Month: dicembre 2009

I will see you around

Vic Chesnutt ci ha lasciati. Senza troppo clamore, con un’overdose di rilassanti muscolari, farmaci che lui assumeva regolarmente da più di venticinque anni per lenire i dolori del suo scorrere disastrato. Nei testi delle sue canzoni aveva scritto spesso del suicidio. Amava evocare la morte come per esorcizzarla, sin dai tempi di ‘Little’, il primo di una lunghissima serie di album mandati in stampa come autentici stralci di vita, prima che d’arte. La musica e la letteratura, scoperte solo dopo l’incidente che stravolse la sua esistenza, si erano subito imposte come la linfa, il motore del suo stoico resistere: al dolore, alla sfortuna, anche alle tentazioni di una comoda via di uscita. Negli ultimi tempi Vic aveva intensificato gli sforzi come se presagisse di non riuscir più a trattenere questa “compagna di tutta una vita” dal regalargli finalmente il riposo sognato. Gli ultimi due lavori, usciti entrambi solo qualche mese fa, sembrano tradire una sorta di stanchezza nella lotta, ma lo fanno paradossalmente con un’autenticità nello sguardo, un acume ed un’intensità che sono in fondo la miglior testimonianza di quel che è stato Vic in questi lunghi anni di malattia: un uomo vero, forte come una quercia, un combattente. Questo scavando fino all’osso, nell’essenzialità della sua poetica, della sua stessa filosofia di vita: in termini di sincerità, di confessione dal taglio fieramente crudo, spontaneo, veritiero. Una scelta evidente sul piano dei testi, la cui schiettezza (‘Coward’, ‘Flirted With You All My Life’) risulta una naturale evoluzione degli slanci metaforici che appesantivano di ingenuità le prime incerte liriche, quelle in cui il disagio e l’ossessione di sé – quasi il crogiolarsi dell’artista nei panni del derelitto sventurato – avevano anche senza volerlo il sapore della posa e della maniera. Con gli anni Chesnutt ha saputo inquadrarsi e raccontarsi servendosi di filtri sempre meglio calibrati e più straordinari, trattenendosi in una dimensione distante ma emotivamente viscerale, evitando con elegante ironia le facili tentazioni del patetico ma colpendo al cuore l’ascoltatore più libero dai pregiudizi. In questo era riuscito molto presto a cantare se stesso ed il mondo attorno a lui come un universo coeso, sempre strettamente legato, una simbiosi entusiasmante oltre che la sublimazione di un punto di vista originalissimo anche in termini letterari, con una fusione spesso incredibile di registri teneri e caustici. L’umanità di Vic era l’umanità delle sue canzoni, due piani mai tanto indisgiuntibili come in questo caso, con una perfetta coincidenza tra la persona ed il personaggio, il creativo e l’oggetto delle sue crepuscolari affabulazioni, sempre ben visibile sullo sfondo. Anche la musica ha assecondato questa sua esigenza di verità, questa volontà di mettersi definitivamente a nudo. L’incontro con le sottili deflagrazioni rumoristiche di Guy Picciotto e del collettivo canadese dei Silver Mt. Zion andava necessariamente replicato per conferire ai pezzi di ‘At The Cut’ quella vitalità inquieta e nervosa che è la migliore colonna sonora per le sorprendenti parole racchiuse nell’album. Per ‘Skitter On Take-Off’ Vic ha preferito l’espediente di una sobrietà solipsistica, come non si riscontrava dai tempi del suo acerbo e meraviglioso esordio. Dopo averlo anticipato in più di un indizio, Chesnutt deve essersi sentito pronto per lasciare. E lo ha fatto. Il problema ora è mio, e di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di amarlo o conoscerlo. Lo ha scritto con efficacia Kristin Hersh, cantante dei Throwing Muses che con lui avevano diviso il palco in un tour europeo di una quindicina di anni fa. Era un’amica, di fatto ha dato lei l’annuncio della scomparsa di Vic e, per quanto anche lei sentisse come nell’aria questo gesto estremo, ha raccontato in una bella intervista a caldo su Entertainment Weekly che no, non era affatto pronta per pensare a lui come un tassello del proprio passato. Il difficile è proprio questo. Per me quindici anni con le canzoni di Vic, il mio personale passepartout per l’universo musicale indipendente, ed ora mi sento improvvisamente molto più solo. Un amico importante che se ne va, sfiorato appena nella vita reale in uno scambio di mail per un’intervista, poco più di un’ora di concerto, meno di cinque minuti di chiacchiere, l’autografo su un pugno di dischi ed un abbraccio. Sembra poco in effetti, ma lui è stato sempre con me per circa metà della mia vita. Mi ha appassionato, divertito, commosso, insegnato. Ora, come la Hersh, non riesco a mettere su i suoi dischi. Faccio fatica anche solo a pensare alla musica che ha scritto. Come la Hersh ho sempre identificato le canzoni di ‘The Salesman & Bernadette’ con un certo clima natalizio, con un certo calore, candore domestico. Ma come posso riascoltarlo ora che Vic ha scelto proprio il giorno di Natale per farsi da parte? Sembra ridicolo da spiegare alle persone normali che non vivono di musica come me, che non ne fanno una malattia, che non si circondano di antieroi quasi immaginari compilando una personale micro-mitologia pocket da universo parallelo, traendo spunti infiniti per rendere almeno un tantino più preziosa la propria routine. Sembra assurdo spiegare che sento terribilmente un vuoto dentro, per quella parte di me che se n’é andata per sempre insieme ad un piccolo e miserevole cantautore paraplegico, ma è così, davvero. Se questo aspetto è fondamentale e non mi permetterà per un po’ – già lo so – di riaccostarmi a quei pezzi ora così inavvicinabili (ma è mia intenzione scriverne in maniera dettagliata su questo blog, appena mi sarà possibile), se è triste l’idea di un Chesnutt che ci lascia in una fase di febbrile impulso creativo, resta comunque la soddisfazione di averlo visto suonare dal vivo, di averlo conosciuto per quanto marginalmente, di averne respirato la forza ed il carattere e di aver incrociato con lui sguardi e sorrisi, almeno una volta. Questo fino alla prossima, che ci sarà presto o tardi, ne sono certo.

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Classifica 2009

Alla fine dico Bill Callahan. E’ stata un’annata senza colpi eccezionali ma con tanti buoni dischi, qualitativamente ben scritti e prodotti anche senza lasciare un segno indelebile. Anche per questo ho scelto di non indicare titoli del 2009 nell’ideale calderone con il meglio del decennio, qualche giorno fa. Album che meriteranno di essere ricordati ce ne sono, ma preferisco che sia il tempo a indicarmi quali e quanti. Di certo Mr. Smog ha vinto in agilità la mia classifica di preferenze dell’anno, con un lavoro uscito nel primo semestre ma rimasto ai vertici del gradimento del sottoscritto in virtù del suo magico respiro senza tempo. Qualcosa che, per tale motivo, può garantirgli secondo me una buona longevità. Certo bisogna amare il genere ma, anche in quest’ambito, Callahan è stato veramente colui che tra i grandi vecchi ha tirato fuori il meglio possibile. Preziosi anche i nuovi lavori di Oldham, Molina e Chesnutt, ma senza dubbio in posizione di retroguardia. Il premio per la miglior sorpresa dell’anno spetta di diritto ai Flaming Lips, pienamente recuperati in quanto a delirio creativo dopo il deludente ‘At War With the Mystics’. Quindi i Woodpigeon, autentica rivelazione dell’anno (che sarebbe il 2008 ma, vabbé, han fatto il botto solo dopo le prime mille copie stampate). Potente sorpresa l’album dei Builders & Butchers, band tra Decemberists e National assolutamente da tenere d’occhio. Gran piacere sul finire dell’anno da un mio personale pupillo, quell’Imaad Wasif che si fece scoprire nei nuovi Folk Implosion e negli Alaska!, prima di approdare ad una carriera solista che migliora tappa dopo tappa. A completare la top ten, un ottimo nuovo disco dagli Akron/Family in formazione a tre, la conferma dei Mew come una delle migliori band europee, il più pregevole album folk del continente dal sempre entusiasmante Alasdair Roberts, l’eccellente solidità dei Grizzly Bear e l’ennesimo gioiellino di Richard Swift. 

 1. Bill Callahan

‘Sometimes I Wish We Were An Eagle’

 2. Flaming Lips

‘Embryonic’

 3. Woodpigeon

‘Treasury Library Canada

 4.The Builders & The Butchers

‘Salvation Is a Deep Dark Well’

 5. Imaad Wasif

The Voidist’

 6. Akron/Family

‘Set ‘Em Wild, ‘Set ‘Em Free’

7. Mew

‘No More Stories…’

 8. Alasdair Roberts

‘Spoils’

 9. Grizzly Bear

‘Veckatimest’

10. Richard Swift

‘The Atlantic Ocean

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 11. Yo La Tengo

‘Popular Songs’

 12. Broadcast & The Focus Group

‘Investigate Witch Cults of the Radio Age’

 13. King Khan & BBQ Show

‘Invisible Girl’

 14. The Black Crowes

‘Before The Frost…Until The Freeze’

 15. Edward Sharpe & The Magnetic Zeros

‘Up From Below’

 16. Jon-Rae Fletcher

‘Oh Maria’

 17. Bazan

‘Curse Your Branches’

 18. The Clientele

‘Bonfires on the Heath’

 19. Vic Chesnutt

‘At The Cut’

 20. Thee Oh Sees

‘Help’

 21. Animal Collective

‘Merriweather Post Pavilion’

 22. Viva Voce

Rose City

 23. Neko Case

‘Middle Cyclone’

 24. Elvis Perkins in Dearland

‘Elvis Perkins in Dearland’

 25. Felice Brothers

‘Yonder is the Clock’

 26. Phoenix

‘Wolfgang Amadeus Phoenix’

 27. Doug Paisley

‘Doug Paisley’

 28. Espers

‘Espers III’

 29. Lawrence Arabia

‘Chant Darling’

 30. Huck Notari

‘Very Long Dream’

 31. Chain & The Gang

‘Down With Liberty…Up With Chains’

 32. Bonnie Prince Billy

‘Beware’

 33. Dirty Projectors

‘Bitte Orca’

 34. Marissa Nadler

‘Little Hells’

 35. Danger Mouse & Sparklehorse

‘Dark Night of the Soul’

 36. A.A. Bondy

‘When The Devil’s Loose’

 37. Anders Parker

‘Skyscraper Crow’

 38. Antony & The Johnsons

‘The Crying Light’

 39. All Smiles

‘Oh For The Getting and Not Letting Go’

 40. Jim O’Rourke

‘The Visitor’

 41. Polvo

‘In Prism’

 42. Burning Hell

‘Baby’

 43. The Thermals

‘Now We Can See’

 44. El Perro del Mar

‘Love Is Not Pop’

 45. Pontiak

‘Maker’

 46. Atlas Sound

‘Logos’

 47. Mumford & Sons

‘Sigh No More’

 48. Magnolia Electric Co.

‘Josephine’

 49. Robert Pollard

‘Elephant Joke’

 50. Reigning Sound

‘Love and Curses’

 51. Manic Street Preachers

‘Journal For Plague Lovers’

 52. Wild Beasts

‘Two Dancers’

 53. Ganglians

‘Monster Head Room’

 54. Scott Matthew

‘There Is An Ocean That Divides…’

 55. Wilco

‘Wilco (The Album)’

 56. Dodos

‘Time To Die’

 57. Girls

‘Album’

 58. Oneida

‘Rated O’

 59. Sunset Rubdown

‘Dragonslayer’

 60. Raveonettes

‘In and Out of Control’

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The Atlantic Ocean

 

Dannato Richard Swift! Aspettavo con vera impazienza la sua nuova uscita discografica e lui mi ha tirato uno schiaffone. A volte l’album che non ti aspetti può essere peggio dell’album che non arriva: la mia primissima impressione è stata più o meno questa. Ma il problema è tutto del fan, non dell’artista. Con i grandi talenti funziona così: occorre pazienza per seguirli nei loro repentini spostamenti, evitando di dare loro addosso quando emergono i primi problemi di sintonizzazione. Il "segnale" di Richard Swift stavolta non lo ricevevo granché bene, quindi mi sono lasciato andare all’idea (errata) di una clamorosa delusione. Il synth-pop lo digerisco non senza fatica se me lo regala la band "carina sì, ma buona una sera e via". Se è un cantautore a propormelo non posso non storcere il naso. Così almeno credevo. Il caso di ‘The Atlantic Ocean’, tuttavia, fa un po’ storia a sé. Al primo ascolto l’ho trovato rigonfio, kitsch, pacchianissimo e anche alquanto deboluccio. Più Prince che Lennon nei suoni, una smaccata esuberanza glam, l’insistita strafottenza retropop. Dedicandogli la giusta attenzione ho però scoperto che no, ero io a sbagliarmi. Ovviamente, vien da dire. In breve tempo i dubbi si sono sfarinati e ho realizzato che Swift è veramente un genio, un piccolo genio del ventunesimo secolo. Dopo quelle meraviglie screziate di folk sixties intitolate ‘Walking Without Effort’, ‘The Novelist’ e ‘Dressed Up For The Letdown’, il signor Ochoa ha con ogni probabilità realizzato il disco che sognava da tempo di creare, soprattutto con i mezzi di cui prima non aveva disponibilità. Ha avuto le chiavi dello studio di Jeff Tweedy e si è sbizzarrito con sonorità eighties a lui evidentemente molto care, rivelando però una fantasia, un’eccentricità generale che hanno dello sbalorditivo. Se non c’erano timori circa la conferma delle sue doti straordinarie di performer (il falsetto della lunare ‘Lady Luck’ varrebbe l’acquisto da solo) il più emozionante dei successi riguarda il songwriting, per nulla indebolito nell’alleggerimento pop ed anzi sempre felicemente orientato ad una gustosa classicità. Risultato quindi spiazzante per i suoi aficionados, ma gradimento esaltato con gli interessi dopo ascolti ripetuti. In tempi recenti la citazione intelligente in ambito musicale ha trovato pen pochi artisti su questi livelli: nonostante la mole di bei dischi intercettati negli ultimi dodici mesi, farei fatica a non tributare a Swift l’ennesimo riconoscimento tra i migliori album dell’anno.

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Se è vero che sta finendo…

No, non è vero che sta finendo. Ma va beh, questa è una di quelle convenzioni che si accettano senza problemi e che hanno anzi una comodità ed un fascino non disprezzabili. Faccio finta che questi anni a doppio zero vadano davvero in archivio e  scribacchio un abbozzo di classifica di dischi del decennio. Sui film non ho nemmeno provato, anche perché faccio molta più fatica a ricordarmi questo piuttosto che quello. Sui dischi è più facile anche se sicuramente nella lista che segue ne avrò dimenticati una miriade, oltre a quelli che a malincuore ho dovuto tener fuori. Poche regole per una rassegna che non vuol essere scientifica neanche in riferimento a me stesso. Troppo difficile orientarsi in tal senso, la precisione va a farsi benedire al terzo nome appuntato e nel giro di una settimana si stravolgerebbe tutto completamente. Teniamola come ipotesi di classifica valida qui e ora. Quindi definiamo i criteri di massima: 1) E’ una lista buttata giù di cuore più che di testa, non vuole rappresentare album eletti sulla base dell’importanza storica, dell’influenza, delle vendite, eccetera eccetera. Sono i cento titoli che, salvo inutili ripensamenti, sono piaciuti maggiormente al sottoscritto tra quelli usciti in questi dieci anni e – cosa fondamentale – ascoltati. 2) Non inserisco dischi usciti nel 2009 come cautela avendo avuto un limitato tempo di stagionatura a disposizione, anche se sono convinto che alcuni meriterebbero di finirci. Lo dico oggi, domani potrei già averci ripensato. 3) Nessun titolo italiano. Avrei potuto inserire qualcosa (Afterhours, Baustelle, Yuppie Flu) ma ho preferito rimanere oltre confine per un criterio di coerenza, anche perché di musica italiana ne ascolto poca o niente. 4) Un solo nome per artista. Criterio brutale ma necessario a garantire un quadro il più completo possibile. Di band come Wilco, Radiohead e Alfie avrei inserito 3 titoli a testa, per dire. Ma volendomi limitare a 100 nomi ho così modo di piazzare 100 proposte differenti, e già che certi tagli sono dolorosi. Il migliore per artista e amen. 5) Logica classificatoria estremamente limitata. Unica divisione, un ideale steccato tra i primi venti album e gli altri ottanta. Abbinarli ciascuno ad un numero crescente o decrescente è inutile, faticoso e nemmeno mi piace. Cambio opinione ogni cinque minuti, sarebbe una scelta assai poco credibile in un certo senso. E quindi li butto tutti nel calderone. Se sono dischi che avete amato e amate anche voi, piazzateli in classifica dove meglio ritenete.

Eels – ‘Blinking Lights & Other Revelations’

Espers – ‘II’

Franz Ferdinand – ‘Franz Ferdinand’

Giant Sand – ‘Chore of Enchantment’

Grandaddy – ‘The Sophtware Slump’

Guillemots – ‘Through The Windowpane’

The Libertines – ‘Up The Bracket’

Of Montreal – ‘Satanic Panic in The Attic’

Radiohead – ‘In Rainbows’

Rufus Wainwright – ‘Poses’

The Shins – ‘Chutes Too Narrow’

Simian – ‘Chemistry Is What We Are’

Smog – ‘Dongs of Sevotion’

Songs:Ohia – ‘The Lioness’

Stereolab – ‘Sound Dust’

The Strokes – ‘Is This It’

Tom Waits – ‘Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards’

Vic Chesnutt – ‘North Star Deserter’

The White Stripes – ‘White Blood Cells’

Wilco – ‘A Ghost Is Born’

 

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Anthony & The Johnsons – ‘I’m a Bird Now’

Akron/Family – ‘Love Is Simple’

Alfie – ‘Do You Imagine Things?’

Angels of Light – ‘Everything Is Good Here / Please Come Home’

Arcade Fire – ‘Funeral’

Ballboy – ‘A Guide For Daylight Hours’

Beck – ‘Sea Change’

Belle & Sebastian – ‘Fold Your Hands Child, You Walk Like a Peasant’

Black Heart Procession – ‘2’

Blonde Redhead – ‘Misery Is a Butterfly’

Bonnie Prince Billy – ‘Master and Everyone’

Brian Jonestown Massacre – ‘Bravery, Repetition & Noise’

Bright Eyes – ‘Lifted or The Story Is in The Soil, Keep Your Ear To The Ground’

Broadcast – ‘Haha Sound’

The Brunettes – ‘Holding Hands, Feeding Ducks’

Califone – ‘Roots & Crowns’

Clientele – ‘God Save The Clientele’

Club 8 – ‘The Boy Who Couldn’t Stop Dreaming’

The Czars – ‘The Ugly People vs. The Beautiful People’

Death Cab For Cutie – ‘Transatlanticism’

The Decemberists – ‘Her Majesty’

The Delgados – ‘Hate’

Devendra Banhart – ‘Cripple Crow’

Electrelane – ‘Axes’

Elliott Smith – ‘From a Basement On The Hill’

The Essex Green – ‘The Long Goodbye’

Flaming Lips – ‘Yoshimi Battles The Pink Robots’

The For Carnation – ‘The For Carnation’

Fruit Bats – ‘Spelled In Bones’

Guided By Voices – ‘Earthquake Glue’

Hal – ‘Hal’

Hefner – ‘We Love The City’

Herman Düne – ‘Not On Top’

I Am Kloot – ‘Natural History’

Interpol – ‘Turn On The Bright Lights’

Iron & Wine – ‘Our Endless Numbered Days’

The Jayhawks – ‘Rainy Day Music’

Jens Lekman – ‘Night Falls Over Kortedala’

Joanna Newsom – ‘The Milk-Eyed Mender’

The Ladybug Transistor – ‘The Ladybug Transistor’

L’Altra – ‘In The Afternoon’

Lawrence Arabia – ‘Lawrence Arabia’

Loose Für – ‘Loose Für’

Low – ‘Trust’

M. Ward – ‘Transfiguration of Vincent’

Magnolia Electric Co. – ‘What Comes After The Blues’

Modest Mouse – ‘The Moon & Antarctica’

Marissa Nadler – ‘Ballads of Living and Dying’

Mew – ‘And The Glass Handed Kites’

Minus 5 – ‘Down With Wilco’

Mojave 3 – ‘Excuses For Travellers’

Nada Surf – ‘Let Go’

The National – ‘Boxer’

Neko Case – ‘Fox Confessor Brings The Flood’

The New Pornographers – ‘Electric Version’

Okkervil River – ‘Down The River of Golden Dreams’

Oneida – ‘Secret Wars’

Quasi – ‘Hot Shit’

The Pearlfishers – ‘Sky Meadows’

Reigning Sound – ‘Too Much Guitar’

Richard Swift – ‘Dressed Up For The Letdown’

Scott Matthew – ‘Scott Matthew’

Shearwater – ‘Palo Santo’

The Silver Mt. Zion – ‘Born Into Trouble As The Sparks Fly Upward’

Sleater-Kinney – ‘The Woods’

The Sleepy Jackson – ‘Lovers’

Sonic Youth – ‘Murray Street’

Sophia – ‘People Are Like Seasons’

Sparklehorse – ‘Dreamt For Light Years in The Belly of a Mountain’

Sufjan Stevens – ‘Seven Swans’

Sun Kil Moon – ‘Ghosts of The Great Highway’

Super Furry Animals – ‘Phantom Power’

Thee Oh Sees – ‘The Master’s Bedroom Is Worth Spending a Night In’

Thomas Dybdhal – ‘That Great October Sound’

Tullycraft – ‘Disenchanted Hearts Unite’

The Veils – ‘The Runaway Found’

Viva Voce – ‘The Heat Can Melt Your Brain’

Ween – ‘White Pepper’

Wolf Parade – ‘Apologies To Queen Mary’

Yo La Tengo – ‘And Then Nothing Turned Itself Inside-Out’

 

 

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Sophia @ Hiroshima

08-10-2009

 

Robin Proper-Sheppard è tornato. L’uomo che, pur non inventandolo, ha declinato il verbo sad-core come forse nessun’altro, è uscito quest’anno con il quinto album dei suoi Sophia e non si è dimenticato di prendere qualche appuntamento con il nostro paese. Quello che lega i Sophia all’Hiroshima Mon Amour è forse un binomio che in pochi altri casi si è riproposto con eguale ostinata puntualità. A parte una data non troppo remota a Spazio, avevamo già incontrato Robin in città per ben due volte nel 2004, a distanza di pochissimi mesi l’una dall’altra, proprio sul palco di HMA. Ora lo ritroviamo con piacere nello stesso posto, con cinque anni in più, parecchi spettatori in meno e l’intatta passione che ha reso celebri i suoi show più sontuosi (quelli spartani ed in solitaria meriterebbero un discorso a parte). Dopo ‘Technology Won’t Save Us’, il recente ‘There Are No Goodbyes’ ha spostato ancora un poco la linea del suo songwriting verso il pop. Se dal punto di vista formale la distanza dai primi crudi lavori dei Sophia pare evidente, non si può negare comunque che l’ispirazione non sia venuta meno con la maggior leggerezza della veste e con qualche svolazzo in più negli arrangiamenti. Robin continua a scrivere canzoni belle e segnate da una dolente amarezza, anche se gli anni del lutto vero e proprio sono passati. Un filo di speranza fa capolino verso la conclusione, nella disillusa presa di coscienza della necessità di guardare avanti. Se su disco questa sensazione rimane appena accennata, dal vivo si traduce in una ben più matura ed apprezzabile schiettezza, un vigore che non nega l’intensità delle esecuzioni ma evita di fissarsi in comodi atteggiamenti di sconforto. I Sophia in concerto assomigliano oggi un po’ più ai God Machine, o agli Swervedriver, di cui ancora si legge il nome sui cassoni porta strumenti da viaggio. Il passato ritorna senza presentarsi necessariamente come un peso opprimente. Robin suona e canta con la stessa grinta pezzi nuovi e grandi classici, lasciando ammirati per la vena quasi post-rock di certe derive urticanti e per la disinvoltura con cui passa dai tormenti di una ‘I Left You’ alla vena ruspante di ‘If a Change Is Gonna Come’. Il piacere è proprio nella completezza di una performance molto più varia ed interessante che non in passato. Un po’ come capitava in ‘People Are Like Season’, l’album più discontinuo (e per questo più entusiasmante, secondo me) della sua discografia. 

 

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Non c’é II senza III

 

Il primo aprile di cinque anni fa il bimestrale d’arte Arthur Magazine pubblicò una raccolta di canzoni intitolata ‘Golden Apples of the Sun’, curata da un Devendra Banhart in pieno fermento creativo. Il guru della New Weird America fu abile a riunire un cast di tutto rispetto per celebrare definitivamente se stesso ed il movimento folk psichedelico nell’anno magico di ‘Rejoicing in the Hand’ e ‘Niño Rojo’. I critici non persero l’occasione per rimarcare l’importanza dell’evento anche se oggi, a poco più di un lustro di distanza, sembrano trascorsi un paio di secoli. Vien quasi da chiedersi se non si sia trattato in realtà di un colossale pesce d’aprile. Il Devendra attuale pare la brutta controfigura dell’imprevedibile revivalista che imbambolò un po’ tutti in virtù di uno stile e di un’attitudine sempre e comunque brillanti. Spiace dare ragione a chi si ostina a sostenere che per gli artisti indipendenti la firma con la major di turno equivale a svilirsi, ma in questo caso risulta alquanto difficile negare che dal sodalizio con la Warner siano uscite drasticamente ridimensionate le potenzialità e la scrittura del cantautore californiano. Valutando nello specifico l’evoluzione (o involuzione) espressiva dei vari protagonisti di quella stagione (pure così vicina), si noterà facilmente come la normalizzazione del capoclan non abbia rappresentato un caso isolato. Senza voler sostenere che il cambiamento si sia concretizzato necessariamente in termini peggiorativi, è comunque indubbio che in tanti abbiano deciso di abbandonare i vessilli psych folk per tentare nuove soluzioni. Dopo l’esordio di ‘The Milk-Eyed Mender’, Joanna Newsom ha scelto di limitare le asprezze privilegiando orchestrazioni ricchissime e cercando una nuova via di alienazione nella bellezza. Le due più fulgide attrazioni del circo banhartiano – Jana Hunter e Andy Cabic – hanno ritenuto opportuno imborghesire la loro proposta con la raffinatezza del velluto, mentre Iron & Wine ha puntato su sonorità più corpose e i White Magic si sono ritagliati una comoda nicchia sotto la sempre più mastodontica ala protettiva di Will Oldham. A costituire l’eccezione in un quadro di genere dai forti connotati centrifughi, ecco i sempre sorprendenti Six Organs of Admittance e Espers, i soli gruppi ad aver consolidato le rispettive posizioni all’interno di un territorio assai meno agognato dai musicisti che non nel recente passato.
Ben Chasny e Greg Weeks sono autori schivi e un po’ folli, guidati da un’insolita esuberanza creativa che non sempre hanno saputo incanalare in forme musicali coerenti e dotate di una precisa identità. Parte del fascino delle rispettive band risiede anche nell’ambiguità formale che spesso si addensa in un potente coacervo di irregolarità espressive. Chasny, in particolare, è spesso vittima del proprio prolifico entusiasmo e di un songwriting formidabile quanto dispersivo. La sua prova più recente, ‘Luminous Night’, non si sottrae alla tendenza ma ha il pregio di proporsi come una sorta di convincente compendio stilistico dei Six Organs of Admittance, ben radicato quindi nell’ambito musicale di cui si sta parlando. Raffrontata con la sua, la musica degli Espers è sicuramente meno estrema ma può comunque fregiarsi di un’energia trattenuta e pulsante che per il gruppo di Philadelphia è una sorta di inconfondibile marchio di fabbrica. Per quanto possa lasciare perplessi ad un primo e superficiale ascolto, il nuovissimo ‘III’ non delude le aspettative quando la fruizione si fa più attenta e reiterata. Un po’ come capitava con gli altri LP della ditta, che non sono due come si potrebbe immaginare fidandosi della titolazione numerata progressiva, bensì tre (l’ottima raccolta di cover ‘The Weed Tree’ è infatti un album a tutti gli effetti). Immaginare la musica di questo bislacco collettivo come una realtà stagnante, alla luce di quanto appena scritto o in virtù dell’amore incondizionato dei cinque per il folk inglese di quarant’anni fa, sarebbe comunque un grosso errore di valutazione. Seguendo una sorta di ideale percorso in parallelo con le opere realizzate negli anni dal solo Weeks, gli Espers hanno in fondo manifestato una chiarissima volontà evolutiva: dopo il trionfo dell’impeccabile nitore folk di ‘I’ (sviluppato in precedenza da Greg nel suo ‘Awake Like Sleep’ con rispetto ossequioso nei confronti della tradizione) e la squillante festa dell’immaginazione celebrata in ‘II’ (di poco anticipata dall’equivalente capolavoro del Weeks solista, ‘Blood Is Trouble’), il gruppo modella ora un album dalla curiosa natura ibrida, ineccepibile nel suo snodarsi tra le limpidezze del genere e qualche eccentrica tentazione prog, tra l’incanto mai abbandonato di Pentangle e Fairport Convention e le bislacche derive psichedeliche di Gong e Gentle Giant, proprio come nel notevole laboratorio weeksiano dell’anno passato, ‘The Hive’.
 
L’episodio introduttivo, ‘I Can’t See Clear’, è quanto mai emblematico. Gli ingredienti classici dell’inventiva di Greg sono tutti presenti e messi in luce con la dovuta enfasi: voce eterea, guarnizioni barocche, sinistre suggestioni e l’ormai immancabile elettrica fuzzata come perfetto contraltare all’ariosità della parte acustica e vocale. Un ottimo esempio di folk genuino e a più dimensioni, intrigante, mai banale e non privo di inquietudini come nella tradizione dei primi Gorky’s Zygotic Mynci (diciamo nel paradigma di ‘Bwyd Time’). Ancora una volta uno degli aspetti più rilevanti e insieme pregevoli della musica degli Espers è il respiro conferito dalla band con naturalezza assoluta, alquanto evidente in un gioiello come ‘The Road of Golden Dust’: a restare impresse sono le atmosfere sospese e gli umori ancestrali garantiti dalla solita chitarra acidissima, ideale sostituta della celesta o del Glockenspiel degli standard folk medievaleggianti. Trame ossessive dal sapore psichedelico assai marcato e lampi elettrici spiazzanti (per i quali si potrebbe azzardare l’etichetta “spacefolk”) completano il quadro, le cui tinte fosche risultano poi accentuate dalla marzialità degli archi elettrificati. Inutile spiegare come l’effetto di una simile miscela si riveli vibrante all’ascolto: la magia di questo gruppo non si concede mai agevolmente alla traduzione in parole. Certo non tutto fila via liscio. Un limite appariscente è rappresentato dal ricorso quasi iperbolico a certi cliché espressivi, con la riproposizione puntuale di formule codificate che finiscono con lo svilire la sorpresa in un automatismo forse troppo programmato a tavolino. I crescendo febbrili e misticheggianti affidati all’elettrica di Weeks sono l’esempio più lampante di un meccanismo che perde fascino nella sua reiterazione, al di là del curioso impiego in chiave nervosa o teatrale per cui è approntato nel caso specifico (i già citati brani d’apertura, ma anche ‘Colony’, con la sua gravità ammirevole, o ‘The Pearl’), a meno che non sia ideato come giustapposizione formale ad un diverso standard: è quanto capita nell’eccellente ‘Sightings’ dove l’impronta classica regalata dall’acustica delicata di Brooke Sietinsons si scontra con elementi piacevolmente dissonanti quali i violini euforici della cornice o la consueta spruzzata elettrica di Greg, sua personalissima griffe. Nonostante le comode scappatoie stilistiche di cui si è detto, resta comunque innegabile che in ‘III’ come nelle precedenti opere degli Espers l’effetto complessivo sia d’impatto ed espressività assolutamente ragguardevoli. Anche in passaggi più quieti e densi di meraviglia (il merito è della voce di Meg Baird) come ‘Caroline’ permane un generale senso di rapimento, una pienezza sonora abbacinante che può lasciare gradevolmente storditi, disorientati. Anche se lo schema rimane invariato si può configurare uno strepitoso mix in cui a diventare preminente può essere un semplice dettaglio di retrovia (come la coralità del fantastico duetto di ‘Meridian’), facendo sì che un’architettura strumentale in apparenza sovraccarica si sappia far apprezzare proprio per qualità opposte, o che l’ennesimo corredo di ampollosità e barocchismi si riveli del tutto funzionale al songwriting e nient’affatto straripante. La natura artistica lunare di Weeks ha modo di esprimersi in piena libertà, confermandosi in qualche caso sui livelli di ‘II’ e ‘Blood Is Trouble’: un brano incantevolmente marziano come ‘Another Moon Song’ lo dimostra sin dal titolo, con la pace apparente costretta a trattenere a fatica un guazzabuglio di angosce e fantasmi. In questo contesto non mancano piccoli capolavori anomali come ‘That Which Darkly Thrives’, pezzo esemplare per la sua andatura dondolante da barcone in balia delle onde, con una ritmica tensione/rilascio semplicemente perfetta: se il ricamo elettrico apporta spunti ulteriori di taglio nervoso mentre le parti vocali (tutte impeccabili) accentuano il tono epico, è il senso del viaggio per mare a lasciare ammirati, reso con un dinamismo ed una qualità mimetica molto convincenti. La magia del quintetto di Philadelphia risplende in fondo proprio in questo continuo e favoloso gioco d’ombre, con la realtà perennemente adombrata da un velo di illusorie suggestioni. ‘Trollslända’ chiude le danze con la sublimazione di questo gentile inganno. Un altro ineccepibile incastro di voci, archi e chitarre, solo in apparenza più estatico, sognante e leggero dei nove episodi precedenti, perché la sua dolcezza è infingarda, tutt’altro che rassicurante, pure nella bellissima coda che spegne il disco: sul finale si ha come l’impressione di svegliarsi da un lungo incantesimo, affascinante e non troppo benevolo. Il miraggio di un’escursione fuori dal tempo.
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