Month: dicembre 2010

Pavement @ Atlantico, Roma
24-05-2010

 

Piaccia o meno, il 2010 sarà ricordato, in fatto di musica alternativa, come l’anno del ritorno in scena dei Pavement. In dodici mesi caratterizzati da una sconfortante carenza di lampi veri, la raccolta retrospettiva ‘Quarantine The Past’ (pur frutto di scelte compilative abbastanza discutibili) avrebbe in sé tutti gli ingredienti per sbaragliare una sì fiacca concorrenza, se solo si trattasse di un disco di inediti. L’album doveva valere come stuzzichino in previsione del lunghissimo tour che ha riportato la band di Stockton in giro per i palchi di mezzo mondo. Tutto questo – uscita preventiva e carrozzone live – ha funzionato alla perfezione. Eppure non si può essere del tutto soddisfatti. Oddìo, vivendola con leggerezza e superficialità avrei potuto scriverne esclusivamente in termini lusinghieri. Avessi vent’anni o giù di lì credo l’avrei fatto, perché lo spirito giusto da adolescenti è quello ed il fatto di aver trovato all’Atlantico live un grandissimo numero di ragazzini è stato incoraggiante, molto positivo. Passati i trenta tuttavia, avendo comunque vissuto almeno di striscio i Pavement pre-scioglimento, un minimo di disincanto era pur prevedibile. Per questo nel report del concerto romano (immortalato purtroppo solo da fotografie della mia compatta, off limits tutte le reflex) ho voluto partire dall’idea di bolla in cui il pubblico è stato avvolto, sorta di velo d’illusione che per un paio di ore è riuscito ad annebbiare la mente dei presenti tenendo sotto scacco – meglio, sotto ricatto – le emozioni. Per me almeno è stato così. Certo non ho mancato di dare ampio risalto ai molteplici aspetti positivi della loro esibizione e dell’intera serata, dell’atmosfera, del coinvolgimento profondo degli spettatori. Però non posso evitare di ripensare a quello show, adesso come a caldo, con una certa freddezza. Ho scritto che i Pavement non hanno tradito i Pavement, il ché è inconfutabilmente vero. Non si sono persi in pose da divi, in sterili atteggiamenti autocelebrativi, hanno rispolverato e rimesso in scena loro stessi, senza sostanziali variazioni sul tema. Un bel rosario di hit da battaglia, fotografia degli anni d’oro di un genere, della sua belle epoque. Il tutto con fare ordinario, da monelli scapestrati di una volta, con l’unica finalità apparente nel divertimento condiviso. Forse. Beh, diciamo “anche”, si spera. Tutti gli indizi sembrano orientare i ragionamenti in questa direzione: la scenografia sobria, una sceneggiatura senza fronzoli, la genuinità con cui ci si sono presentati, spelacchiati ed imbolsiti ma anche commoventi. Tutti gli indizi tranne uno, in realtà. L’insistenza con cui hanno puntato – sono stati costretti forse – a replicare il passato senza aggiungere nulla di nuovo. Il presentarsi come congelati in un 1994 che è ormai così remoto da essere solo un ricordo pallidissimo, almeno per quelli come me. Non ha giovato. Non ha permesso di andare al di là della classica operazione nostalgia (anche non volendo considerare come rilevante, recitando la parte degli ingenui, il lato economico dell’operazione), buona solo quando la si vive ed in fondo fine a se stessa. Non ha consentito di elaborare un giudizio completo ed attendibile sul loro attuale stato di salute creativa, né di liberare completamente l’entusiasmo, cosa sin quasi necessaria considerato uno scenario emotivo prossimo alla perfezione. Per quello, forse, valga la speranza espressa in coda alla cronaca dell’evento: che gli stimoli a tal punto evidenti, presumibilmente non simulati dai cinque californiani, siano convogliati al più presto in un nuovo progetto condiviso, in nuove canzoni e in nuovo tour. In un nuovo presente, in pratica. E’ chiedere troppo? Magari i prossimi mesi ci regaleranno una risposta apprezzabile in tal senso e sarà quello il momento per fare festa, finalmente.

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Classificone 2010

Dicembre inoltrato, tempo di bilanci. Ho scritto poco di dischi nuovi quest'anno, ma tra ascolti e concerti mi sono superato, ragion per cui la graduatoria sarà più ricca del solito. Cento posizioni, e solo per gli album meritevoli. Tanti altri ce ne sarebbero ma ho deciso di tenerli fuori perché non mi hanno ispirato a sufficienza. Delusioni in qualche caso, dove era lecito aspettarsi di più. Lavori di per sé sufficienti, appena appena magari, ma senza le scintille che nome e fasti anche recenti imporrebbero. Penso al gelido 'Penny Sparkle' dei Blonde Redhead, osannato incredibilmente da certa critica e stroncato senza pietà da altri, ma anche ai nuovi Anthony, Walkmen e all'altalenante 'Golden Archipelago' degli Shearwater. Ci sono poi dischi da quali non aspettavo nulla di ché e che infatti chiudono nel calderone dei senza infamia e senza lode, come l'eponimo 'Interpol', il ritorno dei Wolf Parade o le insipide minestrine di Band of Horses, Vampire Weekend e New Pornographers. E poi ci sono opere brutte senza appelli, quelle che nemmeno si sforzano di suggerire una pallida scintilla. Il disco di Micah P. Hinson rientra tra i più significativi della categoria, sconsigliatissimo. In termini generali, che dire? Annata caratterizzata da grande abbondanza di cose discrete, senza veri picchi in un senso o nell'altro. Solo tre i dischi molto buoni, uno dei quali – a mio modesto parere – eccezionale. Janelle Monáe è stata la classica sorpresa del tutto inattesa, almeno per me che sono alieno a certi orizzonti musicali. Mai avrei immaginato che un disco tanto lontano dai miei gusti canonici potesse imporsi così in scioltezza, eppure tocca riconoscere che funziona magnificamente. Tono ruspante, vitalità autentica, capacità di parlare al cuore e divertire, ampio ventaglio umorale, produzione e voce pazzesche. Più di tutto il resto, comunque, la sua capacità di suonare assolutamente puntuale, in linea con i tempi, con le mode, con tutto. Ottimo l'album dei Besnard Lakes, tra respiri shoegaze e dilatazioni post nel segno della migliore scuola canadese recente: vibrante, impulsivo, sincero. Sempre a grandi livelli i Deerhunter di Bradford Cox, con il consueto lavoro di brillante e disincantata disperazione elettrica. E' stata anche un'annata nel segno delle voci femminili, visto che oltre alla Monáe e ad Olga Goreas (metà Besnard Lakes) si sono rivelati apprezzabili la monumentale fatica di una Newsom ormai a vele spiegate, una Brisa Roché che è bravissima anche con le ipersemplificazioni easy listening, la scintillante promessa Anais Mitchell con la sua disinvolta folk-opera, la solita eroina romantica Julia Indelicate e quell'altra poetessa per orecchie fini che risponde al nome di Sharron Kraus. Decisamente apprezzabili infine le conferme giunte da alcuni grandi per vie traverse. Kozelek, che eccede in virtuosismi acustici riavvicinandosi come mai prima d'ora alla magia senza tempo dei Red House Painters; i No Age, che tirano fuori dai loro ampli un vero gioiellino noise-pop, nonostante gli immancabili scontenti del partito "prima erano OK, ora fanno cagare"; David Eugene Edwards, che prosegue orgoglioso per la sua via raminga, aprendosi a esplorazioni inconsuete di matrice ora esotica ora ascetica; i Les Savy Fav, che piazzano inattesi, ancora una volta, quello che per il sottoscritto è il miglior disco rock tout court dell'anno (senza post e senza altri suffissi modernisti). Ed infine l'altra sorpresa da questo Jeremy Messersmith e dal suo delizioso indie-pop per cuori semplici. Nell'orgia delle posizioni seguenti le distanze si assottigliano fin quasi a scomparire. Gli ultimi della lista sono comunque da sufficienza piena. Dentro c'è proprio di tutto ma non troverete rap, black, soul, elettronica, minimalismo e cose così: ancora non sono pronto. Ah, non troverete italiani. Ne ho ascoltati pochissimi e sarei troppo parziale, quindi ho fatto che tenerli fuori dal giochino. Il ritorno dei Massimo Volume comunque è validissimo. Ultima nota. Per pigrizia ho copiato lo schema "a scendere" dell'anno scorso, mandando a farsi benedire le intenzioni per una ben più accattivante teasing strategy, procedendo nel senso inverso fino a scoprire il podio. Cosa possa esserci di teasing nella classifica di gradimento del sottoscritto, in fondo, non è dato saperlo. Posso giustificarmi dicendo che quella prospettiva la adottano tutti ed io ho voluto andare contro corrente. Ecco, dirò proprio così ché fa pure figo.

 1. Janelle Monáe
‘The ArchAndroid’
 2. The Besnard Lakes
The Besnard Lakes Are The Roaring Night
 3. Deerhunter
Halcyon Digest
 4. Joanna Newsom
‘Have One on Me
 5. Sun Kil Moon
‘Admiral Fell Promises
 6. No Age
‘Everything in Between’
7. Woven Hand
‘The Threshingfloor’
 8. Les Savy Fav
‘Root For Ruin’
 9. Jeremy Messersmith
‘The Reluctant Graveyard’
10. Brisa Roché
‘All Right Now’
 
**************************************************
 
 11. Woodpigeon
‘Die Stadt Muzikanten’
 12. School of Seven Bells
‘Disconnect From Desire’
 13. Breathe Owl Breathe
‘Magic Central’
 14. Swans
My Father Will Guide Me Up a Rope To The Sky'
 15. Midlake
‘The Courage of Others’
 16. Anais Mitchell
‘Hadestown’
 17. Edwyn Collins
‘Losing Sleep’
 18. Richard James
‘We Went Riding’
 19. The Indelicates
‘Songs For Swinging Lovers’
 20. Sharron Kraus
‘The Woody Nightshade’
 21. Boston Spaceship
‘Our Cubehouse Still Rocks’
 22. Howe Gelb & A Band of Gypsies
Alegrías
 23. Steve Wynn
‘Northern Aggression’
 24. Quasi
‘American Gong’
 25. Northern Portrait
‘Criminal Art Lovers’
 26. The Divine Comedy
'Bang Goes The Knighthood'
 27. Woods
‘At Echo Lake’
 28. Kelley Stoltz
‘To Dreamers’
 29. Titus Andronicus
‘The Monitor’
 30. The Black Keys
‘Brothers’
 31. Ted Leo & The Pharmacists
‘The Brutalists Bricks’
 32. National
‘High Violet’
 33. Clogs
'The Creatures in the Garden of Lady Walton'
 34. Beach House
‘Teen Dream’
 35. Typhoon
‘Hunger and Thirst’
 36. Darren Hayman
‘Essex Arms’
 37. White Pines
‘The Falls’
 38. Mark Sultan
‘$’
 39. Three Mile Pilot
The Inevitable Past Is The Future Forgotten
 40. Grinderman
‘Grinderman 2’
 41. Sufjan Stevens
‘The Age of ADZ’
 42. Girls
‘Broken Dreams Club EP’
 43. Arcade Fire
‘The Suburbs’
 44. Avi Buffalo
‘Avi Buffalo’
 45. Holly Golightly & Brokeoffs
‘Medicine County’
 46. The Vaselines
‘Sex With An X’
 47. Parenthetical Girls
‘Privilege pt. I&II EP’
 48. Broken Social Scene
‘Forgiveness Rock Record’
 49. The Magnetic Fields
‘Realism’
 50. Tame Impala
‘Innerspeaker’
 51. The Weepies
‘Be My Thrill’
 52. Soda Fountain Rag
‘Reel Around Me’
 53. John Grant
‘Queen of Denmark’
 54. The Paradise Motel
'Australian Ghost Hotel'
 55. Horse Feathers
'Thistled Spring'
 56. Builders & Butchers
‘Dead Reckoning'
 57. The Zephyrs
‘Fool of Regrets’
 58. Liars
‘Sisterworld’
 59. Boduf Songs
This Alone Above All Else in Spite of Everything
 60. Dirtmusic
‘BKO’
 61. Pop Dell'Arte
Contra Mundum
 62. Ariel Pink Haunted Graffiti
‘Before Today’
 63. Matt & Physics Club
I Shouldn’t Look As Good As I Do
 64. Blitzen Trapper
‘Destroyer of the Void’
 65. Sambassadeur
‘European
 66. Scout Niblett
‘The Calcination of Scout Niblett’
 67. Thee Oh Sees
‘Warm Slime’
 68. Doug Paisley
‘Costant Companion’
 69. Women
‘Public Strain
 70. Thomas Dybdahl
‘Waiting For That One Clear Moment’
 71. Villagers
‘Becoming A Jackal’
 72. Dragontears
‘Turn on Tune In Fuck Off!!’
 73. The Thermals
‘Personal Life
 74. Nina Nastasia
‘Outlaster'
 75. The Tallest Man on Earth
‘The Wild Hunt’
 76. Frankie Rose & The Outs
‘Frankie Rose & The Outs’
 77. The Russian Futurists
‘The Weight's on the Wheels’
 78. Silver Mt. Zion
‘Kollaps Tradixionales’
 79. Clinic
‘Bubblegum
 80. Crocodiles
‘Sleep Forever’
 81. Belle & Sebastian
‘Write About Love’
 82. Giant Sand
‘Off Ramp’
 83. The Corin Tucker Band
‘1000 Years’
 84. Siskiyou
‘Siskiyou’
 85. Teenage Fanclub
‘Shadows’
 86. Hugo Race
Fatalists'
 87. Admiral Radley
‘I Heart California’
 88. Elf Power
‘Elf Power’
 89. Giant Sand
‘Blurry Blue Mountain’
 90. Church of the Very Bright Lights
‘Gang Crimes’
 91. The Chemical Brothers
‘Further’
 92. Sleepy Sun
‘Fever’
 93. Ulan Bator
'Tohu-Bohu'
 94. Ben Folds
‘Lonely Avenue’
 95. Best Coast
‘Crazy For You’
 96. The Innocence Mission
‘My Room in the Trees’
 97. Darwin Deez
‘Darwin Deez’
 98. Leif Vollebekk
‘Inland’
 99. Brad
‘Best Friends?’
 100. Damien Jurado & Richard Swift
Other People’s Songs vol. 1

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Anaïs Mitchell @ Settimo T.se  20/07/2011         _ Il nostro (altro) concerto

       

Ha licenziato uno dei dischi più elaborati ed intriganti dell’anno, ma da queste parti in pochissimi se la sono filata. Ha fatto un salto nel nord Italia per presentarsi al pubblico indipendente del Belpaese, ma venue ed accoglienza non sono state all’altezza del suo entusiasmo e del suo talento. Guardando al futuro prossimo, potremmo scommettere che di Anais Mitchell si sentirà parlare come di una gemma non più nascosta, pronta per i teatri e per qualche copertina come Joanna Newsom in questo 2010. Spiace che le prove generali non siano andate come ci si sarebbe auspicato, ma è bene tener conto di alcune significative attenuanti, almeno per quanto concerne la sua parte. La Mitchell ha abbattuto il muro dell’oblio mediatico grazie ad un disco, ‘Hadestown’, tanto ambizioso quanto riuscito, dimostrando che le speranze della sua scopritrice Ani DiFranco erano ottimamente riposte. L’album ha rappresentato l’occasione per un salto di qualità non indifferente per questa solare ragazza di neanche trent’anni, sostenuta artisticamente e logisticamente dalla Righteous Babe in un complesso progetto musicale che nel natio Vermont aveva già rivelato potenzialità creative più che lusinghiere. Con il fondamentale contributo vocale della stessa DiFranco e, tra gli altri, del conterraneo Justin ‘Bon Iver’ Vernon e di Ben Knox Miller (leader dei Low Anthem), ‘Hadestown’ ha chiarito senza esitazioni di aspirare a diventare un vero e proprio album cult e ha soprattutto svelato al mondo la genuina e prorompente vitalità della sua giovane autrice, per nulla intimorita nella disinvolta scrittura di questa corposa (ed assolutamente riuscita) folk Opera ispirata al mito greco di Orfeo ed Euridice. La promozione del disco nel nuovo continente ha dovuto fare i conti, per forza di cose, con un drastico ridimensionamento di uomini e risorse, oltre all’inevitabile indisponibilità di tutti i lussuosi ospiti arruolati in sede di registrazioni. Il timore di vedere frenata la spinta di ‘Hadestown’ per questo motivo era evidente, ma la curiosità nei confronti della Mitchell e l’irrisorio costo di cinque euro hanno avuto la meglio. Purtroppo, bisogna ammetterlo, è mancata la pubblicità. Abbandonata da quello che poteva essere il suo pubblico per mancanza di notizie in merito all’evento, costretta ad esibirsi in un locale squalliduccio dell’hinterland torinese davanti a pochi spettatori per lo più ignari della sua esistenza, Anais avrebbe avuto tutte le scusanti del caso per un’eventuale performance compassata. Chi era già stato alla Suoneria di Settimo mi ha confermato che il posto può offrire di meglio di questa sala bar con tavolini ed angolo karaoke: un piccolo auditorium, per esempio, evidentemente ritenuto eccessivo per l’ospite americana ed il suo show in solitaria. Non importa. Al di là del provinicialismo barotto di tanti tra i presenti (avventori fissi del posto, famigliuole annoiate, adolescenti in serata “compleanno”, pensionati e curiosi), la ragazza del Vermont è stata semplicemente fantastica. Non era facile conservare l’entusiasmo dopo aver seguito dal bancone il set d’apertura affidato ad una sconosciuta ex ex ex promessa del circo Sanremese, tale Tiberio Ferracane, classico eterno aspirante cantautore estremamente garbato e spaventosamente triste. Una prova di resistenza mica da ridere, anche e soprattutto da parte nostra. Quando la deliziosa Anais l’ha rimpiazzato lì nell’angolino, sotto quell’unica luce giallastra, non abbiamo impiegato comunque molto per lasciarci alle spalle tutta la deprimente mediocrità di quello scialbo contesto. Parlantina vivace, sguardi timidi, sorrisi genuini di grazia infantile: queste le armi non musicali a disposizione della fanciulla, bionda per l’occasione e incantevole in una mise ardita (molto corto il vestitino) ma per nulla volgare. 

       

Si è impegnata a fondo per cercare di farsi comprendere da tutti, azzardando in più di un’occasione l’uso di qualche termine in italiano (applausi, come per il siparietto – video dalla foto qui sopra – che l’ha vista nominare correttamente tutti i giorni della settimana) e rammaricandosi per tutte le volte in cui ha dovuto affidarsi alla propria lingua. Si è presentata con la grande spontaneità che la contraddistingue, ha parlato di ‘Hadestown’ e della sua natura polifonica, chiedendo scusa in anticipo per il fatto di dover interpretare alla propria maniera tutte le diverse voci presenti sul disco, anche quelle maschili. La complicità è arrivata automaticamente, anche da parte di chi non aveva la più pallida idea in merito allo show imminente. Per aprire e chiudere il set Anais ha fatto affidamento su due brani del suo lavoro precedente, ‘The Brightness’, da lei stesso definito l’album cui è più legata. Tra il crudo di ‘Namesake’ ed il romantico di ‘Your Fonder Heart’, la ragazza ha messo sul tavolo le carte vincenti del suo cantautorato schietto, un tantino rustico forse in questa versione spoglia con la sola acustica, ma ingentilito da quella voce curiosa, accostabile per ovvie ragioni proprio a quella della Newsom. Non sono mancate tutte le migliori canzoni del nuovo disco, interpretate con la dovuta intensità riuscendo nella non facile impresa di non far rimpiangere le superbe versioni di studio. Anche estrapolati dal loro contesto di riferimento, i brani hanno funzionato alla grande: tutti i temi in fin dei conti, dalla guerra alla miseria, sono gli stessi già sviscerati in anni ed anni di repertorio folk classico à la Woody Guthrie (ambito di riferimento privilegiato verso il quale la Mitchell non ha mai fatto mistero di guardare con devozione assoluta), per cui l’effetto nel suo insieme è stato molto più coerente di quanto non immaginassi. A fare da ideale filo conduttore lei, sola protagonista in scena, con l’unica compagnia di quella chitarra gentilmente aggredita e piegata alle esigenze espressive ed emotive del caso. Anche se la sua scrittura tende con naturalezza al pop, il cuore è quello irriducibile della folker tutta d’un pezzo, quella capace d’esser pungente e ruvida anche parlando d’amore (e dolce anche parlando delle umane miserie, a dire il vero). La lezione della DiFranco va ben al di là dell’acquartieramento di scuderia. Ecco perché i pezzi meno noti sentiti alla Suoneria non hanno ceduto nulla in termini di trasporto rispetto a quelli più movimentati e coinvolgenti di ‘Hadestown’, anche se – posso assicurarlo – la terna con ‘Wedding Song’ / ‘Why We Build The Wall’ / ‘Our Lady of The Underground’ è stata un discreto orgasmo. A completare il quadro hanno pensato un paio di recuperi ancora più datati (“datati” si fa per dire), tre inediti veramente pregevoli (‘Tailor’ in particolare) ed una cover molto personale della superclassica ‘A Hard Rain’s A-Gonna Fall’, altro titolo decisamente nelle corde della folksinger del Vermont. Generosa e carinissima sino all’ultimo, tra le altre cose: un buon terzetto di bis ha chiuso il live, tra il vaudeville rivisitato per chitarra acustica e battito di mani collettivo (‘Way Down Hadestown’) ed un delicato arrivederci nel solco della tradizione (altra classicissima, la ninna nanna ‘Goodnight Irene’), prima dell’inevitabile pienone al tavolino del merchandise. Tra chiacchiere, sorrisi e autografi, la Mitchell ha smerciato un numero impressionante di dischi: ragazzine conquistate, uomini e donne di mezza età, tutti attorno a lei a farsi consigliare l’album migliore o quello con una particolare canzone sentita un attimo prima. A pensarci bene, non le è andata così male con un pubblico ben al di fuori dell’ortodossia indie: meno pose snob, meno maleducazione, più sincero entusiasmo, più soldi. La prossima volta però la vogliamo con una vera band in un locale vero. E se verranno anche Bon Iver e la DiFranco, tanto meglio.

Scaletta: ‘Namesake’, ‘He Did’, ‘Oh My Star’, ‘Wedding Song’, ‘Why We Build The Wall’, ‘Our Lady of the Underground’, ‘Raise My Cup To Him’, ‘Flowers’, ‘Tailor’, ‘Out of Pawn’, ‘The Shepherd’s Song’, ‘A Hard Rain’s A-Gonna Fall’, ‘Your Fonder Heart’; Encore: ‘Way Down Hadestown’, ‘Cosmic American’, ‘Goodnight Irene’.

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