Jpod _Letture

       

Era un blog d’argomento musicale (generosamente autoproclamatosi tale), è diventato un raccoglitore di pseudo-recensioni di libri, anzi, quasi solo di opere di Douglas Coupland. E, a proposito di Coupland, con “Jpod” siamo un po’ al nadir di una carriera che troppo a lungo ha citato e riciclato se stessa, lo stesso immaginario pop, la stessa giocosa nostalgia e il medesimo breviario di disincanto pronto all’uso. Alla decima replica, sempre meno credibile e sempre più inquinata dal narcisismo (e dalle relative invasioni di campo), è inevitabile che qualcosa non funzioni più come un tempo. Se gradite queste atmosfere e questi personaggi tra il geek e il nerd, virate con decisione su “Microservi”, che è il modello a fronte della caricatura che non fa ridere.

Tra di loro si considerano reciprocamente alla stregua di “vacui cartoon umani”. Sono un campionario delle più disparate eccentricità pop partorite dalla sottocultura di massa degli anni ’80 e ’90, e condividono in sei un bizzarro habitat cubicolare, affettuosamente ribattezzato jpod in onore dell’iniziale dei loro cognomi, in seno a una mega-multinazionale canadese. La loro sfida più grande consiste nel mantenere la loro integrità di beati eletti nell’universo dei geek da battaglia, e soprattutto in quell’”avere un lavoro senza lavorare”, obiettivo davvero arduo da raggiungere all’interno di una compagnia “in cui la produttività viene misurata con ogni sistema metrico mai concepito dall’uomo”. Cowboy vive segnato dall’ossessione per la morte e l’astinenza sessuale; il “malvagio” Mark è sprovvisto di qualsivoglia senso dell’umorismo ed è puntualmente bersagliato dai compagni per questo; John Doe è cresciuto in una comune di invasate hippie che lo ha preservato, suo malgrado, da ogni possibile forma di contagio mediatico e commerciale, ragion per cui la sua massima aspirazione è al conformismo più disarmante, anche in ambito sessuale; Bree è per converso affetta da una specie di ninfomania d’elite che la rende fragile quanto volubile negli interessi come nelle relazioni; Kaitlin tende a recitare nei panni della prima della classe o semplicemente è solo la più sana di mente, e fatica per questo a integrarsi in un team che vive con estrema ripugnanza; con una simile accozzaglia umana in guisa a fargli da controparte d’elezione, parrebbe avere vita facile come specchio della normalità il mite Ethan, quello più razionale, meno infognato con gli assurdi dettami della filosofia nerd, quello che sembra provare sentimenti meno morbosi e più ortodossi (rivolti masochisticamente verso l’ostile Kaitlin, ultima arrivata).

L’apparenza inganna, e al lettore non serve troppo tempo per accorgersene. La quotidianità del giovane protagonista è infatti ammorbata da una coppia di genitori fedifraghi che sono un esplosivo coacervo di stravaganze e pericolose inclinazioni: mamma ha una piantagione di hashish in cantina, amanti più o meno giovani di entrambi i sessi e più di uno scheletro nell’armadio di cui sbarazzarsi con l’aiuto del malcapitato figlio; il babbo è invece un fallito il cui solo scopo nella vita è quello di ottenere finalmente una parte con battute in pellicole di infimo livello o spot pubblicitari (non ci riuscirà), e che affoga la propria rassegnazione nelle gare di ballo, nelle miscele di rum e Gatorade e in occasionali relazioni con le vecchie compagne di scuola dei figli. Figli, perché nel cast rientrano anche un fratello, Greg, agente immobiliare, e soprattutto il socio di quest’ultimo in affari tutt’altro che leciti, il minacciosissimo Kam Fong. Riusciranno i sei scoppiati del jpod (e il loro capo Steve, insopportabilmente idiota e ordinario, prima che un grosso trauma e l’eroina lo rivoltino come un calzino) a completare la progettazione di un videogame di skateboard, sabotato dai superiori con sceneggiature infantili o orrende derive fantasy, prima che l’azienda riveda i suoi piani e opti per la cancellazione? Tra lettere d’amore al clown di McDonald, Ronald, bizzarri esercizi matematici, brevi interviste (onanistiche) per fantomatici corsi di inglese e intere paginate di ciarpame informatico, assisteremo al naufragare di un candido sogno per perdenti, rimpiazzato dall’edulcorante sapore di una realtà vincente.

Per quanto destinata, magari, a lasciare il tempo che trova, una pur dozzinale analisi critica di “Jpod” non può in alcun modo prescindere dai necessari paralleli con le più simili tra le precedenti opere dell’autore. La domanda corretta da porsi, a romanzo ultimato, dovrebbe essere: “cosa resta della mitica Generazione X, quindici anni dopo?”. La risposta è nelle vostre mani, abbastanza impietosa. Non certo quel respiro ampio per quanto vago, generazionale appunto, che in quell’opera prima era una benzina sorprendente nonostante una prospettiva di sconfinato disincanto. Gli (anti)eroi di “Jpod” potrebbero essere i fratelli minori o, meglio, dei cugini giovani, ma in comune con Andy, Dag e Claire hanno davvero pochissimo. Non quello spessore “umano” fatto di debolezze e disorientamento, reso nelle psicologie con tendenza alla stilizzazione ma anche buona efficacia. Al confronto, questi quasi trentenni sono caricature del modello invecchiate male, figurine di carta ideate per rendere alla meno peggio una certa idea del disordine di questi anni, in ambito sentimentale, comunicativo, culturale. delle surreali favole di allora, praticamente non vi è traccia. La testimonianza confusa ma sincera dello smarrimento di quello che all’epoca era il ceto medio lascia il posto a una generale tendenza al divertissement, alla stravaganza pacchiana, al bombardamento di stimoli e rimandi a tratti contraddittori, che tendono a solleticare l’epidermide del lettore, a distrarlo senza soluzione di continuità. La trama semplice e divagante di un tempo è rimpiazzata da un groviglio di situazioni anche divertenti, ma fondamentalmente iperboliche e assai poco credibili. L’universo geek raccontato con grazia ed equilibrio mirabili in “Microservi” (ad oggi il vero titolo imperdibile dello scrittore canadese) è qui ridotto a una barzelletta che non fa nemmeno particolarmente ridere, una scenografia di cartapesta, un fondale privo di profondità, un pretesto più simbolico che altro, anche se svuotato di significati degni di una qualsiasi riflessione.

Poi certo, Coupland è sempre il solito fenomenale intrattenitore: infarcisce anche questo testo di dettagli grotteschi, curiosità assortite da fanatici della rete, spiccioli di weirdness colorata, tuffi a bomba nel grande e un po’ avvizzito calderone degli anni ottanta, con quell’immaginario condiviso che in maniera non troppo onesta ci pungola nel vivo, nostalgia canaglia. Non c’era internet ai tempi, mentre oggi siamo alla sovraesposizione. Un po’ come per l’inventiva di un autore che ha già raccontato questo tipo di attualità fino alla nausea – certe volte bene, certe volte meno – e ora si vede costretto a fare i salti mortali per non ripetersi, ricorre a qualche baracconata di troppo e sostanzialmente fallisce. Lo stratagemma di menzionare se stesso nella prima frase del libro, in qualità di residuato di una cultura pop bersagliata ma in fondo amatissima, poteva e doveva valere come campanello d’allarme. Alla quarta autocitazione, il narcisismometro tendeva ormai pericolosamente alla soglia di massima criticità. Ma ridursi a fare di sé un personaggio tra gli altri, ferocemente cinico poi (ma chi ci crede?), solo per ritagliarsi il più comodo degli alibi narrativi è un colpo davvero basso, duro da incassare, una trovata del tipo “raschiamo la morchia in fondo a questo barile” che dal buon Douglas non ci si aspettava. Tre stelle comunque, perché quest’uomo rimane un dannato, adorabile, fratello maggiore.

6.4/10

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