Month: maggio 2010

Little Moon

 

Vada come vada sin da oggi, con il condizionale passato adottato per raccontare successi che mai più verranno e destinato a suonare così beffardo, Grant-Lee Phillips è e resterà uno dei miei cantautori prediletti. Anni fa avrei scommesso su di lui per il solo piacere di ritrovarmi perdente, quindi per condividere in minima parte con lui quell'aura di eterno escluso, di scalognato incallito col broncio scolpito in faccia ed una manciata di grandi canzoni condannate a marcire nello scrigno di pochi fortunati fan. Nel pezzo che ho scritto per Monthlymusic ho provato a raccontare Phillips dalla prospettiva di un presente che ha sconfessato i più che legittimi sogni di fama del cantante, ma che non pare comunque una posizione malvagia considerati certi risvolti positivi concretizzatisi nel corso della carriera e la qualità sempre apprezzabile dei suoi lavori. Curioso scrivere di lui servendosi come pretesto di questo ultimo 'Little Moon', album onestissimo ed in linea con i suoi attuali orientamenti, eppure palliduccio se raffrontato alle epiche pagine dell'Americana scritte con i Grant Lee Buffalo, al rock scapigliato degli Shiva Burlesque e alle migliori cose pubblicate a proprio nome negli ultimi anni. Per quanto molta della sua musica meritasse miglior sorte di quella avuta e nonostante qualche bella soddisfazione conquistata grazie al sudore e alla gavetta, Grant-Lee era evidentemente indirizzato al curriculum indipendente che sta poco per volta compilando con estrema dignità e con il piglio dell'artista umile ma tenace. Qualcuno ha scritto che 'Little Moon' è il suo miglior disco solista ma questo purtroppo non è vero per niente. E' un discreto album, cosa di per sé incoraggiante. Soprattutto vale come fotografia sincera, come autoscatto, in questo particolare momento della carriera, con la vita arricchita dall'arrivo del primo figlio e la necessità quasi obbligata di tirare le somme sulla propria parabola artistica. La copertina è l'ironica rappresentazione dello stereotipo che di lui si è venuto consolidando nel tempo, e che lo stesso Phillips pare aver accettato di buon grado come la parte in una sceneggiatura televisiva: il malinconico trovatore di Gilmore Girls, quello un po' posticcio tra le posticce stradine del set, impegnato a strimpellare vecchie canzoni dei Buffalo o nuove creazioni del tutto sue. Ai tempi del roots rock rabbioso di 'Fuzzy' lanciato nel circuito delle radio universitarie statunitensi non si sarebbe potuto immaginare un futuro più improbabile di questo. Il tour mondiale condiviso con i R.E.M. di Monster dopo la pubblicazione di 'Mighty Joe Moon', oltre alla profonda amicizia con Michael Stipe, parevano presagire risvolti assai più rosei di uno scioglimento prematuro ed il conseguimento di una posizione di tutto rispetto nell'olimpo del rock americano. Erano gli anni '90 e tutto sembrava possibile, soprattutto per un cantante con la voce strepitosa di Grant-Lee Phillips. E' andata diversamente ma non importa. E' lui stesso a dichiararlo nelle canzoni di 'Little Moon': piccole, pacate, chiaroscurali e a tratti orgogliose. Dicono che è invecchiato ma ha ancora voglia di raccontarsi, che ci si può piacere anche con la soglia dei cinquant'anni sempre più prossima. Che non sia più tempo di rimpianti ed il passato possa rivelarsi una meravigliosa riscoperta l'aveva già chiarito ai tempi di 'Nineteeneighties', perfetta testimonianza di un percorso di formazione emotiva oltre che espressiva. Quando qualche grande cantastorie rimasto nell'ombra inserirà una delle canzoni di Grant-Lee Phillips nella propria personale antologia di questi anni sarà più evidente a tutti che anche lui ha lasciato il segno importante che in pochi oggi gli riconosciamo.

0 comment

Vetiver & Fruit Bats @ Spazio211

19-11-2009

 

Attrattive della vecchia formula "prendi due paghi uno"… Quando ti capita di cerchiare in rosso sul calendario una data che ti permetterà di assistere ad un paio di concerti (più o meno) attesi in un sol colpo, quasi non credi sia vero. Capita di rado che musicisti senza manie da primedonne e promoter illuminati mettano a disposizione dell’appassionato scampoli di tour in coabitazione, con l’opzione di abbinamenti nient’affatto ingombranti, anzi, curiosamente ben assortiti. Capita di rado ma accade, di tanto in tanto. Ti freghi le mani già solo all’idea, quando ci siamo paghi una somma modica e accatasti soddisfazioni su soddisfazioni come pezzi di legna da ardere. Capita di rado, ma quelle poche volte si traducono in buoni ricordi quasi regolarmente. Non hai neppure il tempo di refertare il live a braccetto dei Vetiver e dei Fruit Bats che già ti si prospetta una riedizione del sugoso modello, in questo caso con un cast che promette di regalare suggestioni anche maggiori: Beach House e Midlake, a luglio. Difficile non mettere in preventivo una trasferta. Certo non tutto di queste fortunate occasioni può essere annoverato alla voce goduria, ma qui entrano in campo altre logiche ed altri fattori ed il discorso si allarga inevitabilmente, deviando da quella che è la pura e semplice componente artistica. In una serata tutto sommato entusiasmante come quella di cui qui si lascia traccia (e di cui è possibile leggere e guardare qualche istantanea direttamente dalle foto in alto), l’unico momento non all’altezza è stato quello in cui la realtà brusca dell’organizzazione ha imposto le proprie condizioni alla festosa euforia della musica. Quel bigliettino passato con mano discreta ad un allegro Eric D. Johnson dopo appena cinque brani dall’inizio del loro set scintillante, con l’invito a suonare ancora un brano per poi levarsi gentilmente dalle palle. Questo dettaglio sì, è stato sconfortante. I concerti doppi (o tripli, o quadrupli…vabbé, quelli sono i festival) garantiscono quasi immancabilmente lo schiaffo della sintesi necessaria. "Necessaria" tra virgolette, visto che l’esigenza di cui si parla è prerogativa unica di chi produce e propone lo spettacolo, non degli artisti coinvolti ed in molti casi stoppati sul più bello né tantomeno di un pubblico in palese sintonia con loro. Prendere o lasciare, quindi, e noi accettiamo a malincuore anche gli scompensi che il lusso comporta. Spiace per il trattamento riservato ai Fruit Bats, band ruminante al primissimo tour europeo dopo più di dieci anni di carriera. Band deliziosa tra le altre cose, con un affiatamento invidiabile ed un leader gentile e riservato ma al tempo stesso dotato di indubbio carisma. Solo sei canzoni per loro e quasi nessun classico dal repertorio, ma l’idea che ci siamo fatti – insieme all’arrabbiatura per questa gioia interrotta – è che meriti e fiducia siano correttamente attribuiti alla compagine di Seattle: una creatura musicale simpatica, vivace e sufficientemente consapevole di sé, un gruppo che meriterebbe spazi tutti suoi. Anche i Vetiver si sono rivelati una buona conferma. Della qualità e del songwriting già si sapeva, quel che conta è che abbiano convinto soprattutto in termini di resa emotiva. C’era non poco scetticismo alla vigilia e, va detto, i meno avvezzi a certe sonorità quiete e morbide non hanno cambiato opinione. In compenso chi è venuto in cerca di una gratificazione folk pura ed elegante ha trovato pane per i suoi denti. Andy Cabic ed i suoi compagni di viaggio hanno saputo ammaliare e coinvolgere chi di questo universo apprezza le sfumature ed il velluto, regalando anche belle sensazioni in termini di intimismo non ruffiano e calore fraterno, confidenziale. Andy poi è un ragazzo a posto, molto alla mano, uno che può rendere meno pesanti anche vecchi classici country o southern di più di quarant’anni fa. E in questa serata quasi perfetta ne abbiamo sentiti, eccome.

0 comment

Popular Songs

 

Ancora Yo La Tengo, ancora 'Popular Songs'. Uno dei pochissimi dischi di cui ho scritto sia su IR che su MM e che ancora riesca a stupirmi dopo quasi un anno di stagionatura. L'incredibile capicità di Ira Kaplan e Georgia Hubley di dare forma ad album destinati a diventare "classici" quasi immediatamente resta uno dei dettagli più sorprendenti di una band che non vuole proprio saperne di invecchiare. Per quanto dopo un quarto di secolo questa istituzione del rock alternativo non possa che ripetere per sommi capi quanto già scritto in alcune delle leggendarie pagine del suo passato (più o meno remoto), per quanto sia venuta meno con la giovinezza quell'urgenza di proporre la propria musica con piglio gentile e rivoluzionario (sulle ali di un'irruenza epica e sorprendentemente quieta al tempo stesso), il trio di Hoboken conferma di sapersi esprimere con una libertà che ha pochi eguali nell'attuale scena musicale indipendente. Paradossalmente 'Popular Songs' è un disco che non ha nulla da inventare e saccheggia senza posa cinquant'anni di musica pop americana ormai divenuta tradizione condivisa. In una simile ottica si sarebbe legittimati a dubitare di chi scientemente si produca in un'operazione revivalista di questa portata, giudicandola nel migliore dei casi una furbata snob dai chiari connotati accademici, un gioco sterile e spocchioso del tutto fine a se stesso. La vena genuina dei musicisti coinvolti racconta tuttavia una verità ben diversa. Gli Yo La Tengo non si limitano a citare la classicità o il vintage con il distacco delle nuove leve più forbite, ma raccontano anni e anni di tradizione musicale nordamericana parlando in fin dei conti solo di loro stessi. I riferimenti al passato della band sono evidentissimi ed il fan più appassionato non può in alcun modo evitare di farci i conti. Non di un recupero stanco si tratta, non di fiato corto o debito di idee. Gli Yo La Tengo si guardano allo specchio e vedono riflessa la veste notturna di 'Painful', le confortanti visioni oniriche di 'And Then Nothing Turned Itself Inside-out', la lunga trascrizione emozionale del loro vissuto e del loro invidiabile background. Certo c'é molto lavoro "di testa", ed i trascorsi da critico musicale di Ira hanno un peso non trascurabile. Trattandosi di Yo La Tengo, tuttavia, è logico aspettarsi che anche il cuore abbia la sua parte, con la sincerità di chi non conosce altri modi per esprimersi che essere semplicemente se stesso. Il valore aggiunto di un gruppo raffinato e viscerale come pochi altri sta proprio nella sua inarrivabile genuinità. In questo senso gli Yo La Tengo continuano a comporre musica e a suonarla come agli esordi, con passione, onestà ed ironia. Anche nei risvolti formali (vedi il paradosso dei tre torrenziali brani conclusivi, negazione fattuale di qualsivoglia dogma pop) e nel titolo stesso di 'Popular Songs' è facile rilevare come quest'ultimo ingrediente sia qualcosa di più che un semplice articolo identitario. E' un marchio di fabbrica, qualcosa che dopo tutto questo tempo la band di hoboken non può fare a meno di sfoggiare con orgoglio come la più invincibile delle sue armi.

 

0 comment