Month: gennaio 2010

Sometimes I Wish We Were An Eagle

 

Ancora una volta Mr. Smog ha fatto centro, senza bisogno di reinventarsi o stravolgere le proprie convinzioni estetiche. Non sbagliano gli intransigenti puristi che non gli hanno ancora perdonato l’accantonamento del vecchio moniker, e non sbagliano i detrattori di vecchia se non vecchissima data, sostenendo che questo nuovo lavoro di Bill Callahan non aggiunge nulla a quanto già detto in venti anni di onorata carriera, apprezzata o meno che sia. Sbagliano invece tutti loro nel servirsi di questo condivisibile assunto con dogmatica miopia, liquidando sbrigativamente il disco senza preoccuparsi di scoprire come dica quelle cose già dette, adoperando quale lingua. L’elemento cruciale di ‘Sometimes I Wish We Were An Eagle’ risiede a mio modesto parere proprio in questo dettaglio non trascurabile. Callahan ripercorre strade e temi a lui cari, ma lo fa con una consapevolezza formale straordinaria e senza alcun autocompiacimento. Dice cose dure, anche durissime (come in un finale che svela la fine della sua fede in Dio), eppure lo fa con un tocco leggero e misurato, tagliando all’essenziale la sua musica e riuscendo ugualmente a mantenersi su livelli comunicativi ed emotivi straordinari. Un quadro intenso e policromo che prende le distanze dalla magnificenza pop-rock della prima prova solista, riportando piuttosto alla memoria gli ultimi Smog: sobrietà elegante negli arrangiamenti, marginalizzazione delle tentazioni folk classiche (evitando di risultare eccessivamente crudo) ed apertura alle più svariate influenze in ambito cantautoriale. Il risultato è questo semplice ma convincente affresco, un’opera preziosa che riesce a porsi in una prospettiva personalissima fluttuando come in sospensione, senza tempo, fuori del tempo. Sarà anche per questa sensazione che lo ritengo un album vincente, libero da vincoli, classico già al primo ascolto e probabilmente ancora attuale dopo mille passaggi sul giradischi. Callahan in tal senso è sempre stato un maestro ed invecchiando ha saputo affinare questa sua prerogativa di sguardo come nessun altro. Disco dell’anno, nessun dubbio a riguardo.

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When you make fire with the devil…

 

 

Per concedersi l’opportunità di un’autentica pace spirituale bisogna aver sperimentato l’abisso, almeno una volta nella vita. Va bene, espresso in questi termini suona come il più logoro dei luoghi comuni sul tema della redenzione. La vera notizia oggi, l’aspetto realmente incredibile di questo vecchio adagio, è che esista ancora qualcuno che ha voglia di servirsene per esercitare la propria creatività e suscitare emozioni. Il parallelo beatitudine/dannazione ha sempre affascinato gli americani e tante pagine della loro cultura popolare sono state scritte facendo ricorso a questo comodo espediente. La salvezza è un pozzo scuro e profondo. Lo sostengono con smisurata convinzione gli emergenti The Builders and The Butchers, un gruppo a tal punto appassionato di dicotomie da adottarne una come ragione sociale. La predilezione per i contrasti e per i chiaroscuri è molto più di una semplice cifra stilistica nella vicenda di questa giovane formazione indipendente, diventa il riflesso di una personale parabola ascendente alla ricerca del proprio posto nel mondo. La storia, emblematica e ancora ferma alle battute iniziali, racconta di una fuga dall’Alaska verso la città più affine al proprio tumultuoso sentire (la solita benedetta Portland, Oregon) sulla medesima rotta percorsa quasi in contemporanea dai Portugal The Man. Per cinque improbabili aspiranti alla fama, il momento del disgelo. Ieri l’enciclopedia di Ryan Sollee, cantante e chitarrista, non contemplava altre voci al di là di “punk” e “rock”, oggi il giovane pel di carota scopre nel solaio virtuale della nuova residenza bauli e bauli di musica delle radici – l’ Americana con la A maiuscola – e gli si spalanca davanti un baratro di pura estasi. Per un paio di anni i ragazzi scrivono canzoni e le suonano come disperati, fino a consumare gli strumenti portati dal nord come unico bagaglio. Pubblicano un disco omonimo, si fanno apprezzare nella zona grazie ad una serie di performance a dir poco trascinanti (a supporto di Dax Riggs, Helio Sequence e Port O’Brien) ma sembrano destinati a restare nell’ombra, come tanti altri. Il primo tassello del loro mosaico della fortuna ha il faccione di Chris Funk, chitarrista dei Decemberists che a tempo perso si improvvisa talent scout e produttore. L’offerta di aiuto è troppo ghiotta per rinunciarvi e porta con sé la disponibilità di ambienti, mezzi e collaboratori di prima scelta, una manna che nessuno dei Builders avrebbe saputo immaginare solo qualche mese prima. Qui si apre di fatto il capitolo di ‘Salvation is a Deep Dark Well’, entusiasmante opera seconda e possibile tagliando vincente per l’ennesima irresistibile compagine Made in Portland. Incontrandoli per la prima volta sulla propria strada, l’orecchio e l’occhio disattenti potrebbero scambiare i cinque barbuti statunitensi per la milionesima combriccola di folkers in cerca d’autore, di quelle spuntate come funghetti nel sottobosco indie nordamericano (anche canadese dunque) in una notte lunga un lustro. L’insopprimibile urgenza di questi improvvisati migratori underground basterebbe però da sola a sgombrare il campo da qualsivoglia equivoco, soprattutto quelle impressioni superficiali dettate dalla strumentazione e dalla mise adottate in fretta e furia dai musicisti in fuga dal gelo della loro adolescenza. Caratterizzato da una coerenza sonora e di scrittura indiscutibile, impregnato di una retorica battista attualizzata che ne corrobora l’impatto, ‘Salvation’ assume i contorni di un anomalo concept da più parti definito (con demenziale inadeguatezza) “gotico”, un viaggio in parallelo nel cuore del manicheismo tanto caro all’America popolare (qui l’American Gothic si rivela sorprendentemente pertinente) e nell’identità musicale di quello stesso universo, tra un passato che torna oggi d’attualità e una raccolta di cartoline con sopra impressa la mitologia tascabile della frontiera. L’esplorazione parte dall’oscurità di ‘Golden and Green’, con quella che ha tutto il sapore della premessa. L’invito a chiudere gli occhi favorisce l’immedesimazione con il protagonista dell’intera vicenda, anche se in un’intervista Sollee ha dichiarato di aver tratto ispirazione per questo brano da uno dei più straordinari idiot savant della storia dell’arte, Henry Darger. Impetuosa ed eclatante, la canzone d’apertura definisce le linee emotive e sonore dell’album, con la voce tremula di Ryan che irrompe e sale in cattedra affiancata dai calibri dei due batteristi (una delle particolarità dei Builders), dai violini e da chitarre d’ogni sorta. Il pronto rinforzo offerto dalla ruspante ‘Devil Town’, immediata ma attenta al dettaglio con la sua rustica fisionomia bandistica resa fruttuosa da un songwriting all’altezza, consolida la sensazione di trovarsi al cospetto di una macchina ideata per impressionare e in cui ogni elemento svolge alla perfezione il proprio compito. 

 

Dietro la console Chris Funk mostra di saper infondere quel senso di magico equilibrio che a ‘The Builders and The Butchers’ evidentemente mancava, rifinendo e arrotondando i suoni rispetto alle asprezze folk di quel primo lavoro, ma senza svilirne l’incisività, anzi, assecondando le potenzialità di una band di pura sostanza, già speciale di suo. Un sodalizio quanto mai indovinato, dunque, alla riscoperta della più incendiaria roots music del secolo passato. Introdotta dal banjo e dall’armonica, ‘Short Way Home’ è un’esplosione di colori ed umori ferrosi – con atmosfere che tendono al sanguigno e al blueseggiante – in cui troneggia la voce nasale ed istrionica di Sollee. Un ridotto immaginario a base di ali dorate, angeli, anfratti tenebrosi, sangue, fiumi ed alberi in fiamme, è snocciolato con la giusta convinzione in testi carichi di suggestioni millenaristiche. Il diavolo si ritaglia un ruolo da protagonista (non poteva essere altrimenti) come metà oscura dell’animo umano, mentre il fuoco divampa in ogni dove con l’esplodere delle emozioni. Il diversivo spagnoleggiante intavolato dall’iperbolica ‘Barcelona’ coincide con l’episodio in cui i debiti verso il Decemberists’ style affiorano in tutta la loro evidenza (ricordate per caso ‘O Valencia’?), forse con qualche “meloysmo” di troppo nel cantato. La vena genuinamente enfatica ed il calore autentico della band preservano comunque il pezzo dall’artificio dell’imitazione dozzinale e della teatralità “picaresca” trasformandolo in un irresistibile omaggio, quasi una personale reinterpretazione del classicismo di una ditta ormai apprezzata universalmente. Forti di una partenza tanto veemente e risoluta, i Builders si concedono il lusso di piazzare subito qualche colpo ad effetto, giusto per il piacere di stupire l’ascoltatore anche senza andare a stravolgere il proprio gioco smaccatamente espressionista.  Con l’affilata ‘Hands Like Roots’ simulano il disimpegno nel riempitivo per prodursi in realtà in uno dei più riusciti esperimenti dell’album: una radicale dinamizzazione dei meccanismi e degli stilemi tipici del country, temprati dalla compattezza granitica di un sound a più dimensioni e dal ricorso ad un’andatura volutamente irregolare. In ‘Down in the Hole’ e ‘Raise Up Your Weary Hands’ si punta ad una veste più delicata limitando i contributi dell’artiglieria pesante (sempre cruciali comunque in chiave energizzante, specie sui refrain), liberando l’eccellente mandolino di Harvey Tumbleson – vera griffe nel suono dei cinque – da compiti di semplice manovalanza pirica e spiazzando un po’ tutti con la ricodifica in chiave western/chicana del più azzeccato dei ritornelli (“When you make fire with the devil / Don’t be surprised if you get burned / You were among the lucky ones / And he only took your hands”). Prima della fine c’è ancora tempo per dare fuoco alle polveri. ‘Vampire Lake’ e ‘In the Branches’ vanno direttamente in cima alla lista dei titoli più frenetici e roboanti del disco, con il solito trambusto della sezione ritmica organizzato con disciplinato furore ed una bella scorta di violini irrequieti (nella prima) a bilanciare il costrutto con la lingua pura del cuore. Incastonata tra le due, ‘The Wind Has Come’ opta nuovamente per una strategia di mimetismo “dicembrista”, esponendosi senza timore al rischio della stilizzazione e della maniera. Il passo sofferto ed un impianto sonoro votato alla massima sobrietà la rendono un passaggio quasi alieno, straniante, un’isola d’estenuata malinconia in mezzo allo scorrere irruento delle altre canzoni. Ma l’energia che qui è magistralmente trattenuta basta a confermare per intero le credenziali del gruppo, dimostrandone l’autorevole disinvoltura anche alle prese con registri non proprio canonici per la band di stanza a Portland. ‘The World is a Top’ funziona egregiamente come conclusione della parabola, l’uscita dal pozzo a riveder le stelle. La vetta è raggiunta con un’esternazione elettroacustica impeccabile in quanto a rilascio emotivo, con l’impiego di calzanti coloriture gospel in bassa fedeltà ad ampliare lo spettro espressivo di ‘Salvation is a Deep Dark Well’ (rispolverando una delle folgoranti formule del bellissimo esordio). Ancora una volta nell’ordine delle idee, dal vuoto del silenzio, la forza dei Builders risulta enormemente amplificata. Una scommessa vinta a tutti i livelli, quindi, combriccola ed album da promuovere subito a pieni voti. Il consiglio è di provare l’assaggio, ma una premessa è d’obbligo: a scherzare col fuoco (e col diavolo) capita di ritrovarsi scottati. Se siete fortunati vi “prenderà la mano”.

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Willard Grant Conspiracy @ Spazio211

09-10-2009

 

Sorpresa positiva il live ottobrino dei Willard Grant Conspiracy a Spazio. Il classico concerto in cui si parte senza pretese, temendo magari di affogare presto in uno stagno di noia, è che invece conquista anche senza particolari colpi ad effetto. Certo esibizioni come questa richiedono una pazienza ed una disposizione d’animo adeguate, per cui capitarci al momento sbagliato puo equivalere ad una sorta di supplizio. Ma non è stato il mio caso, per fortuna. La serata l’ha aperta Cesare Basile, una specie di vate per la canzone d’autore italiana più cruda e disadorna. Non un mostro di espansività, ma pur sempre un professionista coi fiocchi. Prova monocromatica la sua, ma di un’intensità rara, sbalorditiva. E’ stato un validissimo antipasto per lo show (termine inappropriato, ma lo uso ugualmente) del monumentale Robert Fisher, purtroppo in versione "senza barba" (diversamente dal francobollo "Ockett senza barba" in una vecchia storia Disney, il valore – almeno in termini di impatto – è risultato inferiore alla variante "con barba"). Una canaglia intelligente Mr. Fisher, innamorato dell’Italia ma non incline al sorriso. Il concerto del suo storico collettivo, riveduto e corretto per l’occasione (con la spalla fidata del solo violista Curry ed i contributi stabili dei bravi scozzesi Doghouse Roses e dello stesso preziosissimo Basile), ha saputo regalare parecchie emozioni smentendo le previsioni di uno show acustico insipido e monocorde. Il merito è stato del frontman, impeccabile nella classica formula ‘voce e chitarra’ ed abile nell’inventarsi tocchi di colore inattesi per ogni brano, rivitalizzando di fatto una scaletta che ha ricalcato per sommi capi quella antologica del recente album di riletture, ‘Paper Covers Stone’. Live curioso dunque, affilato come una lama ma capace di rivestirsi di nervose inquietudini elettriche (bellissima verso la fine ‘No Such Thing As Clean’, puro deserto americano) o di svoltare alla prima curva verso territori di disarmante delicatezza (come nella conclusiva ‘Lady of the Snowline’, una delle più belle canzoni della band di Boston, o nei cori pazzeschi di ‘Ghost of the Girl in the Well ‘). Tutti bravi i musicisti sul palco ma nessuno come Fisher: ottimo spot alle mitiche Fisherman’s – divorate letteralmente – la strepitosa versione a cappella di ‘Ballad of John Parker’. Per poco che possa sembrare, basterebbe una perla del genere a dare un senso a un’intera serata.

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Bambole che volano via

 

Sempre restando in tema di delusioni del 2009, non posso non piazzare al volo un riferimento ad un duo che amo forse esageratamente, al di sopra degli effettivi meriti, ma che, seppur in sordina, ha avuto modo di rifilarmi una discreta spernacchiata alle spalle con il suo più recente passaggio discografico. I Brunettes li ho scoperti relativamente tardi, un po’ come tutti quelli che li conoscono da queste parti. La firma per la Sub Pop è stata determinante, insieme alle accattivanti foto promozionali che hanno accompagnato il lancio europeo e americano di questa oscura (ma coloratissima) band neozelandese. ‘Structure and Cosmetics’, l’album scelto per una conquista di fatto mai concretizzatasi, ha rappresentato per me il primo piacevole tuffo in una realtà di cui ignoravo anche solo l’esistenza. Un disco fresco, allettante, ma più di questo la chiave per arrivare ai primi Brunettes, quelli twee e sorprendenti, oltre ad altri validi personaggi della stessa scena, dai Ruby Suns ai Reduction Agents e da questi al loro misconosciuto leader, quel sensazionale James Milne che, sotto le spoglie di Lawrence Arabia, si sta affermando a sorpresa come il più talentuoso autore di tutta la cricca. Quella dedicata a Jonathan Bree e alla splendida Heather Mansfield è stata la mia prima recensione su Indie-rock.it. Li ho anche intervistati via mail, ho setacciato tutto il repertorio (ottimi i primi due EP), mi ci sono affezionato. Sarà anche per questo che non posso non dirmi deluso dal recente ‘Paper Dolls’, decisa virata che asseconda (radicalizzandole) certe tentazioni sintetiche già espresse negli ultimi capitoli dell’avventura del duo e che mira forse a ritagliarsi uno spazio maggiore del dovuto (da alleggerimento estemporaneo e niente più ad album vero e proprio con tutti i crismi) nella carriera dei Brunettes. Alla Sub Pop non è piaciuto, ragion per cui Bree ha dovuto licenziarlo tramite la sua etichetta, la Lil’ Chief. Al di fuori dei confini nazionali non è stato minimamente recepito ed anche in patria, va detto, non è che la critica si sia stracciata le vesti per l’entusiasmo. Se avete amato la genuina vena sixties di ‘Holding Hands, Feeding Ducks’, o il candore intelligente di ‘Boyracer’ e ‘When Ice Meet Cream’, girate al largo. Come suggerito dal titolo, l’aspetto più evidente di ‘Paper Dolls’ è la fragilità della sua natura, una leggerezza che in termini di songwriting evoca impietosamente un’idea di bozzetto senza sviluppi, di spunto magari anche interessante ma lasciato – appunto – sulla carta. Anche la copertina, in questo caso come in quelli precedenti, vale più di mille parole: i due musicisti disegnati come pallide figurine prive di anima, polpa, sangue, colore. La preoccupante assenza di sostanza annunciata dalla cover trova immediato riscontro nella musica, basta un ascolto. Il singolo di lancio ‘Red Rollerskates’ trasmette una fastidiosa impressione di annacquatura della bella vena melodica dei neozelandesi, ex arma vincente che qui affoga letteralmente nel "cosmetico" (tanto per citare loro stessi), nella sovrastruttura sonora posticcia. Se nel caso specifico il trucco risulta inevitabilmente pesante, tradendo anche una certa dozzinalità a livello produttivo, il risultato non può che essere frigido. A parte questo fiacchissimo episodio da vetrina ed una ‘It’s Only Natural’ a tratti stucchevole in maniera quasi imbarazzante, il resto soffre di una generica pochezza di stimoli e idee pur senza mancare di meritarsi per l’ennesima volta l’appellativo "cute" con cui da subito le canzoni dei Brunettes sono state etichettate dalla critica. Il problema in fondo sta tutto qui e riguarda il giusto inquadramento che questi nuovi brani cercano. Il gruppo aveva le carte in regole per puntare ad una svolta ma c’é da sperare che le sue effettive intenzioni fossero di procrastinare tale appuntamento con la maturità alla fatidica "prossima volta". Come "coraggioso passo avanti" ‘Paper Dolls’ potrebbe avere un senso solo nella prospettiva del gambero, riducendosi per tutte le altre specie animali ad un fiasco anche abbastanza clamoroso. E’ evidente allora (ed auspicabile, come direbbe un qualsiasi presidente del Senato) che Bree e la Mansfield puntassero piuttosto a registrare uno smaliziato divertissement, buono come bizzarra pacchianata per raccogliere senza particolari sofisticazioni un ridotto numero di B-sides (esemplare ‘Bedroom Disco’), uno sfogo antintellettualistico da perfetto cazzeggio nella stanza dei giochi. Pezzi come ‘Connection’, ‘Magic (No Bunny)’ o ‘The Crime Machine’ sono cloni leggeri leggeri delle consuete trame melodiche della band, diversivi banalotti, simpatici e poco incisivi, con addosso la classica patina di ordinaria amministrazione, di creatività al minimo sindacale. Anche se il doping elettronico non riesce mai a convincere del tutto, valutate sotto questa luce le canzoni di ‘Paper Dolls’ si meritano comunque una benevola assoluzione. L’iniziale ‘In Colours’ – per dire – è anche abbastanza carina, sulla falsariga pop saltellante di ‘Structure and Cosmetics’. Gioca con taglio minimalista le proprie carte, soprattutto nell’uso parco e calibratissimo delle chitarre, regalando conferme preziose nel pimpante incastro delle due voci, nel synth guizzante e in un suono sempre piacevolmente avvolgente. Non mancano momenti in cui le qualità dei due neozelandesi sembrano a fuoco nonostante la veste sbarazzina. La Title Track replica con ostinata aderenza ai tipici cliché malinconici e ruffiani il clima e la malìa un po’ drogata dei Brunettes da ‘Mars Loves Venus’ in poi, con arrangiamenti sintetici funzionali che non vanno mai sopra le righe. Dopo una mezzora alquanto scarsa arriva il finale garbato che ci si aspetterebbe a prescindere (‘Thank You’) e che porta in dote anche un ritornello finalmente all’altezza. Prima comunque c’é ancora spazio (‘If I’) per una riflessione di maggior spessore. Il romanticismo esasperato di Jonathan Bree trova un felice risvolto limitando all’essenziale le sporcature innaturali, rallentando l’andatura e riportando in primissimo piano le due voci: "Se dovessi morire accidentalmente e lasciarti così presto" canta lui "suoneresti e canteresti ancora le nostre canzoni con qualcun’altro?". Un piccolo brivido si riaffaccia allora nell’episodio più palpitante del disco. Ma è un attimo appena. Ecco, col vento è già volato via.

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Hombre Lobo

 

Tra le personali delusioni dell'anno appena andato in archivio tocca infilare senza cattiveria anche la nuova, irsuta confessione dell'uomo lupo dell'indie made in U.S.A. In attesa di quella "fine dei tempi" che a breve magari arriverà a smentire quanto da me scritto nel pezzo di giugno su Monthlymusic, resta l'amara constatazione di un mezzo passo falso dopo il trionfo autobiografico di 'Blinking Lights and Other Revelations'. Certo va chiarita la misura del termine delusione: 'Hombre Lobo' di per sé non è affatto un brutto disco. Per i neofiti dello stile Eels può sembrare anche un lavoro godibile nel suo croccante manicheismo easy listening: come breve compendio della filosofia musicale del suo bizzarro autore funziona a dovere, spaziando con meccanica regolarità dai ruvidissimi e spigolosi bozzetti alla 'Souljacker' alle enfatiche delicatezze di 'Daisies of the Galaxy', riveduto e corretto per l'occasione ma solo nelle intenzioni. Il problema di Mr. E a questo giro è la pochezza – diciamo pure l'assenza – di idee nuove da sviluppare. Everett è stato bravo nel rielaborare un numero limitato di spunti, di loro già alquanto logori visto l'abuso fattone negli ultimi dodici anni, ma il risultato può accontentare solo i fan più accaniti e meno esigenti, quelli che troverebbero il massimo appagamento nell'assistere alla millesima replica del medesimo spettacolo (basta confermarne immutata la formula ed il gioco è fatto). Anche la convinzione questa volta sembra fare difetto, con esiti prossimi al macchiettismo e alla caricatura (soprattutto negli episodi più abrasivi e di maniera, pur se divertenti) sì ché il desiderio evocato nel sottotitolo sa tanto di simulazione, in barba (lunga, lunghissima) alla sincerità del capolavoro eelsiano di quattro anni fa. Un passaggio meno riuscito a base di iperboliche autocitazioni ed ibridi bizzarri come 'All The Beautiful Things' e 'The Longing' (per una lista più accurata di rimandi più o meno sbracati si legga la recensione) ci può stare, specie da un songwriter anomalo e delizioso come Everett. Solo c'é da augurarsi che dopo questa piccola festa del riciclo ai box, il nostro favoloso uomo lupo sappia tornare in pista con le giuste motivazioni, magari radendosi completamente e rispolverando l'improbabile e sfigatissimo cappellaio matto dal cui cilindro sono usciti 'Beautiful Freak' e 'Electro-shock Blues'. Inutile e sciocco pretendere che Mr. E si reinventi di sana pianta, ma aspirare ad un ritorno leggero e non teatrale alla curiosità e alla tenerezza delle sue pagine migliori sembra una richiesta più che lecita da parte di chi lo ama così tanto. I passaggi più riusciti di 'Hombre Lobo' possono fare la loro parte offrendosi come punti di partenza. 'What’s a Fella Gotta Do', 'Beginner's Luck' e – perché no – anche l'irresistibile faciloneria di una 'That Look You Give That Guy': a guardar bene la direzione è già segnata e se è vero che chi ben comincia è già a metà dell'opera, beh… che la fine dei tempi venga dunque!

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