Month: ottobre 2010

Musica d’altri tempi, oggi

 

Revivalismo folk. Il termine ed il relativo movimento sono stati talmente citati negli ultimi anni che forse anche l’idea di ‘revival del revival’, di cui avrebbe più senso parlare, pare non avere più corso legale. Le mode, si sa, hanno valori e consistenze effimeri, per cui è sempre bene accoglierle con la dovuta diffidenza. E pur vero però che se dei Fleet Foxes – come di tutti gli altri articoli da “riflettori ben puntati” – ci si sta dimenticando relativamente in fretta, non sono certo svanite tutte quelle fertili scintille che da parecchi anni si alimentano nell’ombra del sottobosco indipendente, su una sponda dell’atlantico come sull’altra. Naturalmente i meno accesi tra gli appassionati di queste sonorità, quelli attratti magari dai suoni curatissimi dell’artista eletto dell’ultim’ora, farebbero bene a non sprecare il loro tempo con i più puri e testardi rappresentanti di un genere ormai anacronistico. Lo scrivo con una certa franchezza elitaria, a mo’ di provocazione. In realtà non ritengo che quello dedicato ai dischi di un David Colohan – visto che è di lui che si sta parlando – sia tempo buttato via, niente affatto. Solo ci va la giusta pazienza, una qualità che gli ascolti frammentari e convulsi (di cui siamo tutti un po’ vittime) non aiutano certo a coltivare. Al di là di una premessa quanto mai necessaria, non trattandosi di musica per tutti i gusti, ci tenevo a spendere queste parole e ad abbozzare un confronto tra universi tanto distanti, perché quello di Colohan è revivalismo folk autentico, non alterato dal doping discografico né viziato dall’autocompiacimento. Se nel suo più noto (parola grossa, vabbé) progetto solista, quello che risponde al nome di Agitated Radio Pilot, il songwriter di Ballymahon ha provato ad aprire la tradizione verso soluzioni più sperimentali (con esiti convincenti, vedi lo splendido ‘World Winding Down’ e non solo), se alla guida degli United Bible Studies ha cercato la corruzione della psichedelia al suo folk trasfigurato, nei Magickal Folk Of The Faraway Tree ha provato invece a seguire tutt’altro percorso, studiando in maniera maniacale il canzoniere di traditional inglesi ed irlandesi raccolti dal musicologo Peter Kennedy (citato al primo posto tra le influenze del gruppo sulla sua pagina Myspace) ed assimilando a tal punto la lezione da scrivere le proprie canzoni sulla falsariga di motivi e musiche ormai fuori dal tempo. Il risultato di tanta fatica è una raccolta monumentale intitolata ‘The Soup & The Shilling’, utilissima per inquadrare tutto il lavoro del cantautore in questo ambito forse meno accessibile ma ugualmente interessante. In un doppio LP Colohan e i suoi compagni d’avventura presentano quanto prodotto dal 2003 ad oggi in chiave di rilettura e riarrangiamento dei classici, l’album ‘The Mildew Leaf’ ed il corposo EP ‘The Cat’s Melodeon’, oltre ad una ricca selezione di inediti del bardo irlandese che replicano nella sostanza il medesimo spirito e lo schietto taglio amatoriale dei rifacimenti più datati. Nei numerosi pezzi in lingua gaelica come nelle composizioni in inglese, Colohan mantiene uno stile disadorno, frammentario ma appassionato, un approccio di prodigiosa essenzialità refrattario all’attrattiva di qualsivoglia elaborazione produttiva, come a non voler tradire il fascino arcano e la purezza del materiale da lui rimusicato. L’impressione, ascoltando brani scarni e tardo autunnali come ‘She Was My Rum One’ o ‘Daybreak’, è quella di alberi spogli (cantato austero, spartane linee di banjo) su cui poco per volta compaiono germogli (la voce femminile, il flauto) che conferiscono colore e dolcezza sin quasi a fiorire sui refrain. A seconda dei gusti e dell’umore, l’afflato traditional di una ‘Spencer The Rover’ potrà suonare entusiasmante o tedioso: di certo è difficile immaginare qualcosa di meno cool di questo cantilenare reiterato e fragilissimo, capace comunque di scaldare il cuore e conficcarsi nella testa. Sono poco più che istantanee le canzoni di ‘The Soup & The Shilling’, si limitano a suggerire una sfumatura emotiva, uno stato d’animo, senza curarsi di cercare per forza qualcosa di più articolato o culturalmente ricercato. Lo sguardo è orientato a riproporre la tranquilla poetica agreste del folk del passato remoto, la pace e la purezza insite nelle tonalità bucoliche – ora oscure, ora ariose – tipiche di determinati strumenti e sonorità. Certo una simile forma di cantautorato retrò non può che uscire corroborata quando sposa la prospettiva di un rigore solipsistico assoluto, velandosi d’una malinconia mai cinica (perché non gioca ricatti all’ascoltatore) e aprendosi occasionalmente a forme espressive più partecipate come i duetti: canzone popolare e canzone d’autore ad un tempo, intimista ma non pedante, esile ma non debole, aggraziata ma risoluta. Come una brezza al tramonto, viene e va. Specie nella prima parte prevalgono il registro della filastrocca (‘Two Corbies’, ‘Blackbird and Thrushes’) ed il bozzettismo, quello che in genere è considerato brutta copia, first tape. Banditi i belletti e le rifiniture si prende l’immediatezza del canto, pure in un’estemporanea sea shanty come ‘The Marmaid’. I risultati possono essere notevoli anche in lavori di genere come questo, ‘Trelawny’ ne è una più che valida dimostrazione: un cantato quanto mai carico, la cui enfasi affonda direttamente nella tradizione, un banjo che insiste a definire le sue sobrie trame, un bouzouki che si dedica ai ricami in sottofondo ed un flauto che regala un tono ancestrale insieme ai cori. In questo ricco quadro c’è comunque spazio per momenti di maggior grazia e fluidità, per parentesi di intensa spensieratezza (gli aromi gradevolissimi di ‘The Cat’s Melodeon’, la schiettezza solare di ‘Here’s a Health For all True Lovers’) che ampiano lo spettro di soluzioni offerte smentendo i detrattori di tanta intransigenza formale. Non fosse sufficiente, si può aggiungere che saltuariamente l’alone di revival irish viene meno, rimpiazzato da echi calorosi di folk nordamericano (‘Time To go Home’) o da una flemma più sofferta (‘Being Here Has Caused My Sorrow’) che allo stesso modo potrebbe piacere anche al di là dell’Atlantico. Un piccolo diversivo in una raccolta altrimenti coerente, assimilabile (pur in un contesto di più accentuato pauperismo) per disciplina all’esperienze appalachiane della Language of Stone e alla nuova scuola scozzese dei King Creosote, dei James Yorkston e degli Alasdair Roberts. La conferma che, un po’ ovunque, il passato può essere egregiamente riscritto.
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Wolf Parade @ Spazio211

13-05-2010

 

Non sono mai stato un vero fan di Spencer Krug. Ad essere sincero non posso certo dire d’essere mai stato nemmeno un entusiasta adepto di Dan Boeckner. Non mi hanno rapito i Sunset Rubdown, al cospetto dei quali credo di aver sempre espresso una forma di equilibrato apprezzamento, magari un tantino castigato rispetto ai giudizi di amici che con loro sono andati letteralmente in solluccheri. Bravi sì, ma non abbastanza da guadagnarsi lo strillone "colpo di fulmine" in una mia ideale reclame. Gli Handsome Furs mi sono parsi in tutta sincerità anche più trascurabili, non me ne voglia il tarantolato cantante e chitarrista di Montreal, che pure è un più che discreto songwriter oltre che musicista. Certo poi ci sono quei casi – e questo dei Wolf Parade è emblematico – in cui due buoni autori altrimenti destinati a languire abbandonati nello sterminato calderone dei "senza infamia, ma anche senza grandi lodi" riescano a dire la loro in maniera stupefacente proprio grazie ad una fattiva collaborazione. Per questo motivo almeno due dei loro tre album rimangono per il sottoscritto pagine tra le più godibili nella scena power-pop-rock di questi ultimi anni. Per questa ragione il loro live di maggio allo Spazio è stato uno dei più attesi della stagione, confermandosi poi tra i più vivaci, piacevoli e divertenti di tutto l’anno. Potenzialmente sono una band da grande evento festivaliero, da palco ampio, questi canadesi così anomali. Tuttavia le limitazioni tipiche del piccolo club credo abbiano finito col giovare allo spettacolo e all’umore di pubblico e gruppo, avvicinandoli l’un l’altro sin dal primissimo momento e favorendo una genuina e spontanea fratellanza, annientando quello che per chi scrive era l’unico vero timore della vigilia: il rischio di una freddezza eccessiva. Il report per indie-rock.it non è mio ma di Cristiano, anche se mi trova d’accordo su tutta la linea, sul vantaggio effettivo (e non indifferente) di un organismo alimentato da due cuori tanto differenti quanto vitali, come sulla prova nient’affatto malvagia dei rumeni Amsterdams come band di supporto. Purtroppo non conservo annotazioni relative alla scaletta della serata, ma mi sembra di ricordare con buona lucidità una fantastica partenza sulla falsariga di ‘At Mount Zoomer’, con la terna precisa ‘Soldier’s Grin’‘Call It a Ritual’‘Language City’. Ricordo che tutto lo show si è snodato come un’incessante partita a rimpiattino vocale tra i due frontman, un pezzo a testa e pedalare, con il paffuto tastierista a ritagliarsi le pagine ora più intense, ora più allegre, ed il secco chitarrista ad interpretare con convinta aderenza alla parte l’anima più nervosa e canonicamente rock. Secondari, ma assolutamente affidabili gli altri, un’onesta sezione ritmica capace di non invadere gli spazi dei primattori pur suonando ugualmente efficace. I Wolf Parade hanno dato insomma tutto quanto veniva loro richiesto, a cominciare da un’interminabile filotto di hit che non ho potuto esimermi dal cantare a gran voce, almeno nei momenti topici. Impossibile in fondo non farsi coinvolgere da un gruppo che ci ha riservato anche un inatteso calore ed una simpatia per nulla paracula: stavo proprio sotto Dan, ero a portata di tiro e qualche scaracchiata l’ho anche presa. I pezzi forti, specie da ‘Apologies To Queen Mary’, mi pare di ricordare li abbian fatti più o meno tutti, penso a ‘You Are a Runner and I am My Father’s Son’, ‘It’s a Curse’, ‘We Built another World’ e ‘Dear Sons and Daughters…’ ma l’entusiasmo di quella serata e la sua lontananza dall’oggi potrebbero anche trarmi in inganno quando provo a scendere nel dettaglio. Di certo non sono stati affatto male i pezzi, al momento nuovi di pacca, offertici con inalterata verve per presentare l’allora imminente ‘Expo 86’. Un disco che diversamente dai predecessori non è stato in grado di conquistarmi, un po’ come Krug e Boeckner presi nelle parentesi di licenza dal gruppo principe. Hanno colpito per una certa colorata spinta pop, anche con qualche eccesso sintetico e smaccati richiami eighties. Scommetterei un nichelino che ‘Oh You, Old Thing’, ‘Palm Road’ e ‘Ghost Pressure’ le ho sentite per la prima volta li davanti al palco di Spazio. Per la terza sono anzi praticamente certo. Come non ho alcuna esitazione nel confessare di aver goduto come un riccio verso il finale, quando i canadesi hanno raggiunto la vetta emotiva con due delle mie preferite tra le loro canzoni: ‘This Heart’s On Fire’ e ‘Kissing The Beehive’. Strepitosa quest’ultima, la mia personale istantanea del cuore per quella già lontana serata della primavera scorsa.

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Agghiastru @ Caffé Basaglia

12/06/2010 _ Il nostro (altro) concerto

 

Agghiastru è un amico. Una premessa significativa questa, ma non vincolante: resto infatti convinto che la musica del cantastorie di Sciacca meriti attenzione indipendentemente dalla sponsorizzazione del sottoscritto, per quanto di parte e sufficientemente accalorata. L’ho conosciuto a Venaria, in un lungo pomeriggio di attesa ai cancelli prima del live gratuito di Nick Cave al Traffic dello scorso anno. Appena undici mesi dopo le chiacchiere a tutto campo di quella giornata, Agghiastru è riuscito a regalare anche alla mia città uno dei suoi contagiosi live show (definizione quanto mai calzante, considerando che non di semplici concerti si tratta). Ne ha tenuti diversi dopo aver pubblicato il secondo album, ‘Disincantu’, anche fuori dai confini della sua Sicilia. E’ stato a Napoli, Bologna e Ferrara, un paio di volte al Pentesilea di Milano, ma per averlo finalmente a Torino è servito l’aiuto di un suo conterraneo, il titolare del circolo Arci Caffè Basaglia. Non è un mistero che da queste parti Agghiastru si sia trovato bene: ha trascorso qui alcuni degli ultimi mesi aggiungendo il proprio nome in fondo alla lista di coloro che apprezzano la mia (ed ora anche un po’ sua) città, al di là della logora etichetta di grigia metropoli industriale che ancora resiste fuori dei ristretti confini regionali. Più che da me, compagno saltuario per passeggiate in centro, cene o concerti al di qua del palco, Michele ha trovato un appoggio prezioso nonché una valida spalla musicale in Natascia, incontrata in occasione del già citato live di Re Inkiostro e divenuta presto una risorsa vitale nelle sue esibizioni dal vivo, come batterista (colmando una lacuna che l’impiego della drum machine non era stato in grado – per forza di cose – di compensare) e più sporadicamente come tastierista. E proprio in formazione a tre si è presentato Agghiastru per cantare i brani del suo ormai ampio repertorio, seguendo fedelmente una formula – chi lo ha già visto la conosce bene – che dal vivo è rodata e calibrata in maniera impeccabile. Michele principalmente al piano, in alcuni frangenti con la chitarra, più di rado alle percussioni. Con lui Natascia oltre al fidato Franco Barbata, giunto appositamente dalla Sicilia e costretto a suonare la chitarra a mo’ di basso (con risultati, va detto, apprezzabili) per la mancanza di questo strumento. Non capita spesso di andare a vedere una band suonare e sentirsi come sospesi, trascinati in una sorta di incantesimo o altra dimensione: con Agghiastru è così, chi l’ha visto potrà dare credito alla mia affermazione. Vuoi per la miscela perfetta di pathos ed ironia, vuoi per la verve affabulatoria di un musicista che ama sedurre con la forza nuda della parola, è estremamente facile lasciarsi stregare da uno spettacolo lungo oltre due ore ma serrato ed incalzante come pochi altri, denso di allusioni, enfasi teatrale e capacità di sdrammatizzare, sempre e comunque. Nella piccola sala del Basaglia destinata alle prove dal vivo nulla è stato lasciato al caso: tende nere a oscurare gli ampi finestroni, tenda nera di sfondo a simulare una notte illuminata dalle semplici stelle/lampadine (le “stidde carenti in un cielu chi mori” di ‘Vulìa’, evidentemente), con una trovata scenografica tanto semplice quanto riuscita. E poi il velluto (sempre nero) sulla tastiera con a lato la piccola abat-jour, lume d’artista nel suo viaggio tormentato. Impianto di sobrietà assoluta come il set proposto, con la tastiera a regalare la linfa, color seppia moderato, la chitarra a innervare e pungere ed una parte ritmica controllata ma puntuale come l’inesorabile scorrere del tempo, quando non impulsiva, feroce e tellurica (nelle rare incursioni percussive del frontman). Per consentire agli spettatori di carpire agevolmente l’essenza poetica del proprio viscerale flusso di coscienza, Agghiastru frammenta il racconto in più tappe o snodi tematici, preoccupandosi di assicurare comunque una linea concettuale saliente allo spettacolo nel suo insieme, il leit-motiv dell’”amore andato a male e della vita finita peggio” che già conferiva appassionata sostanza alle amare riflessioni di ‘Disincantu’ (mia recensione in merito dalla seconda immagine in alto). In questo la partenza del live non avrebbe potuto essere più aspra ed esplicita, tra la feroce crudezza di ‘Sangu’ e le prime manifestazioni di un male di vivere legato ai patemi del cuore (‘Ferru e Focu’, anch’essa sanguigna) e all’amore in fuga.

 

Il cantante di Sciacca ha giocato e scherzato col pubblico mettendosi allo specchio, cercando complicità specie nei momenti più intensamente autobiografici, quelli dedicati alla figura del cantastorie: tra una ‘Saru Mantici’ che suona sempre come parabola espressionista di una vocazione, oltre che di una condanna, i richiami autoironici ai chiaroscuri (o all’“agrodolce”, come sottolinea lui) della propria terra d’origine – ‘Nichea’, con fiscaletto di canna tra le labbra e coppola ben piantata sulla testa – e quella straordinaria metafora del ‘Campari’, il vivere dei disperati come un sule “chi lestu s’astuta in un mari”, personalmente la mia preferita nel suo ampio ed acceso immaginario. Quindi un’estemporanea ricognizione sul tema della morte, con il teschio disposto sul piano a mo’ di ammonimento e attore ideale sulle note celeberrime di ‘Vitti ‘na Crozza’, il sempre affidabile recupero dal repertorio Inchiuvatu di ‘Unìa’ e quell’inesorabile “fimmina e troia chi cu tutti si la fa”, magistralmente tratteggiata in un altro suo classico, ‘La Morti’ appunto. Giunto più o meno a metà della propria esibizione, Michele ha regalato agli ospiti del Basaglia una svolta che a quel punto si sarebbe detta inattesa (anche se con lui le sorprese non mancano mai) e che ha lasciato un’impronta indelebile su quelli che, come me, sono più avvezzi alle sonorità scarne ed agre di certo folk di scuola nordamericana. Imbracciando la chitarra e affidando le tastiere alla più parca Natascia, ci ha condotti sotto il sole del deserto siciliano, culmine della solitudine per il cantastorie e richiamo esplicito all’aridità di relazioni, all’impossibilità di far maturare i sentimenti in qualcosa di costruttivo e condiviso. Un suono più disadorno e pungente ha reso al meglio il fascino torrido e la disperazione di alcuni dei brani più intensi del disco recente: la favola di nera alienazione cantata in ‘’Ula Arsa’, l’ancestrale rapacità di ‘Tintu’, le asprezze dell’emarginazione in ‘L’Ombra’, quel senso di non appartenenza e di confino dalla luce e dalla vita. Impossibile a questo punto, con le lampadine rosse illuminate sullo sfondo per far risaltare quest’aura di infuocata desolazione, non tornare con la mente ad un concerto di Cesare Basile dell’anno passato. L’ospite lussuoso nella versione in studio di quest’ultimo brano è senza dubbio uno spirito affine per l’Agghiastru ruvido della parentesi appena descritta. Le somiglianze espressive evidenti si fermano tuttavia alla sfera prettamente musicale, visto che Michele ha ben altra stoffa da intrattenitore e ama un dialogo aperto e ininterrotto con il suo pubblico, laddove Cesare insiste invece sino al paradosso nel suo ruolo di cantore eremita in un mondo chiuso ed inaccessibile. Anche per questo, non appena i fuochi alle sue spalle sono tornati silenti e il posto al piano è stato riconquistato, Agghiastru ha ripreso le fila di una narrazione onirica ed intrisa di romanticismo, cercando costantemente la partecipazione degli astanti, il battere ritmato delle mani, la risata, lo stupore al cospetto della dolce nenia di un carillon. Numerosi siparietti hanno accompagnato la sua performance nella sua fase più intimista e toccante, quella dedicata al desiderio che nasce e sfiorisce, alla passione che infiamma ma non lascia che ferite e cicatrici sulla pelle. Davvero emozionante la versione di ‘Rosa’ ascoltata questa sera – introdotta da uno dei migliori soliloqui del siciliano – come pure la carezza malinconica di ‘Carennu’ o la malìa di ‘Tintatu’, tra le pagine più belle di ‘Incantu’. Solo quando anche l’abat-jour sul piano è stata spenta ci siamo come ridestati da un lungo sogno intriso di suggestioni, angosce, trepidazione e fatalismo. Come lo show di Agghiastru ha degnamente ricordato e come qualcuno prima di me ha scritto, “c’è sempre qualcos’altro da cogliere e cioè il lato aspro e reale delle cose: dell’amore la crudeltà, della passione il gioco, della vita la nostalgia e delle rose le spine”. In attesa che la svolta cantautoriale del leader degli Inchiuvatu approdi alla concretezza acustica di un folk-rock aguzzo stile Howe Gelb o David Eugene Edwards (lui non li conosce ma non potrebbe che apprezzarli) – sviluppo dato per imminente come la pubblicazione del terzo album solista – non perdete l’occasione di assistere ad una delle ultime repliche di questa sua ricca incarnazione musicale a tutto campo: sarà ancora in giro per il nord Italia con qualche data quest’autunno, poi si vedrà.
 
 
La scaletta: ‘Sangu’, ‘Fuì’, ‘Idda’, ‘Ferru e Focu’, ‘Nichea’, ‘Saru Mantici’, ‘La Stanza’, ‘Fiori d’Arancio e Crisantemi’, ‘Campari’, ‘L’Incantu’, ‘Vitti ‘na Crozza’, ‘Unìa’, ‘La Morti’, ‘L’Ombra’, ‘’Ula Arsa’, ‘Tintu’, ‘Suli’, ‘Teatro Tetro’, ‘Carennu’, ‘Parìa’, ‘Addisìu’, ‘Rosa’, ‘Stravìa’, ‘Curù’, ‘Tintatu’, ‘Scuru’.

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