Month: novembre 2009

Scott Matthew @ Castello Estense (FE)

09-07-2009

 

Estate povera di concerti per il sottoscritto, quella appena mandata in archivio, ma le soddisfazioni kingsize non sono mancate. Il drastico ridimensionamento del programma stagionale di Spazio, con la soppressione dello Spaziale Festival e la scelta di optare per un calendario ridotto e di basso (se non bassissimo) profilo, lasciava presagire il peggio per il periodo dell’anno in assoluto più fantastico per assistere a eventi dal vivo, specie all’aria aperta. Per fortuna quelli del Traffic hanno aggiustato il tiro dopo un paio di edizioni sottotono, chiamando come ospite principale Nick Cave a rendere estremamente golosa un’offerta poi impreziosita dai Primal Scream. Meno esaltante anche il panorama di nomi nel resto d’Italia, diversamente (come al solito) da quel che si poteva trovare nel resto d’Europa (Inghilterra, Spagna, Belgio, Germania, ecc..). A salvare un’annata che mi si sarebbe prospettata come priva di trasferte ha pensato lo zio Scotty. L’appuntamento con lui era d’obbligo, visti i precedenti (anche piuttosto comodi) persi negli ultimi due anni. Me l’ero ripromesso di rimediare alla mancanza, anche perché tante persone fidate (Barto su tutti, ma anche Frantza e Haga) ne avevano parlato in termini che non sembravano propriamente realistici. L’attendibilità di quei resoconti andava saggiata e quale occasione migliore di un concerto gratuito, in una bella città come Ferrara e nella venue fantastica del cortile di Castello Estense? Con tutte queste premesse resistere alla tentazione non è stato possibile. Ottima allora la scelta del pernottamento in agriturismo a Cocomaro di Cona, ad un tiro di sputo dal capoluogo. Ottima la cucina, gentili i titolari, indispensabile date le temperature mostruose la piscina peraltro deserta in mezzo alla campagna ferrarese. E la prima sera, per rendere tutto perfetto, il concerto di Matthew. Mai avrei immaginato di poter superare nelle impressioni le tante lodi sentite in merito all’artista australiano ma è proprio così che è andata. Entusiasmi non pareggiati ma sublimati, per quanto compilare una classifica delle emozioni personali vissute da individui diversi in concerti diversi possa sembrare (e magari sia) una bestemmia. Chi era presente potrà confermarlo: lo Scotty visto quest’estate a Ferrara è stato qualcosa di divino, inarrivabile. Anni luce meglio che su disco, un’interminabile sequenza di tuffi al cuore, un trionfo della gentilezza e della poesia fatte musica. Forse la sua voce, che da sola la dice lunga, ha fatto la differenza, forse no. Quello è un ingrediente sempre presente. A risultare determinante deve essere stata la miscela dei tanti elementi impeccabili che hanno animato la serata. Non ultimo il contesto ma anche, soprattutto, la scelta di orchestrazioni sobrie ed eleganti senza sembrare scarne, l’accompagnamento perfetto (perché colorato, ma non invadente) al cantato emozionante di Matthew. E infine anche lui come persona: senza dubbio, ha trasformato qualcosa di bellissimo in magia pura. Grazie Scotty!

 

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Gurrumul

 

Ed ora qualcosa di completamente diverso. O forse no. In anni come questi, con un’omologazione artistica che fa capolino anche nei progetti più o meno meritori lanciati a salvaguardia della diversità culturale, l’idea stessa espressa da quella stanca etichetta perde tutto il suo significato. Se la corsa all’alternativa gridata diventa una pura e frenetica illusione, in un mondo come quello musicale in cui tutto è già stato detto, forse è già qualcosa accontentarsi di una prospettiva differente come mentalità, come modo di essere ed interpretare la propria vocazione in campo artistico. Il protagonista di questo breve pezzo potrà apparire come un vero alieno in tal senso, anche perché nelle sue canzoni vita e musica si percepiscono effettivamente come qualcosa di unico e potente, trasmettendo emozioni e toccando corde che difficilmente vengono interessate nella semplice ed un po’ distratta fruizione di un disco. Geoffrey Gurrumul Yunupingu sembra quanto meno fuori posto in un presente isterico e massificato. Eppure vuole dire la sua, ha un myspace, un sito proprio, è in tour in Europa proprio in questi giorni. Se – come immagino – non lo conoscete, ritagliatevi un po’ di tempo per concedergli una chance. Qualora dovesse deludervi il problema sarà vostro, esclusivamente vostro. Vorrà dire che qualcosa dentro di voi è compromesso. Se, al contrario, vi troverete a respirare uno strano e rigenerante senso di pace potrete dirvi a ragione sollevati. La purezza delle sue canzoni funziona magnificamente come termometro della purezza di chi le ascolta. E’ scientifico: se lascia indifferenti è segno impietoso che le scorie nel proprio bagaglio mentale ed emotivo sono arrivate ad un livello preoccupante, che l’inquinamento musicale e commerciale rende quasi irrecuperabili. Geoffrey è aborigeno. Viene dalla minuscola Elcho Island, a largo delle coste di quella Arnhem Land resa celebre dalle cartoline geneticamente modificate dei primi Jamiroquai, quelli terzomondisti che cantavano i nativi di questo e di quell’emisfero, piazzando sempre un paio di lunghi strumentali con il dijeridoo. Geoffrey è l’originale cantato in quei colorati ma fasulli pastiche a marchio Sony. E’ cieco dalla nascita ma non si è ancora guadagnato le copertine di Amadou & Mariam, anche se le meriterebbe. Non ha mai imparato il linguaggio Braille mentre per la chitarra ha fatto completamente da sè, in tenerà eta. Già in questa curiosa sproporzione tra i diversi ambiti del suo apprendimento si legge chiaramente la più sorprendente delle affermazioni identitarie: la musica è il mio linguaggio, il resto è superfluo, accessorio. Con ogni probabilità Yunupingu è l’essere umano più timido e mite sulla faccia della terra: non rilascia interviste per l’imbarazzo, condivide con tutti i parenti i guadagni del suo lavoro, nel rispetto di una tradizione aborigena. Ha fatto parte di uno dei più celebrati collettivi musicali della terra natia, gli Yothu Yindi, ma ne è uscito presto. Anche il suo ruolo nella Saltwater Band, gruppo che suona il reggae e lo ska, è assolutamente marginale. E’ stato quasi per caso, grazie ad un produttore che si trovava in Australia al momento giusto, che il talento di Yunupingu ha avuto modo di venire finalmente alla luce. Convincerlo a calarsi nella parte del protagonista deve essere stata impresa alquanto ardua ma non si può negare che ne sia valsa la pena. Un anno fa è stato finalmente pubblicato l’esordio solista, intitolato ‘Gurrumul’ come a voler ribadire la semplicità del personaggio e della sua comunicatività. 

 

E’ un album a proposito del quale sembra inappropriato anche dilungarsi in fiumi di parole: non sarebbe adeguato alla spontaneità, alla natura genuina, per nulla artefatta, di una raccolta di brani che arrivano dritti al cuore, senza la mediazione di chissà quali implicazioni colte e senza il fastidio delle sovrastrutture concettuali, degli intellettualismi d’accatto che oggi vanno come il pane. Un disco che va messo su e lasciato andare. Il singolo ‘Bapa’ offre un perfetto benvenuto nel mondo sospeso di Geoffrey. Semplice, fresco, illuminato a giorno dalla dolcezza di questa voce da bambino e da un canto che non si riesce a decifrare pienamente, se sia di nostalgia o di gioia vitale. Negli arrangiamenti (chitarra acustica, violoncello) si gioca  la carta di un essenzialità sobria, sincera. Come ‘Wirrpanu’, uno degli episodi conclusivi, ha il sapore di un’umanissima preghiera per la sera, docile e rilassante come tutto il disco. Volendo ricondurre lo stile di Gurrumul ad un genere ampiamente riconoscibile, diremmo che si tratta senza dubbio di un opera folk, nient’affatto distante dai canoni cui noi occidentali siamo ormai ben abituati. Da non banalizzare, però. Il lamento sofferto e la malinconia sottile dell’iniziale ‘Wiyathul’, con l’accompagnamento di un piccolo coro (i cui interventi sono comunque ridotti all’osso), lo dicono abbastanza chiaramente: non è pesante, non è scialbo, non è noioso. Al contrario, è molto diretto. Riesce a far apparire come elementare una dote incantatoria profonda. Ecco, in queste trame sono celati i fili magici di un vero e proprio incantesimo, un respiro che ha stregato tante persone in Oceania e che sta conquistando anche artisti occidentali tra i più acclamati (Björk è solo l’ultima). Canzoni radiose e leggermente più elaborate come ‘Djarimirri’, ‘Wukun’ e ‘Gathu Mawula’ lasciano trasparire un senso di avvincente religiosità laica (si perdoni l’apparente contraddizione dei termini), una spiritualità che la lingua Yolngu confeziona come mirabile testimonianza di arte e vita insieme, ispirata e lontana anni luce dai patetici artifici di tanta inutile world music. Qualcuno potrebbe sostenere che se la proposta espressiva è portata avanti con gusto, garbo e coerenza apprezzabili, un difetto riscontrabile è la scarsa varietà delle soluzioni offerte. Non sarebbe vera neanche una simile obiezione. Per l’ideale carta d’identità di ‘Gurrumul History (I Was Born Blind)’, ad esempio, Geoffrey predilige tonalità più raccolte senza rinunciare all’ingrediente tipico della sua ricetta, il senso di profonda meraviglia, ed opta a sorpresa per un inglese non proprio impeccabile (lo farà di nuovo in ‘Baywara’) senza per questo tradire se stesso. Il registro è cambiato subito con ‘Marrandil’, che porta in primo piano un sentimento potente come la dignità orgogliosa, evidenziando maggiormente il pathos e mantenendo intatti gli altri aspetti salienti del songwriting di Yunupingu, lo sguardo estatico e le tonalità malinconiche che si ammirano in filigrana. ‘Galiku’ è forse la più naturale delle sue interpretazioni, quella che ascoltata a mille miglia di distanza assume una fisionomia più marcatamente "esotica", verrebbe da dire. Non è però un tratto riduttivo del disco ma uno soltanto dei suoi aspetti. ‘Marrurumbul’, infatti, è la riprova della qualità cristallina e libera dell’arte di un cantautore maturo, capace di offrirsi al compromesso apportando qualcosa di personale ad uno standard intelleggibile ed in fondo universale. E’ un brano più vivace, nel cantato a tratti euforico, nel fraseggio schietto, negli accompagnamenti corali che non è esagerato definire folk-pop. Nel risvolti più delicati e convincenti della poetica di Gurrumul appaiono con evidenza le tracce di una contaminazione che ha tutto il sapore di un’apertura al resto del mondo, una volontà di far parte di una comunità e non di una cerchia esclusiva. E’ forse anche per questo che Geoffrey sa essere tanto toccante.

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Nick Cave @ Traffic Festival

09-07-2009

 

Re Inkiostro a Torino, era un po’ che non capitava. Di certo non era mai successo di trovarselo a domicilio in forma gratuita, ma il bello del Traffic è questo. La nuova edizione poi ha visto l’esordio bagnato da una cornice di pubblico e scenografica assolutamente all’altezza, con una platea numerosa accorsa a Venaria non per fare baldoria ma per seguire il monumentale show di un grande di questi tempi, in un contesto visivamente suggestivo. L’organizzazione invece ha mostrato le sue pecche, costringendo chi si era presentato presto ai cancelli della reggia sabauda ad un’attesa a dir poco snervante, protrattasi fino alle 20 dato che i tutori dell’ordine hanno optato per tempistiche assai lontane dai criteri di puntualità che grossi eventi come il Traffic richiederebbero. E’ stata la sola nota stonata comunque, dato che anche il corredo di musicisti ha funzionato come antipasto. La combriccola freak del cantautorato slacker torinese ha svolto egregiamente il compito di spensierato aperitivo, in un clima di rilassatissimo disimpegno che ci ha fatto dimenticare la stanchezza. Nello specifico delle prove dei singoli terrei fuori giudizio Spaccamonti, per nulla intimorito ma troppo poco adatto alla monumentalità della serata, piazzato in solitudine nel bel mezzo dell’enorme palco a difendersi dalla generale indifferenza con i suoi ricamini di chitarra stratificata. Gradevolissimo il derby tra un Vittorio Cane tirato a lucido per l’occasione che mai più gli si ripresenterà e un Deian Martinelli impeccabilmente stralunato: bella sfida tra i modelli in sedicesimi di Bugo e Rino Gaetano, con vittoria tutto sommato agevole del secondo, a tratti delizioso. Nota di merito al pubblico che non ha travolto Cane con bordate di insulti, smentendo le previsioni della vigilia. E’ la prima volta che gli vediamo passare indenne un concerto, persino gli anziani da bocciofila ferragostana a Piazza D’Armi l’avevano impietosamente apostrofato. Notevole St. Vincent, nonostante le difficoltà. Andata in scena con ancora la luce del giorno, appesantita nel set da opzioni a dir poco scellerate a livello di acustica, trattata tutto sommato male da una bella fetta di pubblico che non le ha risparmiato nulla, se l’è comunque cavata benone. Con intelligenza ha lasciato a casa la Annie Clark romantica e languida, tirando fuori una prova grintosa e non priva di audacia, graffiando con la chitarra e mostrando una cattiveria ammirevole. Tra le gemme, una ‘Marrow’ agitatissima, ‘Actor Out of Work’ e una cover sanguinante di ‘Dig a Pony’. Era solo l’anticamera a Nick Cave, comunque, è lui è parso artista di un altro sistema solare. Ci si è mostrato in tutte le possibili fogge, quella muscolare (l’uno-due micidiale di ‘Papa Won’t Leave You, Henry’ e ‘Dig, Lazarus, Dig!!!’ sparato in apertura), quella lirica e sinistra delle ‘Stagger Lee’ (e ‘Red Right Hand’), quella tutto incanto delle ballate immortali (‘Henry Lee’, ‘The Ship Song’, ‘Lucy’), quella tellurica e favolosa (‘Deanna’, ‘Tupelo’ e ‘The Mercy Seat’, una vetta assoluta come da previsioni), più una limitata ma entusiasmante serie di chicche. In gran forma l’affiatatissima band, ma Warren Ellis è stato gigantesco, un capolavoro di istrionismo ed elettricità nervosa. Se ve li siete persi e volete farvi una pur pallida idea, le mie parole le trovate nel link dalla prima immagine mentre alla galleria fotografica si accede da quello della seconda. Peccato aver potuto usare la reflex solo nella bolgia del primo pezzo: gli scatti fatti con la compatta non sono allo stesso livello.

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Il John Mayer dell’indie

 

Nella miriade di album usciti il mese scorso mi sembra giusto menzionare l’ultima fatica di Langhorne Slim. Uso il termine “fatica” come automatismo, anche perché l’ascolto lascia intendere che registrare queste nuove canzoni non sia stato in realtà un processo particolarmente difficoltoso per il giovane cantautore americano. Di sicuro non lo sarà per l’ascoltatore, visto che ‘Be Set Free’ è senza dubbio il disco più user friendly mai pubblicato con quella ragione sociale. Far sembrare semplice anche quel che semplice non è: questa la ricetta di Sean Scolnick, classe 1980 (la stessa di Conor Oberst), da Langhorne, Pennsylvania. Le biografie lo raccontano come un tipo tosto, partito presto da casa per far fortuna a New York con la sua musica schietta e multiforme. Fortuna che il folksinger sembrava aver trovato con la V2, la major che lo mise sotto contratto per un mini e poi si sbarazzò di lui senza troppi complimenti, soprattutto senza un valido perché. Sean alla realtà indipendente si è abituato presto, è la veste che gli calza a pennello. Nel 2004 l’esordio con l’EP ‘The Electric Love Letter’ e poi a ruota ‘When The Sun’s Gone Down’, primo vero LP dopo un paio di acerbi lavori autoprodotti parecchio tempo prima. Quindi il tourbillon nel passaggio dalla piccola Narnack alla V2, lo schiaffo ed il repentino acquartieramento presso l’altrettanto modesta Kemado. Chi già ha sentito parlare di Langhorne Slim sarà sorpreso nel sapere che non è dell’omonimo e brillante album del 2008 che sto parlando ma proprio di una nuova raccolta di inediti, arrivata inattesa ad un annetto scarso dalla precedente. Cinque anni fa Sean si segnalò agli addetti ai lavori con un disco assai coeso di folk scarno, facendo cadere più di un critico nella trappola di uno sbrigativo apparentamento con i barbuti alfieri della New Weird America, all’epoca tanto di moda. L’amore per Dylan non poteva giustificare da solo una classificazione tanto riduttiva o l’accostamento con il Devendra di turno. A smentire tutti ha pensato lo stesso Scolnick coadiuvato da un produttore navigatissimo come Brian Deck, con il bellissimo album uscito l’anno passato, autentico caleidoscopio pop con convincenti ramificazioni nei più disparati ambiti della musica di tradizione americana, dal country al blues, dal folk gentile di ‘Worries’ (suo brano più celebre) al roots rock buono pure per le FM, volendo. Nessuno poteva immaginarsi un seguito a così stretto giro di posta, né una prova ancora soddisfacente per quanto in parte segnata da un cambio di rotta rilevante. ‘Be Set Free’ non mostra gli stessi guizzi del suo predecessore ma può vantare in compenso una maggior omogeneità d’insieme ed una scrittura estremamente sicura, a tratti anche smaliziata, che lascia intuire un’ulteriore crescita per il cantante ormai prossimo ai trenta. Romanticismo e concretezza: affidandosi alle buone vibrazioni di ‘Back To The Wild’, al duetto ispirato di ‘Lands of Dreams’, allo svolgimento sicuro ed elegante di ‘Blow Your Mind’ o ‘Leaving My Love’ si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un professionista serio che inizia a maneggiare con destrezza trucchi e trovate del proprio repertorio.
Non inventa nulla Langhorne Slim ma conferma di essere autore e musicista di solidissima formazione, capace di scegliere con acume i propri collaboratori. Ad accompagnarlo ci sono ancora una volta i War Eagles, tre fidatissimi fiancheggiatori tra i quali spicca il nome di Malachi De Lorenzo, batterista figlio d’arte del leggendario Victor (Violent Femmes). Preziosa la produzione affidata al sempre affidabile Chris Funk, chitarrista dei Decemberists quest’anno già con i Minus 5 e con Laura Veirs: ideale nel conferire ai nuovi brani di Sean quell’impasto pop-rock garbato ma compatto che ha tutto il sapore di una prima effettiva maturità. ‘For A Little While’ si offre come spavalda ostentazione di sicurezza nei propri mezzi e di una generale fluidità, pregi che finora erano stati forse letti solo in trasparenza, nell’enfasi scaltra di certe sue ballate. Alle prese con standard più convenzionali – in questo caso come nel pezzo di bravura che da il titolo all’album – Langhorne Slim non lascia indifferenti e se la cava egregiamente, sfoderando belle sfumature notturne ed una verve da crooner sofisticato. Stessi risultati nella dimensione raccolta, con qualche passaggio forse un tantino scontato (‘Sunday By The Sea’, puzza di filler) ma anche un’indubbia disinvoltura nel centrare il bersaglio con la semplicità della proposta, senza rinunciare ad una veste sobriamente classica (esemplare ‘I Love You, But Goodbye’). Negli episodi più riusciti di ‘Be Set Free’, Sean regala la migliore conferma del proprio talento, della sua natura di cantante di razza bravissimo a non andare mai sopra le righe. Il pop-rock di ‘Say Yes’ lo dice chiaramente, senza lazzi ma con le sottili irregolarità che rendono il suo cantato interessante al di là dello svolgimento brillante del brano, e con una genuina propensione all’easy listening che fa di lui una sorta di Ron Sexsmith più accessibile e meno malinconico. In ‘So Glad That I’m Coming Home’ è proprio la sua prova vocale sontuosa, leonina, con sapiente alternanza tra il registro sofferto e quello scanzonato, a compensare i limiti di un’impostazione più stanca e tradizionale. Forte di questa carta vincente, Scolnick si conferma un interprete tutto cuore, caldo ed appassionato ma con un suo equilibrio: un’anima soul candida e senza fastidiose ambizioni intellettualistiche che ama spaziare dal bluegrass pimpante (‘Boots Boy’, un finale frizzante) al gospel bianco (‘Cinderella’) ai Wilco coloratissimi di dieci anni fa (‘Yer Wrong’, quasi una ‘Can’t Stand It’ depurata delle sue esagerazioni pop). Alla fine della fiera un dubbio rimane. Fin qui si sarebbe detto che Langhorne Slim era un ideale John Mayer per la scena indipendente. Non sarà piuttosto quest’ultimo, ad essere il perfetto Langhorne Slim mainstream?
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