Month: maggio 2009

Ira in incognito
 
E così anche gli Yo La Tengo si sono tolti lo sfizio di licenziare il loro disco garage di serie Z. Hanno già fatto un po’ tutto in venticinque abbondanti anni di carriera. Studiato e insegnato quattro decadi di musica popolare americana, codificato l’indie-rock più puro, prima che venisse sbertucciato dalle formule stantie di una convenzionalità britannica in caduta libera. Hanno mantenuto una loro disciplina e una loro autenticità, grazie alle quali sono sempre riusciti a dondolare al di sopra di una fantomatica linea di galleggiamento qualitativo. Recentemente hanno scelto di rivisitare un certo numero di classici, anzi di "assassinarli", si sono prestati per le colonne sonore di film decisamente indipendenti e per qualche curiosa deriva sperimentale. Per non restare fermi tra un album e l’altro ora ripiegano su una passione giovanile evidentemente mai sopita, il garage, registrando alla buonissima un LP utile a fissare su nastro umori e vezzi assolutamente transitori ma genuini, una controfigura selvaggia delle meravigliose e notturne alchimie sonore a marchio DOC Y.L.T.
Fuckbook va letto in questo modo come l’intera proposta Condo Fucks, invero una completa elusione. Una finta, una mascherata in stile ‘Ritorno Al Futuro’, un salto all’indietro a recuperare barlumi di innocenza rock per indagare sulle origini della propria passione. In tal senso l’operazione è meritoria anche nell’evidente funzione di alleggerimento. Un diversivo senza pretese ma con una sua importanza. Certo lasciando la parola a queste undici fulminee tracce l’impressione è più quella dello scherzo, se non si hanno ben chiari i retroscena. Quella di pezzi come ‘What’cha Gonna Do About It’, ‘Accident’, ‘Come On Up’ e ‘Gudbuy T’Jane’ è una band inesistente rispolverata da un passato mai esistito. Ma non è questo che conta. E non è importante nemmeno la forma, intenzionalmente approssimativa se non scadente. E’ rock pestone da quattro soldi, fracassone alla Wild Billy Childish (di cui replica una certa commovente purezza). Si fa molta fatica all’inizio a intuire anche solo che sotto quel denso groviglio di riverberi, quella bagna e quegli schizzi elettrici in bassissima fedeltà, è la mitica band di Hoboken a sudare. A seconda dei punti di vista, ‘Fuckbook’ può passare per uno spregevole prodotto di inqualificabile imperizia tecnica o per una divertente e sana pausa dal sapore casalingo. Io propendo per la seconda opzione anche se l’ascolto mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca: passi per la rinuncia ad ogni abbellimento formale e alla veste più onirica e delicata della band di Kaplan, passi per un genere che riesco a digerire con notevole tolleranza e sopportazione, passino tutte quelle sporcizie noise, i feedback altissimi, le voci sepolte, gli assoli di raro grezzume e via dicendo. La confezione povera però mi sembra più difficile da accettare perché in ‘Fuckbook’ c’è davvero troppa rumenta sonora. La mia impressione è quella di un gruppo che si è divertito moltissimo a suonare queste canzoni, mentre per chi si limita a goderne in cuffia il giovamento è assai ridotto. Sarebbe bello seguirli dal vivo gli Yo La Tengo della temporanea incarnazione sbracata, allora sì sarebbe un piacere. Su disco tuttavia, con queste registrazioni, tutti i brani perdono moltissimo.
Non mancano gli episodi in cui la penalizzazione subita dalle scelte fatte a livello tecnico hanno un peso minore. In ‘This Is Where I Belong’, ad esempio, la selva rumoristica si dirada di quel tanto da lasciar intravvedere per sommi capi i lineamenti musicali degli autori, per quanto il livello sonoro rimanga quello di un bootleg neanche tra i migliori in circolazione. Ancora meglio è ‘With A Girl Like You’, con le chitarre finalmente forti e chiare. I ‘popopo’ delle voci di Kaplan e McNew, già di loro tutt’altro che poderose, restano comunque quasi impercettibili e si riconosce esclusivamente Georgia, che affiora da un fondo di silenzio ad intermittenza. Interessanti i due episodi di ‘Shut Down’, quasi versioni povere di quelle contenute nella raccolta ‘Yo La Tengo Is Murdering The Classics’, cui si accennava in apertura: suonano anni ’50 e danno un’idea dell’abilità mimetico-revivalista della band, anche se il vestito rimane quello miserabile del resto dell’album. Il lato ludico e tagliente di questa esperienza si apprezza maggiormante in brani come ‘The Kid With The Replaceable Head’ e ‘So Easy Baby’, tra chitarre affilate ed un gusto per i coretti che fa tanto seventies, in zona punk-pop anche se fuori tempo massimo. Resta la curiosità sulle possibili implicazioni di questa manciata di nuovi pezzi: dal vivo dovrebbero essere sufficientemente divertenti, offrendosi come discreta variante ad un repertorio peraltro già consistente e policromo. Non sfigurerà di certo ‘Dog Meat’, rock’n’roll classico, scattante e citazionista, che si guadagna a mani basse la palma di miglior titolo del lotto, con una Georgia che pesta alla grande. Sì, potrebbe essere fantastica in concerto.
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Client @ Spazio211

07-05-2009

  

Un po’ plastificato e bambolesco il viso di Sarah Blackwood al concerto delle Client. Ogni sera deve essere così, purtroppo per lei. Ero lì esclusivamente come curioso e per recensire il live, per cui non è che mi aspettassi granché. Dalla musica soprattutto, anche se pensavo che come esperienza sarebbe stata più divertente. Invece no, la resa acustica è stata per due terzi di set abbastanza scialba, piatta, falsa e senza sfumature. Giocoforza per l’ascoltatore ed osservatore presente con assoluta imparzialità, per una volta, l’unico ripiego consisteva nel vivere la performance proprio dal punto di vista non strettamente musicale. Il piano attoriale, diciamo. E’ stato interessante e grottesco insieme, per come si è svolto, per il pubblico che c’era, per i meccanismi ripetitivi sin quasi alla farsa che un simile concerto non può che tradurre in ritualità, fasulla e plastificata appunto, eppure non priva di un suo lato bizzarro e affascinante. Voyeurismo a manetta, che si vorrebbe chic ma qui da noi fa irrimediabilmente un po’ di tristezza. Spettatori emozionati per una mossetta, per una posa maliziosa, per dei guanti neri, intenti a rimbalzare i propri feedback emozionali (?) sulle Client in una sorta di triste danza delle parti, recita sopra e sotto il palco. Molto belle le tre attrici protagoniste, invero una soltanto, la diva Sarah. Un po’ allucinante tutto quel trucco sulla faccia, parossistico e smascherato dall’inevitabile e copiosa sudata. Faceva già molto caldo di suo, presentarsi con la terribile divisa invernale ha peggiorato le cose. E così la scaletta bagnata, a fine serata, non emanava proprio un gradevole aroma di violette… Pazienza, in quanto a generosità non si possono criticare le tre ragazze inglesi. Meno valida è stata proprio la prova musicale, ma ho avuto immediatamente l’impressione che quella non fosse la dinamica cruciale di questa e di tutte le loro esibizioni. Uno spettacolo doveva essere e in un certo è stato. Verso la fine poi anche in termini espressivi le cose hanno iniziato a funzionare, per cui abbiamo avuto un assaggio di quello che dal vivo le Client possono fare. Certo senza tutta la cornice di provocazioni all’acqua di rose non staremmo neanche qui a parlarne: di gruppi electropop ce ne sono tanti, anche migliori, e nemmeno ci interessano così tanto da andarli a seguire in prima fila nel caldo asfissiante di un salone chiuso e pieno zeppo di gente. C’è il lato teatrale, la cerimonia nel rapporto coi fan. Ma così ferreamente codificato resta un gioco tutto sommato angosciante, visto da fuori. Impossibile non chiedersi come Sarah e le altre riescano a tirare avanti senza stancarsi.

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Sara Lov @ Spazio211

02-05-2009

 

La recensione del concerto di Sara Lov a Spazio ha portato ad un piccolo scambio di opinioni con i gestori del locale. Nell’introdurla provavo a valutare dopo un po’ di serate già in porto l’iniziativa "Up To You" promossa dal locale di via Cigna in questa fetta di stagione, aprendo i concerti del sabato sera a tutti in cambio di un’offerta libera (e valida già a partire da una manciata di centesimi di euro). Ho parlato bene di questa opzione coraggiosa ed apprezzabile, spingendomi a condannare piuttosto tutti coloro che approfittano di una simile opportunità per presenziare a spettacoli di cui poco gli frega, sentendosi poi legittimati a fare casino. Ho scritto di "ampi spazi vuoti", evidentemente sbagliando, perché mi è stato poi comunicato che i presenti erano 370. Ma sull’analisi e la condanna di certi comportamenti non posso ritrattare alcunché, dato che il risultato è quello di un bel concerto per lo più guastato da un manipolo di irriducibili idioti. Certo non ho i mezzi per capire chi siano tali personaggi, anche se in questo i gestori mi hanno indirizzato su individui insospettabili da cui sarebbe lecito aspettarsi altri comportamenti (discografici, promoter, giornalisti più o meno affermati). Non ho ragione di dubitarne e infatti ci credo, i più arroganti sono spesso proprio quelli che dovrebbero dare il buon esempio. Spiace, perché Sara non ha gradito molto un sottofondo di voci cialtrone, risate, fischi da stadio. Dovevano bastare la chitarra acustica, il violoncello e la tastiera, nient’altro. Per fortuna serate successive sono andate decisamente meglio da questo punto di vista, ad esempio il bellissimo live di Marissa Nadler. La suddetta recensione si raggiunge dalla seconda immagine. La prima, come sempre, va alla rassegna fotografica.

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With The Saint Four EP

Per una volta ho voluto esser buono. Questo EP inaugurale dell’ennesimo nuovo corso musicale per il forlivese Stiv Cantarelli mi ha detto veramente poco. Il tizio della casa discografica che mi ha spedito il CD è stato gentilissimo, la confezione è la stampa sul CD sono molto carine, la copertina mi piace e poi si parla di italiani che cercano fortuna all’estero, dove già si sono conquistati il rispetto di artisti di prima grandezza. Insomma, vuoi per questo motivo, vuoi per quello, non me la sono sentita di affondare il colpo. Gli elementi positivi non mancano in questo mini dei Saint Four: c’è una grinta discreta, si sente un certo amore per il proprio mestiere, il taglio è veramente indipendente pur nel rispetto massimo, quasi ossequioso, dei classici. A mancare sono le canzoni, purtroppo. Si riprende un po’ il Dylan migliore, si scopiazzano i Beatles del crepuscolo rock (‘Dig A Pony’ clonata da ‘The Killer’), si cerca l’attitudine blues-root-southern di alcuni mitici gruppi yankee ma il risultato è oltremodo freddino, laddove le premesse richiederebbero un bel miscuglio di sangue e polvere. I Freewheelers sono un indubbio riferimento, e anche molti altri dopo di loro, ma quel che emerge è una pallida imitazione, lo spirito non si vede. E poi che brividi con la prima traccia (‘The Country You Were Born’), nel sentire quasi plagiata ‘Gli Spari Sopra’! Voglio dire: OK che puntate a farvi notare negli States e che laggiù questo orrido caprone non sanno minimamente chi sia, ma…insomma, se è per scopiazzare, puntate un minimo più in alto! Questo per tirare in ballo i meno che ho annotato sulla carta preparando questa recensione. Ci sta. Coi Satellite Inn Cantarelli ha fatto molto meglio, quindi è lecito che al primo vero album non resti su questi livelli creativi col fiato corto. E poi ha i suoi meriti a prescindere, per il fatto che ha preferito sudarsi quel poco che ha senza scendere a compromessi col mercato italiano, che di alt-country e rock-blues non ne mastica proprio. Riassumendo, un sei politico al personaggio e alla carriera più che a questo dischetto. Capita che gli album ricevuti "a sorpresa" lascino un po’ il tempo che trovano, ma nello stesso pacchetto di un ‘With The Saint Four EP’ magari ti arriva un disco come quello dei Woodpigeon, e allora tutto si riequilibra meravigliosamente. C’è la calma piatta e ci sono le cose belle, come la fantastica sorpresa dei canadesi. Ma questa è tutta un’altra storia e la racconterò un’altra volta. Presto.

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Bonnie Prince Billy @ Espace

28-4-2009

 

Doveva venire a settembre. Inaugurazione di questa grande stagione a Spazio, evento gratuito, troppo bello per essere vero. E infatti alla fine non se ne fece nulla. Rimpiazzato da Lydia Lunch in quell’occasione, il suo nome tornò a far capolino nei calendari eventi italiani dopo pochissimo, per una serie di tre concerti autunnali in altrettante chiese del milanese. Idea suggestiva, peccato che se ne sia saputo qualcosa a giochi fatti. Viste le strategie promozionali carbonare di quella fetta di tour, abbiamo seriamente pensato che Will Oldham ce l’avesse con noi. Ci ha smentito presto, con nuove date ed una riparatoria proprio a Torino. Spazio troppo piccolo per contenere tutti, data anche l’assenza di un ulteriore appuntamento meneghino, e quindi location spostata alla Sala Espace di via Mantova, luogo solitamente utilizzato per spettacoli teatrali. Coi giorni è cresciuta l’attesa. E’ arrivato ‘Beware!’ come disco delle conferme, sempre più pacato, sempre più tradizionalista, all’apparenza, sempre più country folk. E alla fine è arrivato anche lui, il principe, con bella banda al seguito e accompagnamento di una nuova amichetta scandinava. Anche Bonnie Prince Billy non si è sottratto a quella che, ultimamente, pare essere diventata la regola preferita dagli artisti folk in sede di concerti: lo spiazzamento. Ci aspettavamo una replica delle atmosfere degli ultimi due o tre album: delicate, eleganti, un po’ pallose per qualcuno. Lui ha scelto un approccio molto più vitale e diretto, suonando alcuni dei suoi grandi classici (‘A King At Night’, ‘Horses’, ‘Just To See My Belly Home’) con piglio decisamente rock. Molto bene così, anche se in termini acustici l’esibizione ne ha risentito. La sua voce arrivava a folate, non si distinguevano le parole nei passaggi più concitati. Non si può avere tutto nella vita, vien proprio da dire. Comunque bel concerto, generoso, appassionante. E lui è un grandissimo. Un mezzo pazzo, assolutamente. Timido prima, poi fuori di testa, carismatico dove non lo aspetti. E un musicista coi fiocchi. Va beh, questo lo sapevamo.

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Micah P. Hinson @ Spazio211

23-4-2008

 

Quello del piccolo cantautore del Texas è stato il concerto più sorprendente della stagione. Mi aspettavo una cosa tranquilla e snobbata dai più e invece ha totalizzato più presenze di qualunque altra serata nel locale di via Cigna. E il merito è tutto suo, Casador non ha portato spettatori o ragazze adoranti. E’ bastato questo anomalo folksinger a fare il pienone. Come sia stato possibile non è chiaro, ma a questo punto è innegabile che il fascino un po’ controcorrente di Hinson abbia contribuito a costruire un piccolo ma significativo culto in Italia, tra i fan della musica alternativa. Il suo nome gira da tanti anni ed è stato legato anche a piccolissimi locali in piccole cittadine. Di lui conoscevo bene i primi due LP, molto belli (soprattutto ‘The Gospel of Progress’), mentre ho recuperato ‘The Red Empire Orchestra’ con notevole ritardo. Anche questo è un buon album, con alcune canzoni decisamente emozionanti. Con la pazza sfuriata chitarristica iniziale Micah ha chiarito, senza equivoci, di che pasta è fatto: soprattutto dal vivo non bada alla bella forma perché è solo la sostanza che conta. Amici poco avvezzi col genere non hanno gradito troppo il concerto ma io ne sono uscito entusiasta. La generosità del cantante di Abilene mi è parsa inopinabile, anche la sincerità della sua prova. Ho percepito una bella coincidenza arte/vita, che non è proprio un elemento scontato quando si segue la musica dal vivo. Micah ha recitato se stesso con devozione assoluta e in tal senso non ha mentito. Perfetta aderenza alla dimensione estetica che da sempre lo caratterizza: spleen alcolico, maledettismo con lieto fine, sudismo schietto e fintamente polemico, dandysmo in pillole, eccentricità adorabili, rock’n’roll come ragione di vita. Queste cose tutte insieme fanno un ritratto bizzarro ma potente, come Micah e le sue canzoni. Può non piacere ma forse questo dipende anche da come ci si cala nel gioco. Performance così borderline richiedono di essere valutate tra le righe, necessitano di uno strumento interpretativo non complesso ma essenziale perché il tutto venga gustato con il corretto e disimpegnato entusiasmo. Un po’ come gli occhiali di carone a lenti rosse e verdi per i film o i fumetti in 3D. Adeguandosi a questa prospettiva si ha poi la sorpresa della scoperta dell’autenticità assoluta della proposta. Per me Micah è veramente un cantante genuino. Un piccolo Kaspar Hauser folk-blues. E fa anche tenerezza nell’ostinazione dei suoi atteggiamenti, compreso il romanticismo smielato nelle dediche alla scazzatissima moglie. Tra le altre cose ha fatto ‘Caught in Between’, ‘Close Your Eyes’, ‘Tell Me It Ain’t So’, ‘Beneath The Rose’, ‘Dyin’ Alone’ e ‘Patience’, tutte insieme. Il top resta il medley pazzesco tra ‘Diggin’ a Grave’ e ‘You Will Find Me’: uno scalone tra generi formidabile e rumorosissimo.

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