Month: marzo 2009

Barzin @ Spazio211

25-3-2009

  

Niente male questo Barzin alla fine. La prima volta che ho ascoltato ‘Notes To An Absent Lover’ non mi ha trasmesso granché. Forse non ero troppo concentrato, forse semplicemente non è un album a presa rapida e richiede pazienza a chi ci si dedica. Dopo qualche ulteriore seduta il disco è entrato decisamente nelle mie corde, sia i pezzi più diretti (ma non epidermici, quest’album non contiene spunti superficiali) sia quelli più introspettivi e lenti. Dubito che diventerà uno dei miei dischi dell’anno ma resta un’opera molto pregevole e interessante. Tante recensioni positive intercettate un po’ ovunque, ma nessuna che riporti il nome di Josh Haden tra i potenziali riferimenti per il cantautore canadese. Eppure chi conosce lo stile unico degli Spain non potrà non vedere evocato il fantasma di dischi come ‘The Blue Moods of Spain’ o ‘I Believe’ nei solchi di queste dondolanti riflessioni sull’amore mai sbocciato e sulle sue molteplici implicazioni nella sfera di una continua e febbrile ispirazione. Un lavoro personalissimo intriso di un retrogusto romantico mai banale, che Barzin ha saputo ricreare con bravura anche dal vivo. Live elegante, raccolto, raffinato, pacato. Peccato per l’acustica che non ha reso a pieno la gamma di sfumature della fantastica slide di Nick Zubeck.

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Hold Time

 

Non saprei dire con esattezza se ‘Hold Time’ si possa veramente definire una delusione, una delle prime e delle poche di questo scorcio iniziale di 2009, ma è certo che è al di sotto delle mie aspettative. Un po’ come ‘Atlantic Ocean’ di Richard Swift, è esempio di un pop non proprio ben a fuoco che imbastardisce il songwriting di ottimi autori folk, limitandone le suggestioni in maniera direttamente proporzionale al numero di soluzioni sonore impiegate. M. Ward non mi è mai stato troppo simpatico. Spocchioso come l’amico Oberst, da subito portato in palmo di mano da alcuni grandi personaggi della scena folk-rock statunitense, tendente a prendersi troppo sul serio. Bravo però, su quello non ci piove. Temevo che l’esperienza con l’incantevole Zooey Deschanel nel progetto She & Him potesse pesare negativamente sulle produzioni in proprio di Ward e il primo atto dopo quel passaggio sostanzialmente sembra darmi ragione. Non che ‘Hold Time’ sia una vaccata, assolutamente no. E’ un disco molto colorato, molto vario, molto audace. Troppo. Rispetto a gioielli come ‘Transfiguration of Vincent’ e ‘Post-War’ (ma anche a ‘Transistor Radio’) soffre per l’eccessivo accumulo di idee mal direzionate. Si trattasse dell’opera prima di qualche giovane sconosciuto ci sarebbe senz’altro da spendersi in buone lodi leggendone in prospettiva le intuizioni positive. Ma si tratta del sesto LP di un cantautore che aveva azzeccato un bel filotto di album notevoli, quindi, a conti fatti, ha tutti i segni di un’involuzione. Tantissimi spunti interessanti se valutati singolarmente, ma presentati nei brani come assortimento sontuoso e non troppo felice. Classico di chi pecca per eccesso di buone intenzioni, forse anche per incapacità di sintetizzare tutti i propri lampi.

Ward ha insistito anche nelle interviste su questa ricerca sperimentale di un suono che mescolasse l’alto e il basso, il colto e il popolare, il sinfonico e l’acustico: niente di male nel proporsi in veste kitsch di tanto in tanto (perché di questo in definitiva stiamo parlando, recuperatevi la disamina di Eco in ‘Apocalittici e Integrati’ e vedrete che ‘Hold Time’ potrebbe essere una versione aggiornata dei pastiche pittorici citati dal semiologo) ma per risultare credibili bisogna essere molto bravi nel maneggiare stilemi e formule anche contradditori. M. Ward non ci riesce. In un certo senso fa peggio dei Wilco in un analogo tentativo di dieci anni fa, quel ‘Summerteeth’ che almeno conteneva un sacco di buoni pezzi. Qui prevalgono i bozzetti, le trovate carine e niente più, giusto qualche aroma di canzone. Si soccombe per il troppo, si rischia di uscire un poco frastornati e senza un vero sapore nelle orecchie. Si salvano ‘Stars of Leo’, che fa tanto Lennon e ‘Fisher of Men’, il country che non t’aspetti. Convincono la giantsandiana ‘Outro’ e la Mwardiana ‘Blake’s Wiew’, riprove entrambe che spesso la strada vecchia è quella preferibile. Veramente da applausi solo la cover di ‘Oh Lonesome Me’, ma in questo caso gli onori sono da condividere con una superba Lucinda Williams.

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Tight Knit

 

Un nuovo disco dei Vetiver a brevissima distanza da ‘Things of the Past / More of the Past’. L’esperienza della reinterpretazione di vecchi pezzi country-folk, tutti nati nell’arco di un lustro appena (a cavallo tra i sessanta e i settanta), si è rivelata una palestra importante e preziosa per la band di Andy Cabic, evidentemente a suo agio nel confrontarsi con chicche da noi praticamente sconosciute (io avevo sentito solo il pezzo di Loudon Wainwright III, senza lasciargli il cuore comunque) eppure senz’altro significative nella formazione di questo autore. Uno che è considerato inesorabilmente un minore, uno dei tantissimi, ma ha cominciato a volersi smarcare dall’ombra lunga dei trascorsi con l’ingombrante Devendra Banhart. Se i risultati erano stati veramente sorprendenti con l’album di cover, di cui ho intenzione di parlare presto in maniera più diffusa, con questo ‘Tight Knit’ si torna coi piedi per terra ma con la consapevolezza di una buona maturazione nel songwriting di Cabic, più smaliziato e disposto a rischiare qualcosa uscendo qua e là dai binari sicuri ed ovvi di un folk intimista piacevole quanto ripetitivo. C’è meno effetto sorpresa ma una buona varietà di soluzioni, compreso un finale lisergico come non ne sentivamo da un po’ (e una strana parentela col vortice di ‘A day in the life’, tanto per tornare sempre alla casa madre). Soprattutto, al di là della pregevole scioltezza compositiva di Cabic, è formidabile il senso di piacere che gli arrangiamenti di queste canzoni trasmettono: più del valore in sè di ogni brano, c’è la comoda gratificazione all’ascolto, continua, morbida, avvolgente. Sarà pure epidermica come goduria, ma è sempre meglio di un disco dei Killers.

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Vic Chesnutt & Elf Power @ Spazio211

20-3-2009

 

E così anche il nome di Vic Chesnutt viene finalmente depennato dalla mia interminabile lista delle cose da fare, alla voce "concerti da vedere". Gradimento alto, a livello delle aspettative. Diversi elementi in questa esibizione mi hanno colpito abbastanza profondamente e qui li riporto. Per prima cosa la persona nascosta dietro l’artista, anche se sarebbe più corretto scrivere la persona "nell’artista". In effetti questo è stato uno dei rarissimi casi in cui ho letto una sovrapposizione perfetta delle due dimensioni. Può sembrare una forzatura ma vi assicuro che non lo è. Chiunque abbia assistito ad un concerto di Vic ve lo potrà confermare: la persona e il personaggio coincidono perfettamente. Forse da questo più che dalla semplice constatazione della sua ovvia diversità fisica nasce l’emozione che abbiamo provato. Non c’è atteggiamento. C’è un puro modo di essere, non un vero recitare. Vic sul palco è se stesso esattamente come sotto. Questa cosa traspare ed è potente. Poi c’è lui, che è impressionante per la passione che sa trasmettere. Ama quello che fa perché è la sua unica ragione di vita. E’ una lotta, lo si intuisce leggendogli addosso una stanchezza allucinante dopo un’oretta scarsa di concerto. Quelle mani così malridotte fanno l’impossibile. Accartocciato sulla carrozzina cerca sempre di dimostrarsi all’altezza della sua immagine interiore, quel volatile leggero che spicca il volo come il piccione di ‘North Star Deserter’. Lui entra in scena così, con un geniale espediente che alleggerisce l’imbarazzo, sdrammatizza, dona un tocco d’ironia e, perché no, di poesia. Stasera Vic mi ha dato davvero tantissimo. Gli ho fatto firmare le copertine di ‘Little’ ed ‘About To Choke’, oltre al cartonato di ‘Dark Developments’ ma lui lo ha fatto con grande gentilezza. Era sorpreso di ritrovarsi lì quelle vecchie cover. Gli ho dato la mano, ha capito quanta ammirazione provavo. Ho cercato di abbracciarlo e lui mi ha agevolato, sempre sorridendo, sempre con ringraziamenti (era lui che ringraziava me, roba da pazzi!). In scena mi ha fatto tenerezza più che compassione: lo guardavo sulla sua sedia, mentre dava il 200% per dimostrare quanto tenga a questo scampolo di vera vita. Non lo guardavo con pietà ma con grandissima ammirazione, con un sorriso di stima stampato in faccia. Era buffo come un bambino, disarmante e entusiasmante come solo i bambini sanno essere. Poi c’è stata la prova in sè, anch’essa superba. Merito anche di questi grandiosi Elf Power. Andy Rieger l’avevo sempre sottovalutato ma ora mi ricredo: sono band come queste a riservare le più belle sorprese. Stasera non sono state molte, anche perché si era in cerca di conferme più che altro. Quella ‘Indipendence Day’ però, beh…è tutto Vic Chesnutt, tutto il suo meglio. Ora devo solo ricordarmi di appuntarmi il suo nome nella non proprio interminabile lista delle cose da rifare, alla voce "concerti da rivedere".

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Novità dal Canada

 

Andre Ethier è veramente un caso anomalo. Resta un personaggio non facilmente incasellabile nella attivissima scena indipendente canadese, nell’abito della quale continua a rimanere ai margini. La stessa cosa vale comunque anche nel più vasto universo del folk contemporaneo, dove la scrittura di questo artista replica la propria orgogliosa diversita, il suo essere assolutamente borderline ed il cercare con ostinazione contatti con registri musicali diversi, rimescolando di continuo le carte e arrivando per l’ennesima volta a spiazzare (positivamente) l’ascoltatore.

Ethier è un folksinger per caso. C’è ancora chi lo considera semplicemente il leader di una band garage-rock tra le meno fortunate degli ultimi tempi in Canada, gli ottimi The Deadly Snakes, senza ricordarsi che quel gruppo si è sciolto oramai da tre anni, dopo aver licenziato un disco di nome ‘Porcella’. Al di là di questa, che è stata la sua più ambiziosa incarnazione sino ad oggi, è importante ribadire che gli stimoli di Ethier non si sono esauriti con quell’esperienza e che il nostro ha già pubblicato quattro LP in proprio nell’arco di un lustro scarso.

Il nuovo album non smentisce quanto di buono proposto in precedenza, confermando sostanzialmente pregi e difetti di un autore quantomai curioso ed imprevedibile ma anche troppo discontinuo. Già nel titolo, ‘Born on Blue Fog’, è presente la citazione scoperta del lavoro precedente (‘On Blue Fog’), di cui questo si pone come ideale prosecuzione lasciando intuire una genesi creativa comune. Un po’ come per ‘The Stage Names’ e ‘The Stand-Ins’ degli Okkervil River, stessa dinamica di pubblicazione e stessa ingannevole offerta di finti scarti in saldo. Anche in questo caso la seconda uscita è inferiore alla prima per quanto non di molto.

 

Non è un particolare da poco il fatto che nessuno di questi nove brani assomigli sensibilmente agli altri: è indice di estrema varietà stilistica e compositiva, una delle migliori doti del canadese. L’inizio, soprattutto, è di quelli folgoranti: ‘The Only Wine I Crave’ si presenta con una trama folk quasi vorticosa dal sapore russo, ad incorniciare l’inquietudine notturna di questo raffinatissimo chansonnier. Sembra una sorta di Bill Callahan accompagnato dai violini malinconici di Drake, in un contesto nebuloso ma estremamente controllato, con un equilibrio che ha del miracoloso. Il piano e il fantastico sax che impreziosiscono la successiva ‘Easiest Game’ accentuano il mood umbratile e vellutato che è tanto congeniale ad Ethier. Un passaggio di squisita fattura ed elegantemente jazzato, dove niente è fuori posto o di troppo, che ricorda (anche nel cantato) un altro personaggio poco noto che amava esplorare i medesimi territori, Eric Wood.

Se il resto dell’album si mantenesse su questi livelli, potremmo parlare senza azzardo di capolavoro. Non va esattamente così, ma bisogna dare atto ad Ethier di essere uno che non si fossilizza su formule comode e trite, preferendo fallire pur di provare comunque qualcosa di poco convenzionale. L’eco del cantante di Tanworth-in-Arden torna con prepotenza in ‘Polynesian Beach’, dove il calore del folk viene contaminato da lampi sinfonici e da estemporanee sortite in ambito space-rock: il risultato è un mix squilibrato e di non facilissima digeribilità, eppure ha un suo fascino. Se si esclude la maggiore ordinarietà dell’ispirato frammento voce&chitarra di ‘Black is the Colour of My True Love’s Hair’ (quasi una curiosa versione scura e narcotica del singolo apripista del nuovo di Elvis Perkins, ‘Shampoo’), rarefatto ed essenziale ma abbastanza caldo, prevalgono soluzioni piacevolmente squinternate e deraglianti. ‘Infant King’, ad esempio, ha nella chitarra elettrica la sua luminosa protagonista ma evita strade già battute facendo ricorso all’insolita commistione con gli archi, con esito vivace. Altrove restano ben percepibili pose e citazioni dai più svariati riferimenti: ‘Heaven Above You’ è una parentesi meno movimentata nella quale l’hammond conferisce un retrogusto blues elegante e non sporco che può ricordare il primo Waits; ‘By The Stables’ insiste nel proporsi come prova di folk sui generis, scarno e pesantemente dominato dagli archi, à la Ilya Monosov; prima della chiusura minimalista e gentile di ‘Can’t Go Back Again’, ‘Copkiller’ impatta con un taglio grintoso ed incredibilmente dylaniano. In definitiva ‘Born on Blue Fog’ è un album denso di spunti e di suggestioni non troppo coerenti tra loro. L’opera forse interlocutoria (ma interessante) di un artista che potrebbe riservare grosse sorprese in futuro.

 

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L’ultimo dei Folksinger

 

Adam Arcuragi è il prototipo del cantante folk contemporaneo, pregi e difetti inclusi nel pacchetto senza facili distinzioni tra gli uni e gli altri. A guardar bene è anche il prototipo degli artisti di ultra-nicchia che ascolta il sottoscritto con ampie aspettative ed altrettanta pazienza, meritandosi (ma solo qualche volta) le prese per i fondelli di quegli amici che non hanno la più pallida idea di chi sia anche solo Will Oldham, tanto per non allontanarsi troppo dallo stile in questione. Adam si presenta come un autentico signor nessuno, canta le sue canzoni con buona convinzione e non si sforza minimamente d’esser originale. Lo si ascolta una, due volte. Si conclude dicendo che non è infame ma nemmeno merita chissà quale particolare elogio. Tuttavia si torna a cercarlo, magari lo si incrocia per caso lì in cima alla lista artisti dell’ipod e in certi giorni gli si concede senza troppe resistenze una nuova occasione. Come lui ce ne sono tantissimi altri, ma per l’apparentemente trita formula da lui proposta, oltre a quel cognome così strano ed improponibile, mi viene da considerarlo con affetto un po’ l’ultimo dei cantanti folk. Non il peggiore, attenzione. L’ultimo, inteso come paradigma della categoria tutta, come attore non vincente che gioca la sua onesta partita a carte scoperte con i propri limiti in bella vista. Ecco, Arcuragi rappresenta il limite stesso del cantautorato folk statunitense, per questo non mi viene da pensare ad altri dopo di lui. E’ esaustivo e cruciale, senza saperlo e senza volerlo.Troppo facile vestirsi da detrattori quando si incontra un Adam Arcuragi. Per chi detesta il genere, questo ragazzo di Philadelphia ha un po’ tutti i tratti tipici del songwriter appassionato e sfigato. Per chi non concepisce musica più lenta dei Libertines, Arcuragi è palloso. Forse non solo per quella ristretta cerchia di fruitori di musica più o meno indipendente. E’ vero, a volte non è un mostro di carisma e di energia, ma che volete farci, rientra nella linee fondamentali del personaggio e dei modelli ai quali si rifa.
 

Questo disco d’esordio, omonimo come sempre avviene in circostanze e con protagonisti simili, risale a poco più di due anni fa. Edito dalla piccola High Two, vanta alcune canzoni interessanti e parte subito nel segno dell’eccesso, provando a mettere sulla brace una costoletta iniziale succulenta ma fallendo, come da copione, già il primo obiettivo. ‘All The Bells’, beninteso, non è affatto un pezzo da buttare, no davvero. Però si sente che Arcuragi ha risposto in essa così tante speranze da farsi prendere la mano e limitandone in parte l’impatto positivo. Quel taglio acustico lo-fi che sa di presa diretta en plen air, con corredo di cinguettii di passeri, riporta direttamente alla meravigliosa esperienza di Mike Mogis con i suoi Lullaby For The Working Class (mi viene in mente l’apertura di ‘I Never Even Asked For Light’), di cui replica l’atmosfera accorata, spontanea e senza troppi fronzoli. Purtroppo a questo incipit manca quella leggerezza e il brano finisce col diventare un brodo allungato veramente oltre il dovuto: prolisso e un po’ sguaiato. A difesa del lavoro di Arcuragi bisogna comunque riconoscere che, per trovare un’altra canzone con analoghe penalizzanti caratteristiche, si deve arrivare addirittura alla traccia numero dieci (l’effimera ‘The Screen’, né carne né pesce, disgraziatissima a livello vocale). In mezzo dunque sta il vero album di Arcuragi, con dentro poche intuizioni degne di questo nome ma con tanto genuino entusiasmo. Assolutamente rappresentativa dell’autore – sottotitolo frenetico compreso – è ‘1981 (Or Waving At You As We Part At Light Speed Will Look Like I’m Standing Still)’: ispirata, più sfumata, meno monocorde, pur con quel mood sofferente e un po’ lagnoso con cui Adam tende ad appesantire il proprio stile trascinando strofe e ritornelli. Non rinuncia comunque al taglio secco ed autentico che lo rende piacevolmente ruvido ed enfatizza la sua convinzione. Ulteriore passo avanti, in teoria, arriva con la successiva ‘Delicate’, tenue e smorta lovesong al bromuro assai curata negli arrangiamenti e nelle ombreggiature, in cui Arcuragi gioca a fare il Kozelek e si fa scortare da un violoncello. Ho scritto “in teoria” perché si tratta forse di una canzone molto valida, ma per gustare la quale è necessario essere davvero nella più adatta disposizione d’animo. A questo punto il disco decolla, grazie ad una sequenza indovinata di tre ottimi pezzi. ‘Little Yellow Boat’, miglior titolo dell’album, colpisce per leggerezza e vivacità. Rinunciando alle facili pose Adam fa centro, vince per la semplicità di una proposta in cui tutto funziona miracolosamente bene, dalla trama essenziale della chitarra ad una voce che sceglie di non forzare e convince senza infastidire. Delicatissima la coda. Analogamente,‘The Song The Singer Sings’ resiste alla tentazione delle comode esasperazioni per cui il risultato è molto equilibrato, controllato, credibile. In chiusura di filotto, ‘Rsmpa’ è incantata e frizzante il giusto, con una chitarra che si fa vellutata ed un pregevole lavoro sui cori. Qualitativamente parlando, la chiusura di ‘The Christmas Song’ resta su questi incoraggianti livelli (anche più calorosa e animata), mentre il resto del disco è inferiore ma non disprezzabile. La visceralità di ‘Broken Throat’ evita abbastanza agevolmente gli scivoloni delle due prove peggiori, ‘The Dog Is Dead, Amen’ spicca per intensità, intimismo e sobrietà formale, mentre ‘Part of The Sky’ si presta perfettamente come “chiusura del cerchio” nel discorso introdotto in precedenza sugli scenari e le potenzialità di un genere logoro ma ancora vivo: un ottimo esempio di folk estrememente convenzionale ma eseguito con bravura, senza sbavature e con ammirevole disciplina sul piano vocale. Non troppo impegnativa ma senza pecche evidenti e, in fin dei conti, emozionante. Forse Adam Arcuragi è tutto in una canzone come questa.

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Il gigante

 

Vic Chesnutt è forse il mio massimo eroe in ambito musicale. Il termine eroe non ha neanche troppo senso, in realtà ho smesso di avere eroi da quando ero in tenera età e mi cullavano la vita certe figure forti, soprattutto all’interno della famiglia. OK, gli eroi non esistono, ricominciamo il discorso. Vic Chesnutt è un grandissimo personaggio, forse quello che preferisco in ambito musicale. Banalizzare il senso dei propri argomenti parlando un po’ a sproposito di eroismo mi porta fuori strada. L’eroismo non è certo del ragazzino che si ubriaca e si schianta con la macchina. C’è la pena nei suoi confronti, che passa sopra tutto il resto. Ma l’eroismo è quanto di più fuori luogo. Ci sarebbe la rabbia per chi getta alle ortiche la propria vita e potrebbe fare lo stesso di quella altrui, il ché è anche peggio. Certo a diciotto anni si può sbagliare. E’ umano farlo ed è umano riconoscerlo. La parabola di Vic, dalla caduta alla riscossa, non è altro in fondo che un grande racconto di umanità. E ha dentro talmente tanto di questa materia che ci si può confondere parlando di eroismo. Vic Chesnutt non è un eroe ma una specie di gigante. Un piccolo grande uomo ed un piccolo grande cantastorie, senza eguali.

Per me ha rappresentato un tassello fondamentale. A sedici anni ascoltavo quasi esclusivamente dischi mainstream pubblicati dalle major e lanciati nella programmazione della MTV (americana) in heavy rotation. Dischi che oggi non ascolto praticamente mai ma dei quali non mi vergogno: Pearl Jam, Soundgarden, Nirvana, Radiohead, R.E.M., Smashing Pumpkins, Soul Asylum, tanto per citare i migliori. Di alternativo nulla eccetto un piccolo gracchiante folksinger di Athens. Come sempre all’epoca, mi bastò leggere da qualche parte di questo menestrello vicino di casa della mia band preferita, prodotto nelle prime incerte uscite discografiche addirittura da Michael Stipe (non Peter Buck, come sarebbe stato logico). Mi imbattei in tutti i primi dischi di Chesnutt da ‘Rock & Folk’, che all’epoca non stava ancora in via Bogino bensì in via Viotti. Facevo quinta ginnasio, spendevo tutti i soldi in dischi, anche se i soldi erano veramente pochi, diciamo buoni per un paio di CD al mese. Per questo motivo quella volta decisi di acquistare il primo album di quel cantante misterioso e quello nuovo nuovo, ‘Is The Actor Happy?’, anche perché avevo letto che Stipe cantava in un brano. Costavano una bella cifra come da tradizione di quel negozio di sanguisughe e non me ne capacitai: non riuscivo a capire perché dischi di etichette e artisti sconosciuti costassero anche più dei nomi miliardari sulle label colossali. Mi consolò il bel cartonato di ‘Is The Actor Happy?’. Nel ’95 confezioni non in plastica erano davvero una novità assoluta, soprattutto in Italia. Avevo letto che Vic aveva voluto espressamente che il nuovo disco non avesse i soliti case di plastica come personale risposta alla fragilità: "Cadono e si rompono e io ne so qualcosa di cosa significa essere rotti".

Entusiasta degli ascolti di quella musica così diversa da quella che mandavo a memoria in quegli anni da adolescente convenzionale (ma non troppo), tornai da ‘Rock & Folk’ neanche un paio di settimane dopo pronto a fare miei anche ‘West of Rome’ e ‘Drunk’. Non li trovai più, qualcuno mi aveva preceduto. Li ordinai e tornai il mese seguente, invano. Riprovai ancora e ancora ma non arrivavano. Intanto uscì ‘About To Choke’, che per fortuna riuscii a trovare. Anche ‘The Salesman & Bernadette’, acquistato addirittura da ‘Ricordi’. Ma quei dischi, stramaledizione, non mi sono mai arrivati. I commessi di ‘Rock & Folk’ mi spiegarono un giorno che la miserabile etichetta di Chesnutt aveva chiuso i battenti e i dischi non si trovavano nemmeno di importazione, che avrei dovuto attendere una ristampa. E così fu, ma nel 2004 o 2005, praticamente dieci anni dopo il primo tentativo. Avrei detto che di Chesnutt non si sarebbe più sentito parlare e invece ogni tanto lui si è fatto vivo di nuovo. Il penultimo passaggio, ‘North Star Deserter’,  è qualcosa di memorabile. Sarò di parte ma credo sia uno dei migliori dischi usciti negli ultimi dieci anni. Uno dei pochi che resteranno e diventeranno ‘classici’. Nell’intervista che gli ho fatto, solo via mail ma comunque emozionante, Vic è stato di poche parole, stringatissimo ma gentile, simpatico anche. Ha annunciato un paio di nuovi dischi già pronti, uno dei quali con Guy Picciotto e i Silver Mt. Zion, di nuovo. Fantastico! Nell’attesa (enorme) di vederlo finalmente dal vivo, questa è davvero una grandissima notizia. Grande come lui.

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Wire @ Spazio211

27-3-2009

 

 

Quante parole elargite con leggerezza a proposito di modesti gruppuscoli di oggi. Parlo di me, che sono a volte troppo fatuo e tendo ad infiammarmi di entusiasmo per un nonnulla. Ma parlo anche di certe sbrodolature odiose che si leggono a volte sul web o sulle riviste, non necessariamente di esagitati e glabri fan al primo concerto della vita. Forse siamo tutti un po’ troppo generosi, forse c’è una certa stanca tendenza al mediocre alla quale ci siamo abituati e che ora nemmeno riusciamo a rilevare (la solita storia della ranocchia messa nella pentola con l’acqua fredda e molto lentamente riscaldata, vale anche per il quadro politico, anzi, pare proprio tagliata per descrivere quell’aspetto del nostro presente). Non so. Forse questa sorta di sfogo gratuito e generalista non ha nemmeno troppo senso e farei bene a tacere, ma… Beh, venerdì scorso c’erano i Wire in cartellone allo Spazio, hanno appena finito questo benedetto nuovo tour. Non li avevo mai visti dal vivo. Ero stato assai tentato nell’ultima edizione del Traffic ma io non sopporto gli eventi di massa, tanto più quando sono gratuiti e ti buttano in sequenza su uno stesso palco i Sex Pistols e i Wire (tanto è tutto punk, no? Fatemi il piacere, va) costringendo il pubblico dei secondi a sorbirsi non solo i primi ma anche il loro pubblico. Mi spiaceva non esserci andato, credevo fosse stata comunque un’occasione persa e invece loro mi hanno prontamente smentito.

Dici Wire, dici 2009 e sei libero di storcere il naso. Band con i migliori dischi che risalgono a tre decadi fa abbondanti, band che si sciolgono e si rifondano, senza soluzione di continuità. Ci sarebbero abbastanza spunti da restare quantomeno scettici di fronte a questo nuovo appuntamento degli inglesi con il nostro paese. Invece esce la notizia e sono contento. Ne parlo con Paolo e Iuri. Nemmeno loro riescono a capacitarsi di come una band di quella fama, per quanto sempre limitata ad un ambito di nicchia (una grossa nicchia, beninteso), possa far stare tutti gli eventuali appassionati dentro un locale carino ma angusto quale è di fatto lo Spazio. Questo nonostante i capelli grigi dei protagonisti, nonostante un cantante che più invecchia e più somiglia ad Albano, nonostante un disco recente dignitoso ma quasi pop, ben scritto ma scarico se raffrontato impietosamente con un ‘Pink Flag’ o anche solo con un ‘Chairs Missing’. E invece no. I Wire ci hanno dato una grande lezione di energia, serietà e carattere, tutte qualità di cui difetta la maggior parte delle formazioni sulla cresta dell’onda alternativa oggi come oggi. Bestiali, granitici, precisi, monumentali. Avessi avuto un cappello me lo sarei tolto. Mi sono limitato a fare quel che potevo, ovvero mi sono spellato le mani di applausi, come tutti gli altri 500 (sì, 500, allo Spazio!) spettatori. Che dire, lezioni del genere servirebbero a tutti, almeno una volta al mese. Cavoli come sarebbe bello!

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