Month: giugno 2009

Boss Hog @ Spazio211

17-05-2009

 

Una decina di anni fa ero in fissa per Cristina Martinez. I Boss Hog pubblicavano il terzo album per questa formazione-capriccio, un regalo del signor Jon Spencer alla meravigliosa consorte come band giocattolo da promuovere nei tempi morti tra una pubblicazione JSBX e l’altra. C’era la band e c’erano i suoi dischi, ma all’epoca passarono abbastanza inosservati da queste parti. Era rock’n’roll brutto, sporco il giusto e cattivello, come usava negli anni’80. Ma si era alla fine dei’90, troppo tardi per riproporre il garage à la Pussy Galore, troppo presto perché questi suoni tornassero ad essere sufficientemente cool. Eppure i Boss Hog di allora erano sulla strada giusta, in anticipo di un lustro almeno: l’album omonimo lo diceva chiaramente, passando l’attitudine del duo attraverso il filtro delle nuove sonorità di stampo grunge, che tanto nuove in fondo non erano memmeno più. Il successivo ‘Whiteout’ avrebbe giocato ancor di più la carta di un imbastardimento modaioloche all’epoca suonò come una vera e propria resa mainstream, un compromesso con il pop in cambio di qualche corsa malpagata sul rollercoaster di MTV. Tutto giusto in un certo senso: Jon coltivava la propria intransigenza col progetto principe e la ragazza poteva trovare una buona valvola di sfogo nella discreta esposizione televisiva che ebbe. Il videoclip di ‘Whiteout’ la rivelò al top di ogni scala, sensualità e bellezza su tutte. Ma quello era già il tramonto del gruppo, paradossalmente. Non avremmo immaginato che Cristina sarebbe finita presto nell’album dei ricordi e che anche le uscite di Jon sarebbero andate via via esaurendosi (oggi si recensisce la Bud Spencer Blues Explosion, pensa un po’).

Così ci siamo dimenticati di Cristina e della sua accolita di scoppiati garagisti e la notizia della reunion, a così tanto tempo dagli ultimi fuochi, ci ha piacevolmente sorpreso. Certo c’erano i dubbi della vigilia per questo tour tirato sù con la sola arma della voglia, con non pochi interrogativi in merito allo stato di forma di una fuoriserie per così tanto ferma ai box, e per una formazione al completo di cui non si era mai più sentito parlare (Jon a parte). E invece questi ragazzacci hanno sfoderato un live della Madonna, facendo impallidire anche il rumoroso antipasto delle simpatiche streghette finlandesi Micragirls. Stato di forma eccellente come negli anni d’oro, ed evidentemente in crescita (a fine tour cosa potrebbero tirare fuori?). C’è da augurarsi che ritrovino l’ispirazione per licenziare un nuovo album, senza bisogno del capolavoro che nessuno si aspetta da loro ma almeno di una buona fotografia di questo particolare momento, una poderosa mazzata sull’incudine ora che è bella roventa. Hollis Queens e Jens Jurgensen hanno pestato come degli ossessi, ribadendo che i Boss Hog erano e sono un gruppo coi controcoglioni. Un lusso il tastierista esagitato e grottesco, rispettoso delle gerarchie un Jon Spencer sempre e comunque adorabile (fosse dipeso da lui il concerto sarebbe finito il mattino dopo). La vera sorpresa però è stata Cristina. Bella come nemmeno speravo di ritrovarla, a quarantanni compiuti (ma chi li ha visti?). Carica come un giocattolo a molla, intensa e splendidamente rock, corvina, provocante, trascinante, dominatrice. E dire che nel frattempo avevo quasi avuto la tentazione di rimpiazzarla con Alison dei Kills, sul trono delle muse rock più fascinose. Col senno di poi dico che no, non se ne parla: io mi tengo il mio fustino vecchio. Lo scambio proponetelo a chi i Boss Hog, oggi come ieri, se li è proprio persi.

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Paisley underground?

 

Per un errore di ordine e di cartelle su un CD divorato nei miei viaggi in auto, ho creduto per diverse settimane che il disco degli Antlers fosse quello di Doug Paisley. "Eccheccenefrega" direte voi giustamente. Per il buon Bandito, spesso solerte nel consigliare dischi interessanti, il mio errore di valutazione potrebbe essere stato (uso il condizionale perché dubito che abbia ascoltato l’album di cui sto scrivendo) un gioco al ribasso. Col senno di poi io parlerei piuttosto di gioco a rialzo. ‘Hospice’ mi sembra un lavoro discreto ma non entusiasmante, mentre l’omonimo del folksinger di Toronto mi è piaciuto subito, a pelle. Basterebbe anche solo il pezzo iniziale, la fantastica ‘What About Us?’ a forzare il mio giudizio in questa direzione. Un folk lento e pacato ma non scarno, molto umano, e con una voce che scalda il cuore. Morbido, notturno, aggraziato da un pianoforte che è la vera arma in più per questo brillante cantastorie canadese, come testimonia anche la chiusa country dolce ed accorata di ‘Take Me With You’. Paisley ha buoni numeri, come diversi suoi colleghi della zona. E’ eccellente anche puntando sull’essenzialità a livello formale: sceglie come un automatismo la tradizione e l’economia di risorse badando decisamente al sodo, mirando dritto al cuore della sua poetica. Lo si nota molto bene in un brano come ‘Wide Open Plain’, che colpisce forse meno delle precedenti ma riesce comunque in modo autorevole nel proprio intento: secca, spogliata dei pur pochi orpelli, lineare e diretta ma non cruda. Sarà stato per questa sua abilità non comune nel maneggiare materiale tutt’altro che originale, rendendolo comunque molto fluido e armonioso (vedi ‘Broken In Two’), che il signor Will Oldham ha fortemente voluto Doug per alcune date del suo ultimo tour americano (vissute in incognito come "Dark Hand and Lamplight"). Paisley rivela una bravura indiscutibile nel non andare mai sopra le righe. Non inventa nulla di nuovo ma gioca bene con le carte a sua disposizione ed è anche piuttosto piacevole.

Qualità queste che emergono in modo nitido nel miglior titolo del lotto, quella ‘Digging In The Ground’ che sembra Young rifatto da un sobrio ma colorato Bonnie ‘Prince’ Billy. Il piano dipinge con grazia e leggerezza accompagnato dalla voce femminile, torna la dimensione raccolta congeniale al folksinger, un ché di calore domestico, di focolare che impreziosisce. E’ questo tono epico ed insieme familiare, oltre alla buona disinvoltura nel trattare materiale in fondo convenzionalissimo, il tratto vincente della proposta di Paisley. Una freschezza che si apprezza anche in passaggi inconsueti come ‘Take My Hand’, col suo ritmo quasi chicano e corredo di finte trombe. E’ l’atmosfera rilassata ma amichevole a fare la differenza, con Doug che ricama in scioltezza e si merita tutti gli applausi. Tranquillità e respiro profondo convivono in modo mirabile, anche dove l’acustica lascia trasparire veli d’inquietudine e sottili scatti nervosi (‘A Day Is Very Long’). Un disco prezioso insomma, pregevole anche per i continui duetti che giocano un’ulteriore carta di conferma per quanto detto in precedenza sulla rivitalizzazione di formule decisamente tradizionali. In ‘Last Duet’ si apprezzano la chitarra slide, le armonie ed una classicità che non guasta. Come il titolo suggerisce, si tratta di un incontro di voci arioso, emozionante e pulito, nonostante la veste spartana adottata e l’apparente fragilità vocale della controparte femminile. Lo stesso vale anche per il country-folk dondolante ma caloroso di ‘We Weather’. Non sarà proprio Paisley Underground ma il colore non manca. Ancora una volta un autoritratto in copertina racchiude in sè molta più verità di quanto si potrebbe credere. Bandito, sotto con gli ascolti!

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Marissa Nadler @ Spazio211

16-5-2009

  

Nelle previsioni della vigilia doveva essere quasi una condivisione del palco con Greg Weeks e sarebbe stato un concerto incredibile, ne sono certo. Ma era davvero troppo bello per essere vero, un passaggio presentato assolutamente in sordina eppure ghiottissimo per gli appassionati come il sottoscritto. Ed infatti Mr. Espers non si è fatto vivo, presumibilmente per altre scelte strategiche e promozionali che lo hanno fatto desistere dal venire a presentare a noi, terzomondo italico, le canzoni di un disco uscito ormai un anno fa (‘The Hive’). Peccato davvero, ma sono convinto che l’occasione di ascoltarlo dal vivo da queste parti non mancherà di ripresentarsi. Sarà difficile comunque la coincidenza di un tour condotto in parallelo con Marissa Nadler, dato che lei il suo giretto promozionale l’ha portato fino in fondo anche in Italia. L’idea di vederli insieme sul palco alle prese con i pezzi di ‘Songs III’, l’album che lui ha prodotto magnificamente per lei suonandoci pure, era veramente allettante. Nonostante ciò la ragazza ha fatto benissimo anche da sola, appena accompagnata da un terzetto di musicisti molto "backing", molto poco appariscenti in ogni senso. Non stava bene Marissa, lo aveva annunciato Teddy riferendosi alla serata milanese. Sofferente e a disagio ha mostrato abbastanza chiaramente di voler stringere i denti e portare a termine la missione. Quel che più ho apprezzato è il modo in cui lo ha fatto. Non come un compito da fare comunque, ma come una prova da vivere con la consueta serietà e passione, al di là delle difficoltà del momento. In questo ha mascherato benissimo i dolori e l’influenza e ci ha regalato un concerto semplicemente meraviglioso, breve ma molto intenso. Di loro le canzoni sono fantastiche ma la voce, beh, è stata all’altezza dell’attesa. In più di un’occasione (‘Dying Breed’, ‘Mistress’) ho avuto quasi la pelle d’oca per la profondità e la pienezza del suo cantato, in un’interpretazione semplice e cristallina, come lei in fondo. E poi ha fatto la solita cover di Cohen (‘Famous Blue Raincoat’) rasentando la perfezione, lasciandoci ammirati a bocca aperta. Devono aver provato un po’ tutti le medesime sensazioni, dato che per una volta il vociare un po’ becero sul fondo della sala non si è minimamente avvertito. Forse si è trattato finalmente di un atto di rispetto nei confronti di un’artista vera, per giunta in difficoltà. Bravissima Marissa, peccato quando mi hai detto che il fantastico vinile di ‘Ballads of Living and Dying’ era finito: fartelo autografare sarebbe stata la classica ciliegina sulla torta. Ma non importa, non era logico pretendere qualcosa di più da una serata in cui non hai fatto rimpiangere l’assenza di un grande come Greg Weeks.

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Anathallo @ Spazio211

12-05-2009

  

Una bella sorpresa primaverile questi Anathallo, classico gruppo originale e sopraffino che passa inosservato come una meteora senza che nemmeno l’appassionato indie abbia molte occasioni di accorgersene. Per mia fortuna è stato inserito in cartellone nella stagione di Spazio e ho avuto modo di ascoltare qualcosa dalla relativa pagina Myspace. Dall’ "interessante" si è passati rapidamente al "ne voglio ancora", alla scoperta che un disco uscito nel 2008 (‘Canopy Glow’) era segnalato da qualche parte come imperdibile…e infatti. Corso intensivo di Anathallo ed entusiasta uscita serale per apprezzare in concerto l’ennesima formidabile band made in U.S.A.. Che è stata all’altezza di sè, bisogna dirlo, mostrando un superbo affiatamento tra tutti i membri e una notevole abilità in questi nel districarsi in sette sul microscopico palco di Spazio, saltando in uno stesso brano da una postazione all’altra per battere il record di strumenti suonati. Apprezzabile personaggio il cantante, una specie di talpa boy scout che ha saputo tirar fuori una grinta apparentemente non sua, dato l’aspetto innocuo e tranquillo. Incantevole la cantante, a suo agio con ogni sorta di coretto, al synth e alle tastiere. Tutt’attorno un bel gruppo di musicisti e amici, qualità che è emersa molto chiaramente dall’interazione tra loro. Applausi convinti alla fine, per le poche perle di ‘Canopy Glow’ e di ‘Floating World’ che abbiamo avuto modo di apprezzare. Canzoni lunghe e poco tempo a disposizione, ma band comunque generosissima e ispirata. Spiace che fossimo in quattro gatti. Passi che questo evento è stato aggiunto solo nelle ultime settimane, ma un po’ di promozione in più avrebbe reso più giustizia a questi fantastici musicisti. Volendo sognare un fantomatico regime meritocratico, sono certo che alla prossima discesa in Italia degli Anathallo ci sarà il pienone. 

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Middle Cyclone

 

L'ho scritta per Monthlymusic, è stata la mia prima rece per il nuovo sito e alla fine ho avuto l'impressione (errata) di non aver detto nulla di questo album. Dovevo scriverla anche per Indie-rock, fermamente deciso a parlarne più in dettaglio e screditare con la forza delle parole il report uscito per Ondarock, un bozzettino che gridava vendetta a mio parere. Non ho avuto modo di scriverla perché, per una sovrapposizione, mi ha anticipato un'altra persona. Bene, se quanto riportato su or mi erano parse le sbrigative e svogliate considerazioni di un critico che probabilmente ha ascoltato il disco mezza volta, affidandosi alle press paper e liquidandolo in buon ordine con un sei rancino (di quelli che oramai si riservano solo ai pezzenti), vi lascio immaginare il mio stupore dopo aver letto la recensione uscita sul nostro sito, praticamente la versione bignami di quell'altra. Delusione. Una Neko Case che coraggiosamente mette da parte gli standard folk più o meno giustamente ritenuti barbosi (ma esaltati dalla critica, e mi ci metto anch'io) dei dischi precedenti per provare a rendere le sue ricette appetibili anche a chi non è avvezzo ai circuiti indipendenti. Un lavoro che ha la complessità, soprattutto la varietà, della scrittura di questa eccellente autrice statunitense ma si propone in un uno sforzo encomiabile di accessibilità, facendo centro peraltro (è entrato nella top ten statunitense, anche se per poco) ed evitando gli scivoloni commerciali. Cose del genere non capitano molto spesso, io trovo che abbiano del miracoloso. Or non la pensa così e ci può stare, anche se la mezza bocciatura è di quelle che mi lasciano sempre molto perplesso (l'indipendente che prova a essere per una volta un po' meno indipendente decisamente non fa figo). Assai più deprimente è stato quell'abbozzo di recensione pubblicato in casa nostra, una scopiazzatura penosa dell'opinione del tizio di or (stesse etichette per le varie canzoni, stesse identiche espressioni conficcate qua e là, stessi identici abbinamenti dei brani) che per una volta ci ha fatto sfigurare anche in termini di originalità rispetto ai nostri "competitors" (va bene chiamarli così? Massì, tanto noi vinciamo comunque ;P). Questo non per magnificare quanto avrebbe scritto il sottoscritto, anzi, probabilmente sarebbe stata la solita schifezza prolissa e stracotta…è che non va bene accodarci alle altrui opinioni, specie in un modo così poco limpido e raffazzonato. Tutto questo preambolo mi toglie la voglia di scrivere effettivamente qualcosa in più rispetto a quanto riportato con qualche svolazzo di troppo su Mm. Lì non mi sono dilungato sui singoli brani e forse è anche meglio così. Il succo comunque credo di averlo tirato fuori: 'Middle Cyclone' è un album fiero, coraggioso, estremamente passionale e sincero. Scritto benissimo, con una partenza strepitosa ed una generale agilità assolutamente ammirevole, al di là di qualche comprensibile macchia di maniera, un'ombra appena. E' un bellissimo album, molto femminile, molto schietto anche nella propria istintiva e genuina vitalità. Un'opera importante per come ha cercato di arrivare a più orecchie possibili, senza cedere di un millimetro al compromesso. Il recensore di Pitchfork questa cosa l'ha capita e lo ha presentato ai lettori con un 7.9, praticamente il voto (8) che avrei dato io stando ai parametri di Ir. Ma non sono i numeri il dato più importante, ancora una volta. E' la freschezza del disco, incredibilmente perfetto per quando ci è arrivato tra le mani (Marzo). Peccato che in pochi lo abbiano apprezzato per quel che è, forse perché in pochi devono averlo effettivamente ascoltato. Ah, dimenticavo: Neko canta divinamente, anche se questa non è certo una sorpresa.

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