Month: febbraio 2010

Yours Truly, The Commuter

 

Un paio di anni fa appena, Jason Lytle sceglieva di comunicare il suo prossimo ritorno sulla giostra discografica a quell’insignificante e disgregato universo di aficionados che non erano stati capaci di dimenticarsi di lui. Passò anche in Italia, grazie alla benemerità Homesleep Records, presentando brani vecchi e nuovi riarrangiati in acustico: una discreta ma incoraggiante testimonianza della sua volontà di resistere per tornare ad esprimersi, dopo anni di esilio "necessario" tra i boschi del Montana, lontano da fantasmi, tentazioni e business volgare. Certo l’arte non si spegne come una fiamma dentro di sé, non basta limitarsi ad ignorarla confidando che una vita à la Thoreau sia tutto ciò di cui si ha bisogno nonostante un passato da musicista e cantautore affermato. Uscito dalla depressione, liberatosi dal giogo delle droghe e dal peso di una pur limitatissima fama, Lytle ha ripreso poco per volta confidenza con se stesso ritrovando il piacere di scrivere canzoni e suonarle, prima in perfetta solitudine, poi per pochi fortunati, quindi per i suoi vecchi fan. Nulla di particolarmente serio o impegnativo, almeno nelle intenzioni, poi la gioia creativa ha saputo prendere il sopravvento ed è arrivato questo piccolo ma prezioso album, l’esordio solista che i meno informati in merito alle vicende personali dell’ex leader dei Grandaddy avevano pronosticato già diversi anni fa. E’ arrivato senza fretta e senza clamori, al momento giusto. Un passo per volta, Lytle è rientato nel giro quasi senza rendersene conto. Certo con una maggiore consapevolezza rispetto al periodo di massima fortuna per la sua vecchia band, il classico gruppo della cui importanza ci si renderà conto con più lucidità man mano che lo scioglimento sarà sepolto nel passato. Non voleva svendersi ad una major, non lo ha fatto oggi e non lo farà domani, quando arriveranno il secondo lavoro a suo nome (più increspato e tumultuoso, a quanto pare) ed il primo capitolo di un’avventura nuova di zecca, gli Admiral Radley (progetto condiviso col vecchio socio Aaron Burtch – che della formazione di Modesto era il batterista – con Aaron Espinoza e Ariana Murray dei validissimi Earlimart). Manifestazioni semplici di un presente che ha tutto l’orgoglio della schietta indipendenza, quella senza frenesie da hype o (tardivi) appuntamenti col successo: solo l’entusiasmo di fare musica per se stessi e per "fare del bene" a chi già sa di poterne trarre da queste nuove canzoni sincere (lo afferma lui stesso nel superbo ed evocativo finale di ‘Here For Good’, autentica dichiarazione di intenti per una carriera ritrovata). Il bello sta nel riscoprire, pagina dopo pagina, fragranza dopo fragranza, che gli ingredienti sono rimasti i medesimi della vecchia ditta, giusto in una dimensione più intima e meno fragorosa: elettronica povera ma colorata, carezze acustiche, sporcature elettriche mai davvero sgarbate, scrittura pop radiosa e quella vocina lì, quella che se non ti entra nel cuore in venti secondi netti hai davvero di che preoccuparti. Anche l’ironia è intatta, rivolta essenzialmente verso se stesso a riprova di una presa di coscienza che non ha proprio nulla dei cliché autodistruttivi da rockstar malate: "L’ultima che ho sentito è che ero dato per morto" canta lui all’inizio della title track, in apertura, "beh, la verità è che non me ne frega un cazzo". Sulla sua buona fede ci si potrebbe scommettere tranquillamente. Ciò che conta in fondo é la genuinità del tratto autobiografico, l’ennesima costante nell’opera di questo sventurato e adorabile genio dei nostri giorni. Da uno che firma il primo album in proprio con l’etichetta "Distinti saluti, il pendolare" non c’é da attendersi molto altro che un meraviglioso tono confidenziale. E quella commovente abilità nel rendere emozionante anche una canzone dedicata all’amicizia di un compagno che non c’é più: dietro l’infinita dolcezza di ‘Ghost of My Old Dog’ è impossibile non riconoscere la rinnovata epica domestica dei Grandaddy classici, oggi. In splendida forma, peraltro.

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On Hiatus

Pausa di riflessione in un periodo ricco di pensieri e preoccupazioni. Il tempo che solitamente dedico alla musica, già scarso di suo, si è ridotto ai minimi storici. Dovendo recuperare alcuni album importanti da poco usciti, preferisco comunque orientare i pochi minuti giornalieri a mia disposizione all’ascolto invece che alla scrittura, lasciando da parte per un po’ le uscite marginali che in genere propongo su queste pagine per spendere qualche parola su questi lavori più “rilevanti”, nella speranza un domani di affrontarli con la dovuta attenzione. Quattro dischi e quattro band americane, sostanzialmente quattro conferme piene. Le vibrazioni migliori sono forse quelle che arrivano da ‘The Golden Archipelago’, la nuova fatica degli Shearwater a meno di due anni dall’uscita di ‘Rook’. Qualitativamente, Jonathan Meiburg riesce ancora una volta ad attestarsi sui suoi standard recenti, dimostrandosi autore versatile ed eccellente alle prese con registri diversi, dalla vena intimistica e sofferta (‘Runners of the Sun’) all’efficacia di uno sguardo sempre attento alle inquietudini (‘An Insular Life’), dalla delicatezza (‘Meridian’, ‘Hidden Lakes’) all’impatto vertiginoso della vitalità e del rumore (‘Black Eyes’ – eccellente traino – ma anche la frenetica ‘Corridors’). Un’opera bella e palpitante come da attese, con la certezza rinnovata che l’uscita di Meiburg dagli Okkervil River sia valsa ai fan lo sdoppiamento di quel cuore creativo in una coppia di formazioni di eccellenza. Il leader degli Shearwater è un fuoriclasse alla stregua di Will Sheff, nessun dubbio a riguardo, e questo album non sarà ‘Palo Santo’ ma poco ci manca. Il respiro, la profondità, la solidità degli arrangiamenti non possono non far parlare di garanzia rinnovata, puntualmente. L’unico elemento discutibile, a questo punto, restano le copertine vagamente new age, sicuramente bruttine perché un po’ fasulle (questa e quella di ‘Rook’). Un peccato veniale comunque.

Restando in Texas, non posso non dire qualcosa su ‘The Courage of Others’, l’album che è valso ai Midlake, fino al giorno della pubblicazione, la palma di gruppo più atteso dell’anno. Vertiginosa la distanza temporale da ‘The Trials of Van Occupanther’, quattro anni quasi eterni considerando quante uscite di rilievo si siano alternate nella medesima mattonella musicale dal 2006 ad oggi (su tutti i Fleet Foxes, almeno in quanto a eco nei circuiti alternativi). Enormi anche le aspettative per questo terzo passo della band di Tim Smith, forse veramente troppo elevate per poter consentire di leggere con la giusta lucidità un cambio di prospettiva in realtà meno radicale di quanto abbiano immaginato (e scritto) i più. E’ un disco che ha spiazzato, questo sì, dividendo la critica tra entusiasti forse eccessivi e detrattori feroci. Mediamente l’accoglienza è stata tiepida, proprio per l’errore di valutazione da cui l’analisi di queste nuove canzoni è parsa viziata in partenza. ‘Van Occupanther’ è stato un grande disco e i Midlake non hanno potuto (forse) né voluto (sicuramente) replicarne l’impatto easy listening, il fascino diretto, l’irresistibile magia pop-folk che tante tracce ha lasciato nel sottobosco indie statunitense. E’ cambiato anche il contesto, questo va detto, ma mi sembra importante non limitarsi ai riferimenti esteriori e al background del gruppo per svelare il limitato appeal che il disco pare aver espresso. ‘Van Occupanther’ va dimenticato e, se possibile, demitizzato. Un’opera emozionante e riuscita, non il capolavoro che ci è stato spacciato o che abbiamo creduto di vedervi. Con questa semplice premessa si può rendere giustizia alla peculiarità e alla natura altra di ‘Courage’, che è un disco bello alla stessa maniera di quello, meno facile e ruffiano, meno efficace, ma più maturo. Il recensore di pitchfork lo ha demolito sulla base di una convinzione secondo me errata, citando (fregandosene) il lavoro fatto da Smith nella rilettura del folk britannico di fine anni ’60, quello anche obliquo e misterioso dei Fairport Convention e dei Pentangle, senza segnalare però come quella rilettura fosse filtrata da una sensibilità yankee in direzione psych folk e come la fattura dei brani sia veramente ottima, sempre. Come ho scritto altrove i Midlake “classici” io ce li sento eccome (in ‘Small Mountain’ per esempio), mi conforta che la band abbia scelto di percorrere una strada diversa senza snaturarsi davvero, facendo propria la prospettiva stilistica di un Greg Weeks o di un Ben Chasny (‘Bring Down’ – strepitosa – valga come emblema) ma rifiutandone a priori gli eccessi più acidi e barocchi, proponendosi con un equilibrio ed una pulizia sonora sufficienti a scongiurare i rischi di caricatura che il sottogenere spesso porta con sé.

‘Teen Dream’, ritorno in pista per i Beach House a meno di due anni da ‘Devotion’, è valso al duo di Baltimora un’inattesa quanto indiscutibile consacrazione. Non è una sorpresa, soprattutto non è così ingiustificato questo risultato. Meno “dream” e più “pop”, una prodigiosa capacità di sintetizzare le proprie linee melodiche in modo da renderle facilmente metabolizzabili per gli ascoltatori meno smaliziati. Una dote, questa, tutt’altro che comune, e che in fondo era intuibile anche nella scrittura più articolata, ovattata e stilosa dei due album usciti per Carpark. A questo giro sarà il benemerito marchio Sub Pop, sarà la semplificazione intelligente delle trame, sarà l’intatto fascino della voce di Victoria Legrand, sia quel che sia, i Beach House dimostrano senza ombra di dubbio di aver saputo creare le perfette condizioni per una loro entusiasmante volata sul traguardo. Pitchfork li ha sempre apprezzati, ora li esalta con la ragion di stato che si deve ai cavalli vincenti, alle promesse sostenute dal primo istante e accompagnate trionfalmente al successo. Personalmente non tutto in ‘Teen Dreams’ mi convince a pieno. Il singolone ‘Norway’ o la nuova versione di ‘Used To Be’ sono abbacinanti e retorici (in termini pop) quanto basta, qualche canzone è meno riuscita e non può certo vantare le virtù della dolce ipnosi che avevano le seconde linee nei primi due album della coppia. Ma un brano come ‘Silver Soul’, straordinario a dir poco, conferma che sotto sotto non ci si è allontanati troppo dalla magia irresistibile di ‘Devotion’ (per il sottoscritto quello resta il capolavoro della band). Validissima in produzione l’enfasi attibuita senza indugi a synth, tastiere e all’organo della Legrand, a conferire al sound spiccate tonalità di pastello, calzanti e per nulla artificiose per quanto indubbiamente orientate a rendere più catchy l’impatto delle nuove canzoni. Un’altra svolta non draconiana ma comunque precisa, importante, a riprova di come oggi si possa fare ottimo easy listening solleticando anche i palati fini del pubblico alternativo. ‘10 Miles stereo’, ‘Zebra’ e ‘Lover of Mine’ – tra le altre – sono qui a confermarcelo.

Due parole, infine, le voglio dedicare anche al meno considerato tra i dischi in questione. ‘Die Stadt Muzikanten’ avrebbe dovuto essere il secondo vero album per i canadesi Woodpigeon, la formidabile band guidata da Mark Hamilton e di cui già ho scritto su questo blog. Il condizionale è necessario, dato che, di fatto, l’album da poco uscito è in realtà il terzo capitolo nell’avventura della numerosa compagnia di Calgary. La fortuna ha voluto che il precedente ‘Treasury Library Canada’ uscisse dai cassetti cui pareva destinato in virtù di logiche distributive e promozionali carbonare. Lo abbiamo intercettato, conosciuto ed amato. In pochi purtroppo hanno potuto godere della nostra stessa opportunità, ma questo è un problema loro. Ora arriva fresco fresco il seguito di quella meravigliosa scoperta ed il risultato non delude. Sulle prime l’ascolto mi ha un po’ spiazzato, devo ammetterlo. Non perché io abbia riscontrato un qualche inopportuno cambio di direzione, che peraltro nemmeno c’é. ‘Die Stadt Muzikanten’ è, tra i quattro nuovi LP citati in questo pezzo, quello che evidenzia una più netta continuità rispetto al passato recente dei suoi autori. A lasciarmi un po’ perplesso erano le canzoni: non le trovavo, molto semplicemente. La pazienza e l’attenzione nell’ascolto hanno rimesso le cose a posto, e questo è accaduto con la massima naturalezza. Un vero piacere far propri i dischi in questa maniera, poco per volta, con scoperte minime, ma ripetute. Ora posso sostenere che al nuovo Woodpigeon manca soltanto l’effetto sorpresa che tanto aveva fatto, nel caso di ‘Treasury Library Canada’. Per il resto la band si conferma come un’anomala ma bellissima realtà folk-pop-rock contemporanea, un gioiellino di gruppo. Nel disco è regalata, con la generosità cui i canadesi ci hanno piacevolmente abituato, tutta la gamma di canzoni della capiente valigia d’artista di Hamilton, un americano con la vocina acidula (alla Brian Molko) che ha studiato in Scozia carpendo il meglio da due distinti mondi musicali. La lunghezza del nuovo album (ma anche del vecchio) può scoraggiare, ma resta innegabile che la lievità prodigiosa di tutte le composizioni sappia compensare egregiamente un limite strutturale che, diciamocelo, non è certo il peggior male del mondo, considerata la qualità. Dalle deliziose e rarefatte folksongs ‘Our Love is as Tall as the Calgary Tower’ e ‘Such a Lucky Girl’ al caloroso jangle-pop di ‘Duck Duck Goose’, dalla grazia fragilissima di ‘Morningside’ agli sfiziosi aromi traditional di ‘Redbeard’ o ai passaggi più accesi e chitarrosi tipo ‘My Denial in Argyle’, il piatto è ricco e soprattutto non stanca. Se il buon anno si vede dall’inverno, beh, sarà un grande 2010.

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Magnolia Electric Co. @ Spazio211

15-10-2009

 

Il 2009 è stato anche l’anno del ritorno in grande stile del signor Jason Molina, un grandissimo dell’Americana. A novembre lui e Will Johnson, leader dei Centro-Matic, hanno pubblicato un disco realizzato a quattro mani (intitolato con scarsa fantasia ‘Molina & Johnson’) rivelatosi in realtà di gran lunga inferiore alle attese, il classico caso in cui la somma delle parti non vale quanto le singole componenti valutate separatamente. Qualche mese prima Molina aveva però già dato alle stampe un disco sotto la sua ragione sociale attualmente più importante, i Magnolia Electric Co. A due anni dalla ricchissima raccolta ‘Sojourner’, a tre da ‘Fading Trails’ e quattro da ‘What Comes After The Blues’, primo capitolo della nuova avventura, l’ex one man band dei Songs:Ohia ha dimostrato una volta di più che la "Cura Albini" ed il cambio di moniker ne hanno rivoluzionato gli orizzonti espressivi. Non più il folk scarno e declinato spesso secondo il verbo sad-core tanto in voga nei ’90, ma un garbato e grintoso roots rock molto yankee oriented, impreziosito in sede live da sortite in territori blues, noise o desert folk, sempre estremamente convincenti. Il primo assaggio di un suo concerto, in un ottobre torinese particolarmente ricco di appuntamenti preziosi, ha rappresentato la più diretta conferma di questa comune convinzione. Un gran bel concerto, muscolare ma colorato, in cui il piccoletto vestito da cowboy ha saputo pilotare con polso una band di musicisti esperti ed affidabili (su tutti il monumentale chitarrista Jason Groth, un virtuoso particolarmente efficace), capaci di offrirsi in una prova brillante nei diversi registri adottati. Poche canzoni ma consistenti, in una scaletta che ha presentato alcuni dei migliori brani del recente ‘Josephine’ (‘Shenandoah’ e ‘Little Sad Eyes’) e soprattutto dai due album precedenti (splendida ‘Hard To Love a Man’ dedicata all’amico Howe Gelb), più un paio di episodi dall’ultimo lavoro a firma Songs:Ohia, alcuni inediti ed una cover incendiaria di ‘Lawyers, Guns and Money’ del compianto Warren Zevon, inserita come unico bis prima dei meritati applausi finali. Una bella lezione di rock tradizionale e pulito, lontano dalle mode del momento ma indispensabile per chiunque guardi ancora al genere come una salutare medicina disintossicante. Per una simile riuscita era necessaria la regia di un grandissimo come l’autore di ‘The Lioness’, forse in fase discendente in termini di carriera ed urgenza ma pur sempre autorevolissimo come insegnante. Peccato solo non aver portato con noi abbastanza denaro per fare nostri tutti (ma proprio tutti) i vinili da lui pubblicati in oltre quindici anni, rarità incluse. A 12 euro l’uno e dopo una simile serata era davvero qualcosa più di un semplice e volgare "affare".

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