Incrociato quasi per caso in un'infruttuosa ricerca in biblioteca, questo romanzo d'esordio dell'autore dell'Ohio mi si è presentato la scorsa settimana con premesse interessanti, andate poi per lo più in fumo alla prova dei fatti. Incoraggiante la sua presenza nella scuderia Minimum Fax, recente veicolo di ottime sensazioni per il sottoscritto grazie a Richard Yates e al suo 'Disturbo della quiete pubblica' (di cui scriverò prossimamente). Bella la copertina, bello l'elogio di Gore Vidal sulla quarta, curiosa la trama abbozzata in sintesi proprio lì a ridosso. Il nome di Purdy poi non mi era del tutto sconosciuto: me l'ero annotato un secolo fa dopo averlo letto in abbinamento ad un altro commento alquanto lusinghiero, in un libercolo sui migliori libri di autori stranieri del novecento, uscito con l'Europeo forse nel 1985 ed incontrato diversi anni dopo in mezzo ad altre cose dello stesso genere, in una delle librerie del mio vecchio. Il testo magnificato in quella specie di breve recensione era un altro, '63: Palazzo del Sogno', la primissima raccolta di racconti che Purdy riuscì a pubblicare nel 1956, tre anni prima di questo 'Malcolm'. Nel frattempo l'autore ha avuto tutto il tempo di essere dimenticato, riscoperto e, fra una cosa e l'altra, di passare a miglior vita (neanche due anni fa). Memore di quelle lontane ma entusiastiche parole ho preso senza indugi il libro dallo scaffale insieme ad un altro dello stesso autore che a breve attaccherò. Buone sensazioni presto svanite, quindi. Se l'idea di fondo è valida, i buoni spunti non mancano e l'interpretazione simbolica riesce abbastanza agevole, il romanzo soffre comunque per l'eccessiva debolezza nelle caratterizzazioni (troppo "pallido" il protagonista, troppo caricati ed inverosimili i personaggi di contorno), per la contenuta visionarietà del piano descrittivo (con un soggetto di questo tipo sarebbe stato preferibile osare molto di più) e per l'insistito ricorso a dialoghi tutt'altro che memorabili. Poi certo, a posteriori si possono cogliere ulteriori riferimenti validi a livello complessivo, ma nel presente della lettura 'Malcolm' ha mostrato molto meno mordente di quanto era lecito attendersi e praticamente non è mai decollato. Non un brutto libro in fin dei conti (il finale per esempio non è affatto malvagio), ma incapace di coinvolgermi in un vero trasporto e di lasciarmi qualcosa di più profondo che una bella immagine di tanto in tanto. Spero che 'Il Nipote' sia meglio e poi ci saranno quei vecchi elogi da verificare, sempre che io trovi da qualche parte quella prima opera tradotta in italiano una vita fa. Forse che siano i racconti brevi la dimensione idonea ad uno scrittore comunque da riscoprire come James Purdy?

Chi è Malcolm? Soltanto un innocuo giovanotto senza radici, un respiro vitale che tutti bramano o il simbolo di una generazione ormai pronta a ridestarsi dal sogno americano? La chiave di lettura simbolica pare la sola praticabile per questo primo romanzo di James Purdy, per quanto la prosa poco incisiva non aiuti il lettore nel riconoscimento delle metafore o nell’apprezzamento della loro forza, invero alquanto relativa. Scrittura dal chiaro intento mimetico quella di ‘Malcolm’, specchio fedele di un protagonista innegabilmente unico ed originale. “Non mi pare che tu sia molto sveglio, ma hai un certo fascino ed un’aria di…innocua amicizia”, afferma il pittore Kermit dopo il primo incontro con il misterioso ragazzino. Ed innocuo in realtà Malcolm pare esserlo sul serio: impalpabile, trasparente, imbambolato senza volontà o sostanza, senza polpa, sangue, carattere, in balia di situazioni quantomeno grottesche e di una schiera di adulti eccentrici e deliranti, al cospetto dei quali risulta addirittura il personaggio più maturo ed equilibrato. E’ un’impressione, ovviamente. In qualità di contemplativo perennemente distratto, Malcolm somiglia ad un novello Forrest Gump all’incontrario, in netto anticipo sul protagonista del film di Zemeckis: seduto sulla sua panchina in attesa di una compagnia che gli porti delle storie, anziché raccoglierle da lui. Del tutto ingenuo, incapace di mentire, disarmato dall’inesperienza, è attore fuori contesto, fuori parte, nell’ambiguo microcosmo in cui si trova suo malgrado a recitare. Forse per questo motivo in tanti hanno letto (col senno di poi) nel suo moderno smarrimento quello dei giovani degli anni sessanta, belli ed invidiati dagli adulti ma in fondo orfani come Malcolm ed incapaci di comunicare con le altre generazioni, ormai segnati da un clima di disillusione radicale: “Non riesco ad avere un’opinione su me stesso” – sostiene lui ad un certo punto – “mi sembra quasi di non esistere”. L’aver captato, anticipato e trasfigurato certi umori generazionali, quel senso di profonda disperazione appena attenuato dal taglio onirico delle vicende narrate, è forse il massimo pregio di un romanzo per altri versi mai troppo riuscito. Anche se l’intento ironico di Purdy si rivela in più frangenti, a prevalere è quell’amarezza di fondo mal supportata dall’eccessivo schematismo di una scrittura macchinosa, ripetitiva e senza lampi autentici. Di momenti gustosi o almeno divertenti se ne incontrano ben pochi ed i dialoghi per lo più fumosi, qua e là demenziali ma veramente a fuoco solo di rado, hanno l’irritante tendenza a soffermarsi come la trama e come il protagonista solo su dettagli poco significativi, privilegiando uno sguardo ingenuo, infantile e non esente da banalità. Così, arrivati all’ultima pagina, torna in mente un’affermazione-tormentone, partorita ora da un personaggio, ora da un altro: “Ho l’impressione che la vita stia per cominciare”. Ecco, la sensazione a giochi fatti è che non si possa dire la stessa cosa a proposito di questo libro.

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Kaki King & Cocorosie @ Spaziale 19-07-2010

 

Dopo il caso recente di un live report scritto da altri e con il quale mi ero trovato in perfetta sintonia, ecco il caso di uno spettacolo vissuto da me in maniera diametralmente opposta rispetto a chi ne ha riportato la cronaca in maniera comunque vivace e colorata, da bravo partigiano. L'evento in questione è stato il lussuoso doppio concerto estivo cui era affidato il compito di aprire la più recente edizione dello Spaziale Festival, con un parziale rilancio di nomi ed ambizioni rispetto all'annata precedente ma comunque nel solco di un evidente ridimensionamento rispetto a quel che la rassegna aveva offerto negli anni passati. Annunciato come "Cocorosie + Kaki King", in cartellone come nel report, questo live all female si è risolto per il sottoscritto in un rovesciamento delle gerarchie abbastanza impietoso per le sorelle Casady. Qui una premessa è d'obbligo. Le Cocorosie sono sempre state una di quelle realtà che dividono perché non facilmente incasellabili in comode etichette, perché estreme a loro modo e mai troppo inclini al compromesso. Le seguo praticamente dai tempi del loro delizioso esordio, 'La Maison de Mon Rêve', e non ho alcun problema ad ammettere che per lunghi frangenti ho apprezzato la loro musica, soprattutto certa loro freschezza. Sfortunatamente questa loro dimensione naif e genuina è andata via via perdendosi, rimpiazzata già con il terzo album da manierismi assortiti ed ossessioni formali che hanno inficiato la proposta di queste due folli artiste nel suo complesso. Le avevo già viste a Torino un secolo fa, nel piccolo Caffé Procope, ed erano state assolutamente convincenti nella loro mistura di deliri freak/psych ed incantesimi svenevoli, in piena fase "ingenua" se così la si può definire. Cinque o sei anni dopo la loro parabola è giunta al parossismo di un vero e proprio trash show, tra nenie misticheggianti senz'arte né parte, il prevalere di basi sintetiche e campionamenti dei più indigesti, parentesi deleterie (come un assolo di beatbox francamente pessimo) ed un divismo d'accatto a condire il tutto, specialmente da parte di una Sierra Casady a dir poco irritante. Prevalenza discutibile dell'ultimo album ('Grey Oceans', mediocre ma non da buttare), qualcosina da 'Ghosthorse & Stillborn' (che, in controtendenza con la critica, mi sono sforzato di apprezzare), appena una 'K-Hole' (e neanche poi irresistibile) da 'Noah's Ark' e lo zero assoluto dal disco di debutto. Ci sta. Spiace che le evoluzioni riscontrate in sede live siano state peggiorative anche solo rispetto a quelle comunque dignitose compiute in studio. Spiace soprattutto che molti spettatori avessero sguardi entusiasti alla fine di un'esibizione iniziata con mostruoso ritardo e durata ben poco per via dei capricci e dei vezzi estetici delle due eroine, troppo attente a lasciarsi desiderare e poco interessate ad incantare come facevano una volta. Molto bene di per contro, e lo dico con la parzialità di chi ignorava l'artista in questione, il set della favolosa Kaki King, praticamente per gli stessi motivi tirati in ballo a proposito delle Cocorosie e volturati in positivo. Simpaticissima, umile, anche timida nonostante un caratterino che emerge con evidenza mentre suona, la ragazza di Atlanta ha stupito per la capacità di rendere curioso e piacevole anche il lato tecnico della sua performance, con incredibili magheggi elettracustici sulle corde delle sue chitarre pazzesche in un costante crescendo da virtuosa che non si atteggia a prima della classe. Brani scavati all'osso, tutti scatti nervosi e vigorosa essenzialità ma anche capaci di impreviste coloriture melodiche. Non la conoscevo. Sono sicuro che su album riesca meno intrigante che dal vivo ma mi sento di promuoverla senza indugi vista anche la qualità umana limpidamente espressa. In fin dei conti una bella sorpresa ed una sòla erano preventivabili per cui non posso dire di aver avuto meno di quanto avessi messo in conto. Il risultato si è confermato quello della vigilia, solo gli addendi andavano invertiti.

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L'arcobaleno della gravità  _letture

 

Ed ora qualcosa di completamente diverso. Beh no, non proprio. Con questo post intendo inaugurare in effetti una nuova sezione, quella delle letture, anche se il criterio sarà il medesimo già adottato per i dischi recensiti altrove. Ci starebbe un preambolo più o meno ampio sul mio rapporto con i romanzi, ma cercherò di farla breve per non annoiare. In passato ho sempre letto parecchio (alle medie e al ginnasio ero un mostro in questo senso) ma con gli studi universitari ben avviati questa passione ha subito uno stop brusco quanto non ben motivato: manuali e libri di testo, saggi in abbondanza, ma letteratura sempre meno e con sempre minor entusiasmo. Dopo la laurea lo zero assoluto, solo musica a getto continuo. Bene, la scorsa primavera ho ricominciato timidamente a leggere e non mi sono più fermato. Devo ammettere che ho scelto di trattarmi discretamente bene: il libro del "nuovo inizio" è stato la 'La versione di Barney', che volevo affrontare sin dai tempi del suo imprevisto boom italiano, quindi dieci anni o giù di lì. Tra gli altri mi sono dilettato con opere veramente ottime come 'La Schiuma dei Giorni' di Boris Vian, 'Eureka Street' di Robert McLiam Wilson e 'Hey Nostradamus' di Douglas Coupland, autori che non conoscevo minimamente. Poche le delusioni – e comunque parziali – legate a grossi calibri come Houellebecq o Palahniuk di cui avevo sempre sentito dire cose strepitose. Con 'Corri Coniglio' di Updike ho invece iniziato ad affrontare alcuni classici del romanzo americano del dopoguerra, annotati nella mia agenda da tempo immemore. La vera impresa in tal senso è stata rappresentata da questo colosso, un testo che mi feci regalare anni fa e che iniziai a leggere due o forse tre volte, senza riuscire mai ad arrivare neanche alla centesima pagina (su quasi mille, con carattere microscopico e margini striminziti). Avercela fatta ora in un mese scarso, per giunta con buona continuità d'impegno anche nei momenti di maggior pesantezza mi ha convinto della bontà di questa mia fase di rinnovato interesse per il romanzo. Non credo che ricadrò in un buco di alcuni anni come l'ultima volta, anzi. Con 'Gravity's Rainbow' è mia intenzione fissare su questa pagina anche dei brevi resoconti dei testi appena terminati, come da mia recente tradizione su Anobii. Se è vero che io non posso spacciarmi per critico musicale nonostante la già discreta mole di recensioni e live report pubblicati online su vari siti negli ultimi quattro anni, è assolutamente ovvio che non possiedo alcuna qualità né quelle necessarie competenze che facciano di me un critico letterario. Ho scritto e scrivo questi pezzi (i vecchi evito di riportarli qui ma lo farò con i nuovi d'ora in avanti) solo per puro piacere personale, come traccia della lettura o per ricordarmi in futuro cosa mi aveva colpito di un determinato romanzo o autore. Scrivo da dilettante, come sempre, e questa è la vera linea comune con le recensioni di dischi e concerti. Un ultimo chiarimento prima del pezzo scritto per Anobii (purtroppo non lo si può linkare direttamente. Il link dalla prima immagine porta direttamente al mare magnum delle recensioni in italiano sull'opera di Pynchon): non mi sento di consigliarlo anche se è di un capolavoro che si tratta indubbiamente. E' un'opera che richiede una pazienza assoluta nel lettore, un libro monumentale e forbitissimo che tende a sviare, illudere, annebbiare, per poi tornare sul sentiero e divagare nuovamente, lasciando una serie di impressioni più generali, un senso diciamo, ma non permettendo di cogliere una miriade di riferimenti culturali a tutto campo. Può essere spossante, sgradevole anche. Nella parte finale deraglia evidentemente dai binari della logica ma non smette di rivelare un suo oscuro fascino, un personale magnetismo. Ed è scritto bene, veramente bene. Se non li conoscete comunque, ed avete voglia di abbandonarvi a qualcosa di non così ferocemente impegnativo, approfittate dei primi quattro titoli che ho citato più su. Difficilmente resterete delusi.

Opera apocalittica e dissacrante, autentico Moloch letterario, ‘Gravity’s Rainbow’ è considerato a ragione un capolavoro tra i romanzi postmoderni. Servendosi di una scrittura farcita, stracolma di citazioni, motti, arguzie, poesie e canzoni, una prosa febbrile – discontinua e coltissima – che stordisce ed affascina, Pynchon delinea un personale affresco simbolico su vecchi e nuovi miti, sulla guerra fredda, sulla paranoia individuale e collettiva come specchio di un irriducibile baillamme emotivo e sociopolitico, sull’identità negata e sulla prevaricazione che condiziona ogni forma di rapporto tra esseri umani. Gli insistenti richiami alla storia (meglio, alle storie), alla scienza ed alla tecnologia, sono solo il vestito di un testo che in realtà intende raccontare il continuo presente di un’umanità dal passato incerto e senza alcun futuro, anche se immortale: abbruttita, brutale, infelice e mai veramente libera. Come la lampadina Byron, capace di una presa di coscienza su di sé eppure condannata all’impotenza, al rancore e alla solitudine.  Le prime tre parti del libro (Londra sotto i razzi tedeschi, vicende al Casinò Hermann Göering, peregrinazioni nella Zona) sono costruite da Pynchon per accumulo dando l’illusione di un disvelamento della realtà che sarà poi negato dall’incredibile vortice scatenato nell’ultimo capitolo. La trama è costantemente tradita, resa incerta da uno sproposito di ellissi, ubriacata dall’aprirsi frenetico ed improvviso di sottotrame, di sottotracce, di lunghe parentesi nelle parentesi. Il bello della scrittura dell’autore sta proprio in questa invadente ed inebriante confusione di spunti, sempre e comunque ricondotti all’origine del senso, strappi immancabilmente ricuciti o rabberciati con una bella sfilza di topoi (in guisa di toppe), avendo cura di guidare il lettore, di tirare sempre le fila della sua attenzione, di aiutarlo ad uscire dalla pazza foschia alzatasi nella messe di rimandi profusa. Assumono i contorni di lunghe narrazioni oniriche e minacciose queste prime tre parti, realtà sospese, illusorie, policrome e cangianti, come l’arcobaleno appunto, un teatro dell’assurdo in cui però tutto e tutti sono strettamente collegati da un unico filo, dove quasi nessuno muore e chi muore è come obbligato a riemergere in qualche delirante seduta spiritica. Poi nell’ultima parte questo sfiancante gioco di digressioni, di specchi deformanti, condito dall’immancabile humor caustico e dalla sublime predilezione per il grottesco si chiude dopo l’impennata, avviandosi ad una rovinosa caduta verso il caos. Un crollo progressivo ma repentino, inesorabile, con lo sfarinamento della trama e delle pur labili certezze del lettore in un marasma che certifica ed elegge a modello la nullità dei confini tra passato e presente, le già fragili separazioni tra plausibile e fantastico, miscelando in un mixer allucinato i tratti portanti dei vari personaggi principali con l’imporsi della gravità che trascina il razzo al suolo. Non c’è inizio, non c’è fine. Ogni logica è sconfessata insieme al principio di causalità – in barba a Pavlov e al suo modesto devoto officiante Pointsman – e inevitabilmente ci si perde senza più appigli validi. Tyrone Slothrop è quanto di più simile ad un protagonista in questo ribollente mosaico di figurine di carta, ma forse è solo uno specchietto per allodole, schiantato in una impietosa frammentazione identitaria che i suoi tanti nomi (lo Slothrop presente e i suoi avi-duplicato, Rocketman, Ian Scuffling, Max Schlepzig, il mitico maiale Plachazunga) evidenziano e che la sua picaresca odissea nella Zona non solo non può colmare ma rende anche quanto mai drammatica ed evidente, irrisolvibile. Un po’ come questo titanico capolavoro, difficilissimo da assimilare, impossibile da trattenere.
 

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Midlake & Beach House @ Magnolia, Segrate (MI)
13-07-2010

 

E' davvero difficile, per quanto mi riguarda, non dirmi d'accordo con quanto scritto da Cristiano nello stringato (ma esaustivo) live report di questo lussuosissimo doppio appuntamento dell'estate 2010. I Beach House ed i Midlake alla prova del fuoco live, finalmente, per un discreto estimatore di entrambi come il sottoscritto. "Discreto estimatore" è corretto. Per entrambe le band statunitensi non sono partito proprio dai primi passi ma dai secondi, quei sophomore albums che rispondono ai nomi di 'Devotion' e 'The Trials of Van Occupanther' e che negli anni passati ho letteralmente consumato a suon di ascolti (fisici, vivaddìo, non digitali eh). Per i due gruppi il 2010 ha rappresentato l'occasione propizia per far uscire in contemporanea (stesso periodo, forse addirittura stesso giorno) il fatidico terzo LP. Due dischi pregevoli 'Teen Dream' e 'The Courage of Others', ne ho già scritto su questa pagina (cliccate sulla pagina qui sotto) e ci tengo a ribadirlo. A fine dicembre  si sono confermati agilmente tra i migliori lavori ascoltati in tutto l'anno, con una seppur modesta preferenza per il nuovo dei texani rispetto a quello del duo di Baltimora: più in linea con l'attuale apprezzamento per il revival del folk britannico di fine anni '60 (sempre sull'onda lunga di certi autori – Espers, Greg Weeks, Six Organs of Admittance, Joanna Newsom – che nell'ultimo lustro sono riusciti a stregarmi), mentre la svolta pop adulta dei Beach House non ha saputo sciogliere del tutto alcune delle riserve che avanzai un annetto fa in sede di recensione, palesando maggior coraggio ma anche minor fascino rispetto allo splendido predecessore. Quello del coraggio potrebbe essere in effetti un comodo filo conduttore per questa risicatissima cronaca della serata. Il coraggio che i Midlake hanno sfoggiato sin dal titolo del disco, quindi nella rigorosa adozione di uno stile assai meno diretto ed immediato che non nella loro fortunata opera seconda, ed infine nella scelta di presentarsi dal vivo in una formazione molto più rock del previsto, con lo sproposito di cinque chitarristi cinque ed occasionali interventi in technicolor di piano e fiati, con virate verso il prog tutt'altro che timide. Il coraggio lo ha esibito durante l'intero set una spavalda Victoria Legrand, fedelissima al suo look con giacca d'ordinanza nonostante temperature abbastanza sfiancanti. Il coraggio lo ha messo in campo la regione Lombardia, capace di pretendere un balzello di parcheggio di cinque euro in un sito altrimenti non raggiungibile, fuori Milano. Il coraggio lo hanno dimostrato i potenziali fan del nord Italia, giunti infatti in numero alquanto basso rispetto alle attese ad uno spettacolo doppio con biglietto di ingresso dal prezzo a dir poco irrisorio (10 euro), viste le due formazioni sul palco. Il coraggio è stato infine anche il nostro, al cospetto di un'orda di zanzare che in questa zona, in piena estate, sono feroci al punto giusto. Chiusa la premessa occorre entrare nel merito delle rispettive performance. I Beach House hanno incantato, ma solo a tratti. Efficace l'impatto visivo freddino delle luci violacee/azzurrine (ma Victoria sarebbe stato carino vederla anche in viso ogni tanto) e della semplicissima scenografia a base di ombrelloni di peluche bianco. Preziosa la spinta pop conferita evidentemente anche in sede live da una semplificazione sonora alquanto evidente, con puntate verso le tinte pastello di un synth forse fin troppo protagonista (limitata la chitarra, senza dubbio).

 

L'incantesimo annotato nel copione lo si è avvertito distintamente, così come la qualità dei brani proposti, anche se una scaletta dominata da 'Teen Dream' non ha saputo corroborare il senso di magia che questa band e questa cantante sanno esprimere con indubbia naturalezza. Qualcuno ha detto che è mancata l'onda travolgente del nuovo disco, il che probabilmente non è falso (nonostante i titoli nella setlist). Personalmente io ho sentito l'assenza dei vecchi brani e della loro bellezza meno facile. Le splendide versioni di 'Gila' e 'Heart of Chambers' non mi hanno consolato che in parte, confortandomi anzi in merito alla bontà di questa impressione da vecchio (?!) nostalgico anche un po' rompicoglioni. Ottime comunque alcune delle canzoni recenti proposte, in particolare 'Walk in the Park' e 'Zebra', evidentemente già eccelse di loro. In controtendenza 'Norway': se su disco la detesto, dal vivo ha reso benissimo. Le maggiori disparità di vedute nel gruppo dei compari del forum di indie-rock.it sono emerse a proposito della performance dei barbuti texani guidati da Tim Smith. Perché sia ben chiaro, tengo subito a precisare che mi ritrovo nelle parole di Cris al mille per mille. La scelta di dare spolvero al proprio fantastico repertorio reclutando un altro paio di musicisti rispetto alle session di studio, puntando senza esitazioni il piede sull'acceleratore con una prova sanguigna e davvero robusta, ha pagato, eccome. Forse è mancata un po' di varietà negli arrangiamenti ma, personalmente, il coraggio (ancora!) nel rivoluzionare la veste delle vecchie (e giustamente osannate) canzoni di 'Van Occupanther' si meriterebbe il plauso anche del fan più osservante. Eccellente la compattezza del gruppo, godibilissimo il sound chitarroso conferito ai pezzi, anche nei passaggi più azzardati e a rischio pacchianeria. Io sono il più accanito detrattore dei cazzeggi hard-rock, ma la scelta di infiocchettare le canzoni con immancabili assoli elettrici (affidati ad un axeman giovane e spregiudicato) l'ho trovata tutt'altro che scandalosa. Sarà che avevo accolto molto bene la svolta stilistica dell'album, sarà che mi trovo in un periodo in cui ho una voglia matta di rock'n'roll (e l'ultimo Les Savy Fav nelle primissime posizioni del 2010 lo conferma), ma il concerto dei Midlake mi è sembrato entusiasmante, trascinante, coinvolgente e divertente. Altri l'hanno bollato un po' ferocemente come una squallida ostentazione di muscoli ed assortiti onanismi musicali, una forzatura che avrebbe limitato la genuina bellezza del loro disco più celebre. Sinceramente non trovo. Musicisti davvero bravi, tutti quanti, Tim ben disposto a lasciare loro la ribalta ed una scaletta che non fatico a definire superlativa, con tutte le vecchie meraviglie che sognavo di sentire (da 'Young Bride' a 'Bandits', da 'Roscoe' a 'Branches') e i migliori – proprio solo i migliori – episodi di 'The Courage of Others' ('Rulers, Ruling All Things', 'Acts of Man', 'Winter Dies' sugli scudi), il tutto impossibile da raccogliere senza partecipare cantando. Comunque la si descriva, un'esperienza travolgente.

SETLISTS. BEACH HOUSE: 'Turtle Island', 'Used To Be', 'Walk In The Park', 'Norway', 'Silver Soul', 'Gila', 'Lover of Mine', 'Home Again', 'Zebra', 'Heart Of Chambers', 'Take Care', '10 Mile Stereo'; MIDLAKE: 'Children of The Grounds', 'Winter Dies', 'Young Bride', 'Van Occupanther', 'The Courage of Others', 'Rulers, Ruling All Things', 'Roscoe', 'Acts of Man', 'Core of Nature', 'Bandits', 'Head Home', 'Branches'.

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Il vecchio Bob

 

Se non c'é notizia dietro ogni nuovo album di Robert Pollard, perché perdere tempo a parlarne? Giusta osservazione. Allora, Robert Pollard non fa notizia, mettiamola così, sembra un dato di fatto. Perché scrivere allora qualcosa del suo nuovo album – nuovo finché non uscirà il prossimo, ovviamente, diciamo tra cinque o sei mesi – 'Space City Kicks', quando ho lasciato andar via senza mai citarli i suoi quattordici predecessori, o quelli pubblicati a nome Boston Spaceships, o Takeovers, o chissà che altro. Beh, in primo luogo perché mi sembra giusto finalmente spendere due parole per lui. Assurdo aver tirato su questa baracca di blog venticinque mesi fa senza aver mai neanche nominato uno degli autori fondamentali con i quali sono cresciuto negli anni '90. Un artista più attuale e attivo che mai, oltretutto. Bene, allora approfitto di questa nuova uscita per dire che i Guided By Voices mancano come l'aria nell'asfittica scena del rock indipendente. Ogni anno perdiamo un sacco di tempo a celebrare questi o quegli emergenti, nuove sensazioni, nuove vie alla musica alternativa, nuovi rimescolamenti stilistici per lo più inutili e già decotti al battesimo del fuoco, l'ennesima replica warholiana di repliche warholiane precedenti. A far difetto però non è tanto – o non solo – la qualità sul piano formale. A mancare, non mi stancherò mai di ripeterlo, è quell'urgenza, il sanguinamento nei suoni e nelle parole, la dinamite di una musica che non nasca con le ganasce delle pianificazioni a tavolino, del prodotto di marketing, dell'immancabile strizzatina d'occhio all'ascoltatore. Sembra uno di quei luoghi comuni che io per primo ho sempre cercato di negare e combattere, eppure le classiche buttate giù per gli ultimi due/tre anni non lasciano molto spazio ad una diversa verità: il livello si è abbassato inesorabilmente, già solo un confronto tra gli ultimi due decenni si risolverebbe con esiti impietosi e la tendenza sembra ancora più marcata con gli sconfortanti mesi che ci siamo appena lasciati alle spalle. Giusto parlare dei Guided By Voices e della loro assenza pesante, giusto farlo oggi che Pollard ha licenziato forse il suo album solista più guidedbyvoicesiano e si appresta a riesumare la vecchia band per una serie di concerti americani. Ebbene, con il vecchio Bob tutto è più complesso. Leggi: infarcito, discontinuo, smodato, imprevedibile. E d'altro canto con il vecchio Bob tutto è molto più semplice: lineare (nella discontinuità), riconoscibile, sempre identico a se stesso. Pollard è davvero uno di quelli che non cambiano mai, e grazie al cielo. Mai una virata verso il noise-pop paraculo oggi così di moda (anche se – è certo – ai tempi poteva essere un compagno di banco dei Jesus & Mary Chain); mai un dischetto con le stimmate weird o il rancidume tipico di casa Woodsist, per quanto i pischelli lanciati dalla label newyorkese siano tutti andati a lezione dal maestro elementare (no, non è uno scherzo) di Dayton, Ohio; nessuna inappropriata svolta folk, o country, o dark-wave, o synth-pop, nessuna canzone inquinata dalla solita stramaledetta elettronica. Nient'altro che vecchio rock strascicato, tagliente, rombante, di tanto in tanto confezionato nella carta colorata di qualche squisita primizia pop o dilatato in fugaci miniature post. Ecco, "dilatato" in realtà non è proprio il termine più adatto a fotografare la sua musica. Se c'é un elemento che più di altri ha rappresentato la grande specificità pollardiana nel microcosmo indipendente è stata la sua propensione al frammento, una vera e propria arte in un certo senso. Impressioni più che canzoni, senza riguardo per i canoni delle case discografiche ma con il placet rinnovato della Matador, la sua casa negli anni d'oro.

 

Questo nuovo disco ha ridestato in me il piacere assoluto provato quasi immancabilmente al cospetto dei Guided By Voices. Dentro gli ingredienti sono proprio gli stessi, ovviamente con meno brillantezza rispetto a capolavori come 'Alien Lanes' o 'Bee Thousand' ma con intatta la fragranza sincera della musica scritta e suonata con passione, senza ragionarci troppo su. Un giorno forse scriverò un pezzo apposta per la band, magari anche presto se la momentanea reunion si trasformasse in qualcosa di più serio. Per ora posso limitarmi a dire che il primo loro disco acquistato a scatola chiusa è stato 'Under The Bushes, Under The Stars', ed è stata per quella mia versione ancora minorenne una mezza folgorazione. L'incontro con quel che aveva un senso definire indie-rock, prima che le etichette fuorvianti della promozione interessata sputtanassero anche quella definizione. In quell'album vive l'essenza artistica di Pollard, una spinta che si intuisce abbastanza nettamente anche nel recente 'Space City Kicks' (meno che nei GBV ma comunque più che in tanti altri lavori realizzati da solo, il che è incoraggiante). A lasciare il segno sono certe sgommate di pop-rock schematico e molto alla mano, in questo caso particolarmente ben riuscite: pezzi limpidi e trottanti come 'Touch Me in the Right Place At the Right Time', 'Something Strawberry', 'Stay Away' e soprattutto 'I Wanna Be Your Man in the Moon' – sofficemente rock, ruvidamente easy – canzoni che il vecchio Bob non ha mai smesso di scrivere e che a me hanno ricordato quasi subito l'immediatezza compatta di 'Mag Earwhig!'. Ecco, avrei voluto scrivere "del capitolo più accomodante e curato della sua discografia", poi stamattina ci ho dato una ripassata e…beh…non l'ho trovato certo meno incendiario degli altri episodi. Il ché in un certo senso andrebbe a ridimensionare proprio 'Space City Kicks', cosa che non ho intenzione di certificare. Il nuovo Pollard, come il vecchio, è gradevolmente arruffato e sbilenco ('Sex She Said'), gronda riverberi e non lesina sulle bordate di sano nichilismo, sempre e comunque rispettando il verbo bozzettistico della vecchia formazione. Dall'uomo che ha sconfitto anche Nick Saloman a.k.a. Bevis Frond alle olimpiadi dell'incontinenza e della sovraesposizione discografica, era lecito attendersi non solo LP a scadenza fissa ogni cinque mesi, ma anche opere stipate all'inverosimile di brani. Non fa eccezione questo titolo più recente anche se, fermandosi a 18, forse è addirittura sotto media. Per il resto tutto quanto coincide con l'impronta sonora che Bob ha sempre regalato di sé: tornano a fare capolino la bassa fedeltà rumorista ('Picture a Star', l'iper-pollardiana 'Spill The Blues'), l'amarezza gentile in salsa elettracustica ('Woman To Fly': il genere è 'Not On War', per chi la conoscesse), incubi sonori tutti laminature e cambi di ritmo ('Children Ships') e addirittura motivetti unplugged con il dono della sintesi ('Into It'). Già, il dono della sintesi. Beh, nel vecchio Bob questa è sempre stata una preziosa certezza e guai a parlare di riempitivi anche se di rado si va sopra ai due minuti di lunghezza. Pure dei mini-segmenti come questi sono abbastanza se riescono a tradursi in veri e propri inni al disincanto: anche a questo giro ce ne sono diversi, dalla superba (autobiografica?) 'Follow a Loser' alla deriva decadente di 'Tired Life', ritratto impeccabile del rocker indifferente che non nasconde se stesso né la propria ostinata riluttanza al compromesso. Il vecchio Bob, appunto.

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Acid Mothers Temple @ Spazio211
20/05/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Per la sempre ricchissima serie dei concerti destinati a rimanere sepolti nell'oblio, non posso proprio evitare di dedicare il giusto spazio a quello che, per me e le mie povere orecchie, è stato senza dubbio uno degli avvenimenti di punta (musicalmente) della passata stagione, nonché uno dei live più bizzarri ed insieme devastanti di sempre. Acid Mothers Temple. A chi li conosce il nome dice già tutto, mentre per gli altri potrebbe essere illuminante un report anche sgalfio come quello che ho intenzione di tirar giù senza particolare cura qui in pausa pranzo, a corredo della galleria fotografica relativa a quella serata a Spazio, il maggio scorso. Un report può essere sufficiente, l'ho sperimentato io stesso. Quando questi deliranti freak giapponesi vennero annunciati nel programma della primavera passata mi segnai il nome da parte, pronto ad approfondire come sempre quando i riferimenti di massima mi stuzzicano. E' quel che ho provato a fare anche con la band di Nagoya quindi, ma la frenata è stata repentina. Una terrificante discografia di 51 album pubblicati in poco più di dieci anni, senza contare EP, split, collaborazioni, amenità soliste e collateralità assortite, imprevisti e probabilità. E nello specifico, brani mai più brevi di sei minuti e con una media tranquillamente superiore ai quindici, spesso e volentieri con autentiche orge kitsch capaci di sposare con strafottenza il prog più ruspante, i droni, le canzonette pop, i canti gregoriani, i canti tibetani, Morricone, l'hard rock, il kraut e le ghironde occitane, magari schiantando tutto nello stesso pezzo. Un'assurdità insomma, inutile anche solo provarci per poi essere clamorosamente smentiti da qualcosa di completamente diverso, con buona pace delle pur pallide attese. E così, per una volta, ho accettato di buon grado di presentarmi quella sera senza aver ascoltato un solo minuto della musica di questi coltissimi pirati del suono nipponici, completamente vergine in tal senso, un po' come mi era capitato di fare diversi anni fa con degli esordienti Offlaga Disco Pax. Ecco, se in quel caso la mia sorpresa fu totale, considerando che non avevo alcuna informazione su di loro e venni trascinato a vederli senza preventivo avvertimento, per gli Acid Mothers Temple la "rivelazione" è stata mitigata (ma non annullata, no davvero) dalla lettura del live report di una loro esibizione torinese (al caffé Procope, niente meno!) di cinque anni prima, scovato su internet forse proprio il giorno del concerto ed assaporato con una certa incredulità da parte mia. Col senno di poi, le parole di chi in città mi ha preceduto in questo tipo di esperienza estrema (sì, diciamolo pure) si sono rivelate quanto di più fedele a ciò cui ho avuto la fortuna/sventura di assistere dalla prima fila del locale di via Cigna, un piede sul pavimento ed uno sull'unico gradino che porta al palco. Per questo motivo ho deciso di postare anche il link di quello stesso pezzo, cui si accede direttamente dalla seconda immagine in alto.

 

L'onore di aprire una serata che mai avrei immaginato così lunga è toccato ad una di quelle band locali più conosciute all'estero che non in città o in Italia: non i Disco Drive questa volta, né gli onnipresenti Larsen, bensì gli Stearica, gruppo di chiara matrice Shellac che proprio con gli Acid Mothers Temple ha realizzato il suo lavoro più recente, accompagnando i moderni vandali del Sol Levante nelle ultime due scorribande in giro per il mondo (oriente compreso). Quasi inevitabile allora che le nostre misconosciute glorie locali indossassero per l'occasione la maglietta ufficiale della ben più nota formazione nipponica, dove quel "nota" va logicamente contestualizzato nell'ambito delle nicchie indipendenti di musica d'avanguardia. Della loro prova niente da segnalare tra le infamie o tra le lodi, eccetto la performance davvero straordinaria del batterista Davide Compagnoni, impressionante per velocità e potenza. Temevo in una potenza di fuoco anche maggiore con gli headliner, e invece loro si sono presentati sul palco con pochi mezzi malridotti ed intenzioni assai lontane dal furibondo ma prevedibile post-core casereccio. Davanti a me Hiroshi Higashi, specie di santone dai lunghi capelli bianchi, armato di chitarra Fender gialla apparentemente uscita da un ciclopico pacchetto di patatine e di un più familiare sintetizzatore Roland, chiaramente il suo gingillo preferito. Sulla destra un chitarrista robusto e non meno pittoresco, Makoto Kawabata, con spaventosa criniera corvina e riccioluta, elettrica rabberciata alla meno peggio e pantaloni neri attillati. Molto meno suggestivo l'attempato batterista, classico contabile al soldo degli Yakuza nei film di Kitano, mentre l'annunciato bassista folle è stato rimpiazzato da un non meglio identificato belga, con aria da neo-pensionato e basso a sei corde. Questo il cast, ma il concerto? Beh, per quello mi riduco veramente a quattro parole in croce in coda alla recensione: non saprei bene come descriverlo se non limitandomi a dire che si è trattato di una sorta di lunghissima ed avvolgente trance. Quattro pezzi in tutto, ciascuno dei quali di oltre mezzora, dall'andatura lenta e stratificata, insinuante, con scartamenti e variazioni esigui in un magma sonoro veramente prossimo alla mia personale idea di mantra. Ridotte al minimo le parti cantate – si fa per dire – affidate alla vocina di Higashi, il guru della reiterazione serafica, dello sfinimento gentile, del sibilare dondolante ed ininterrotto. Potrà sembrare un pacco clamoroso messo in questi termini, ed il fatto che chi mi ha accompagnato quella sera si sia presto assopito su uno dei divanetti laterali dello Spazio parrebbe confermarlo. E invece…, invece no, non per me almeno. Oltre due ore di fantasmagorica e sibilante ipnosi space mi hanno positivamente sconvolto, quietandomi dopo i tuoni dell'artiglieria pesante dei nostri Stearica. Seguire il flusso sinuoso delle parti elettroniche e i ricami apparentemente controllati delle chitarre è stato molto più divertente di quanto possiate immaginare, un po' come fotografare questi movimentati pazzoidi con gli occhi a mandorla su quel palco. L'incantesimo veniva spezzato solo nelle prolungate code dei singoli brani, aperte finalmente alle accelerazioni elettriche della pattuglia, alle impennate del synth cinguettante e alle atroci lacerazioni di quelle chitarre così improbabili. Pensavo che il leader fosse Higashi ma proprio questi spettacolari sviluppi acidi mi hanno convinto – cosa poi verificata in rete – che la vera guida del gruppo è Kawabata. Proprio lui che, in principio controllatissimo, tendeva a rivoltare i brani in autentiche battaglie con la sua chitarra: percossa, fatta roteare, schiantata, suonata sulla testa o a mo' di violino in una schizofrenica progressione d'enfasi teatrale. Space rock trasmutato in shoegaze convertito in post-rock dei più virulenti, questa la sintesi. La cosa più assurda in una serata tanto fuori criterio da risultare entusiasmante e divertentissima? La rottura dell'illusione. Immerso in quello stato di inspiegabile semi-incoscienza, in quella penetrante bagna sonora, tornavo in me di tanto in tanto pensando "Che cacchio scriveva quel tizio? Orecchie al collasso? Le mie orecchie vanno da Dio", e giù di nuovo in apnea per un'altra decina di minuti. Questa sensazione è durata tutto il concerto, anche oltre. Quando mi hanno richiamato, alla fine, mi sono reso conto che no, non era proprio tutto a posto. Nessun dolore, solo un oceano di ovatta ed io in balia di un macroscopico effetto collaterale, costretto poi a leggere il labiale a chiunque per un paio di lunghe giornate.  

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American Gong

 

Un anno di stagionatura è intervallo di tempo sufficiente a delineare il verdetto sull'ultimo album dei Quasi, anche a chiusura del cerchio dell'attenzione dedicata alla band di Portland su questa pagina negli ultimi tempi. Ero intenzionato a riscriverne in termini non certo entusiastici, sull'onda di un dato non proprio generalizzabile ma comunque singolare: dal loro concerto di Maggio penso di non aver più ascoltato 'American Gong', di sicuro non ne ho avuto il desiderio. L'ho rifatto questa mattina come rispolverata in vista del pezzo e devo confessare che l'impressione è stata ben migliore delle aspettative. Già a dicembre l'avevo congedato riservandogli una posizione onorevole nella classifica dei dischi dell'anno, sicuramente condizionato dalla mia naturale simpatia di partigiano e dall'energica virata verso il rock espressa a grosse linee con il reclutamento di Joanna Bolme e la firma per la nuova etichetta. Dopo tutto questo tempo l'ho ritrovato molto più vivo e sensato di quanto ricordassi. Ci sono dei riempitivi, per carità, c'é qualche passaggio non proprio esaltante, ma la sua fisionomia di album penso d'averla colta oggi per la prima volta e mi ha fatto piacere. Era il limite che intendevo mettere in evidenza paragonandolo più al trittico di dischi usciti per Touch & Go prima di questo – sicuramente più prossimi per il generale umore torvo e per la cattiveria non filtrata – che non alla terna benedetta degli anni d'oro, quelli della Domino. Ad oggi un senso è riemerso, un filo rosso che lega le diverse canzoni del disco. "No More Empire". L'aveva descritto così Sam nell'intervista di Bologna, una risposta molto meno buttata lì di quanto avessi inteso al momento, considerando il carattere apparentemente meno politicizzato di quest'ultima loro fatica. Anche i meriti ora sono molto più chiari. In primo luogo la conferma che un pezzo come 'Repulsion' (e in parte anche altri) è esattamente quello che volevo sentire dai Quasi dopo la lunga assenza: rabbia, nervi, tetano rock. Azzardo che si tratta forse della mia canzone preferita del gruppo di Portland da parecchi anni a questa parte. Non solo. Il corredo qualitativo resta discretamente alto sui medesimi registri, con una festosa isteria a farla da protagonista in diversi momenti ('Bye Bye Blackbird', 'Rockabilly Party', 'Little White Horse') e la riproposizione non rinunciataria di alcuni tra i migliori cliché coomesiani (ribadisco che anche 'Everything & Nothing at All' in tal senso è una canzone notevole). E' quanto serviva al sottoscritto per ammettere 'American Gong' nel club dei dischi dei Quasi degni di attenzione, ovverto tutti. Non so poi se fosse solo una vena particolarmente benevola la mia di stamattina ma, abbastanza incredibilmente, anche 'Laissez Les Bon Temps Rouler' mi è sembrata dignitosa e non così campata in aria. Romanticismo di grana grossa, non ci piove, ma sufficientemente sincero da meritarsi comunque rispetto. Nella recensione scritta per Monthlymusic.it avevo sicuramente radicalizzato le mie opinioni, parlando di 'American Gong' come del capitolo finale di questo precipitare senza speranze verso l'oscurità. Appurato che non si tratta dell'opera di due (anzi tre) spensierati ottimisti, c'é da registrare comunque che quelle mie lapidarie parole erano eccessivamente orientate dalla comodità della forzatura, da una parabola sulla carriera dei Quasi che sta più nelle recensioni dei critici (anche fan) che non nella realtà effettiva. Coomes e la Weiss non sono davvero due pazzi paranoici incarogniti verso l'universo mondo. Nella sua innegabile natura di invito alla disillusione si tratta in realtà di un album molto più gioioso di quanto non pensassi dodici mesi fa, anche Sam l'aveva rivendicato quando ce ne aveva parlato. E questo è tutto direi. Approvato. 

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